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Sonnino A. - Considerazioni sull’uso dei farmaci in pazienti in trattamento analitico (2014)

17 gennaio 2014

Considerazioni sull’uso dei farmaci in pazienti in trattamento analitico

Alberto Sonnino

La psicoanalisi, disciplina profondamente rivoluzionaria rispetto alla cultura dominante, alle concezioni antropologiche, nonché rispetto al concetto di malattia e di cura, ha in realtà sempre tollerato con diffidenza e difficoltà qualunque cambiamento, relativo al proprio modello teorico ed alla sua applicazione tecnica, pur sorto nel suo stesso interno. Ne è conferma la forte opposizione di Freud a quei seguaci che abbiano proposto innovazioni teoriche, e quindi tecniche, che non fossero in linea con i propri principi, il travaglio con cui ha vissuto l’evoluzione della teoria da se stesso elaborata ed il fatto, inoltre, che i parametri, cosiddetti intrinseci ed estrinseci del modello psicoanalitico, si siano mantenuti immodificati per oltre un secolo. Pensiamo, a questo riguardo, al fatto che, dopo la pubblicazione dei primi manuali, risalente per lo più agli anni quaranta e sessanta (Fenichel, 1941; Glover, 1954; Greenson, 1967; Racker, 1968; Etchegoyen, 1986), non sia più stata rielaborata in modo sistematico ed organico una trattazione esaustiva della tecnica analitica, anche alla luce di quegli ampliamenti della teoria che, malgrado tutto, si sono susseguiti nei decenni e che hanno permesso alla psicoanalisi, non solo di sopravvivere, reggendo oltretutto il confronto con le Neuroscienze con cui può dialogare su un piano di dignitosa pariteticità, ma anche di allargare il campo della propria applicazione clinica. La teoria psicoanalitica, infatti, come è noto, negli ultimi decenni si è modificata sia ponendosi in sintonia con i cambiamenti strutturali intercorsi nei pazienti (Gaddini, 1984), sia per la necessità di farsi carico di patologie prima per definizione escluse dagli interessi degli analisti, questo sebbene già dai primi anni del novecento non siano mancate coraggiose, pionieristiche, esperienze con casi all’epoca ufficialmente escludibili dalle indicazioni per un trattamento analitico[1]. Quindi, se da una parte siamo abituati alla tendenza della psicoanalisi a conservare immutate le proprie fondamenta, teoriche e tecniche, dall’altra abbiamo assistito ad un vasto allargamento, se non ad un vero e proprio cambiamento, di alcuni dei suoi concetti alla base del suo modello[2], che ha comportato un altrettanto vasto ampliamento delle categorie diagnostiche potenzialmente accettabili per un trattamento analitico. Ma tali sviluppi, interni ed inerenti al modello teorico ed alla metodologia psicoanalitica, che hanno quindi permesso di accogliere pazienti affetti da gravi patologie, come solo fino a pochi decenni fa non sembrava possibile, sono andati di pari passo con le contemporanee innovazioni che la ricerca in campo psicofarmacologico ha potuto realizzare e che hanno determinato sostanzialmente due fenomeni significativi: una migliore possibilità di cura per gravi patologie, con farmaci antipsicotici efficaci senza alterare nel paziente la sfera cognitiva, la vigilanza e la capacità di sintonia e di contatto con l’ambiente e con se stessi ed una vasta diffusione di terapie per la cura dei disturbi d’ansia e depressivi estremamente maneggevoli anche per il medico non specialista[3].

Conseguenza e risultante della “doppia rivoluzione”, quella in campo psicoanalitico, con l’apertura delle stanze d’analisi ai pazienti più gravi, e quella in campo psicofarmacoterapico, con la maggiore diffusione di farmaci per la cura dei disturbi d’ansia e depressivi e con l’introduzione di molecole di ultima generazione per la terapia dei pazienti psicotici, in modo che ne fosse salvaguardata la capacità di contatto con se stessi e con l’ambiente esterno, così da facilitarne gli investimenti oggettuali, sembra essere rappresentata oggi dal progressivo aumento del numero di analizzandi, affetti da patologie diverse, in contemporanea terapia psicofarmacologica, gestita dallo stesso analista o da un secondo specialista.

Dunque, in sostanza, se fino a pochi decenni fa la psicoanalisi si opponeva drasticamente alla possibilità che un paziente assumesse farmaci durante il trattamento, o quanto meno la tendenza prevalente era quella di scoraggiare tale pratica ritenuta originariamente un ostacolo al buon andamento del processo analitico in quanto oppositiva della regola dell’astinenza, riducendo la sintomatologia e quindi la sofferenza del paziente che avrebbe potuto così risentire di un depotenziamento della propria motivazione, o perché considerata un agito con effetti inquinanti sul transfert, oggi sono sempre più numerosi in letteratura resoconti clinici di casi in doppio trattamento, gestiti da due figure distinte, il medico prescrittore e l’analista, o gestiti dallo stesso analista, se provvisto dei titoli e della competenza necessari. Ma se, come abbiamo detto, sono ormai relativamente numerosi in letteratura i casi di pazienti in analisi che assumono psicofarmaci, ci sembra sia ancora drammaticamente carente una trattazione sistematica delle problematiche e dei significati impliciti in tale abbinamento. Nei trattati di tecnica, è oltremodo noto, si può infatti apprendere in modo dettagliato quali sfumature siano in campo sin dalla prima telefonata del paziente, si descrive come accoglierlo, l’importanza del setting e i requisiti relativi ai parametri estrinseci dell’analisi, quasi a stilare modelli di comportamento e di approccio che sembrano configurare quelle che in medicina vengono definite vere e proprie linee guida, ma non viene fornita nessuna indicazione precisa, almeno stando a quanto abbiamo fin qui potuto rilevare, su come affrontare le problematiche relative alle prescrizioni farmacologiche, affidate ad altri o gestite dallo stesso analista (Milrod, Fredric, Busch, 1988).

Le considerazioni che vogliamo proporre, attraverso esemplificazioni cliniche, ci sembra possano rappresentare, quindi, una traccia, senza alcuna pretesa di sistematicità o di esaustività, di alcune problematiche ed implicazioni presenti nelle terapie integrate o che da queste possono scaturire.

Diversi, quindi, come abbiamo detto, sono oggi gli autori che non solo indicano la crescente percentuale di analisti che seguono pazienti in un trattamento classico e che contemporaneamente assumono farmaci, ma vengono inoltre sottolineati gli aspetti favorenti il processo analitico che scaturiscono proprio dall’assunzione di psicofarmaci. Roose e Johannet (1998) citano Donovan e Roose (1995) secondo i quali il 20% di pazienti in analisi assumono farmaci, mentre il 60% degli analisti considerati dichiarano di avere in trattamento analizzandi in psicofarmacoterapia, rilevando inoltre che la coterapia, piuttosto che rappresentare un ostacolo al processo analitico, sembra poter favorire l’insight. Dello stesso parere è Olesker (2006), il quale fa riferimento proprio ad una maggiore efficacia dell’analisi con pazienti che assumono farmaci citando diversi studi (Kahn, 1991; Roose e Stern, 1995; Gabbard e Barlett, 1998; Greene, 2001; Basky, 2002). Ma anche tornando ai classici, i pareri non sembrano così discordanti come ci ricorda Freni (1994) che cita una lettera di Anna Freud (Lipton, 1983) la quale si sarebbe espressa in certi casi favorevolmente rispetto al ricorso agli psicofarmaci durante l’analisi così come sostiene anche Rosenfeld (1974) nel trattamento di pazienti psicotici. Nel complesso sembrerebbe comunque esserci un certo accordo sul fatto che l’analisi rimarrebbe elettivamente orientata sul trattamento dei disturbi “di tratto”[4], i farmaci sarebbero essenziali per i sintomi “di stato”, mentre, come ricorda anche Diena (1988), che riporta il parere di Luborsky (1976), Karasu (1982) e Smith (1980), l’integrazione dei due approcci sarebbe efficace lì dove si vuole intervenire contemporaneamente su entrambe gli aspetti: la sintomatologia fenomenologicamente rilevabile e la struttura di personalità (Freni, 1994; Roose e Johannet, 1998). Dello stesso avviso, inoltre, è anche Zapparoli (1988), il quale, rifacendosi a Bellak (1972) ed ancora a Rosenfeld (1972) e a Pao (1979), elaborato un modello di approccio alla psicosi pur sempre ispirato alla teoria psicoanalitica, ritiene che la psicofarmacoterapia sarebbe assimilabile in medicina all’anestesia che consente l’esecuzione di interventi chirurgici altrimenti impossibili. Questo, non solo per il necessario controllo in tante situazioni dell’agitazione, dell’aggressività e della confusione, ma anche per favorire il livello di tolleranza del paziente quando, attraverso le interpretazioni, viene messo in contatto con vissuti particolarmente dolorosi, anche se occorre evitare di inibire il transfert negativo, la cui elaborazione rimane necessaria per una effettiva integrazione del sé dell’analizzando.

Il ricorso ad una contemporanea psicofarmacoterapia, quindi, viene oggi in molti casi ritenuto non più pregiudizialmente un ostacolo all’analisi, ma può, al contrario, rappresentare un elemento favorente il buon andamento del percorso analitico. Prescindendo, dunque, da posizioni aprioristiche e ritenendo comunque che il criterio migliore sia quello di poter valutare nello specifico di ogni situazione, possiamo elencare alcuni dei fattori genericamente a favore di una integrazione e quali elementi possono al contrario controindicare il ricorso al farmaco, sia nella prospettiva di uno specialista prescrivente diverso dall’analista, sia nel caso in cui sia lo stesso analista a gestire anche la farmacoterapia.

Come abbiamo visto, dunque, l’uso del farmaco può rappresentare una risorsa utile lì dove sia necessario un controllo diretto di una sintomatologia “di stato” imponente o quando il livello di sofferenza del paziente sia elevato al punto di paralizzarne la capacità di mentalizzazione o di inibirne l’insight, mentre, al contrario, la farmacoterapia può rappresentare un ostacolo se usata per ridurre un malessere psichico, comunque tollerabile, e da cui il paziente può cercare l’allontanamento a scopo difensivo e di resistenza rispetto ai contenuti psichici sottesi a quei sintomi manifesti. Necessario sarà ovviamente prestare la massima attenzione alla lettura che sul piano transferale e controtransferale può essere fatta sia nel caso in cui l’analista decida o avalli una prescrizione farmacologica, sia nel caso in cui a questa si opponga. Olesker (2006) avverte, infatti, che il farmaco può ricevere proiezioni transferali di ogni tipo e può essere vissuto dal paziente come sostituto dell’analista, mentre, aggiungiamo noi, il ricorso alla prescrizione farmacologica, può anche rappresentare una agevole via di fuga per l’analista quando sul piano controtrasferale dovessero emergere vissuti angosciosi o difficilmente tollerabili come avviene in situazioni di emergenza se si dovesse intuire la presenza di rischi particolari, per esempio di tipo suicidario.

Una paziente gravemente depressa e con una storia di rapporti con figure genitoriali distanti ed indifferenti, nel corso di una seduta mi induce una sensazione di pericolo suicidario, facendomi fantasticare la possibilità di inviarla ad altri per un supporto farmacologico, in modo che l’emergenza potesse essere affrontata al di fuori del rapporto con me. Resistendo alla tentazione di una fuga e rimanendo in ascolto ed in contatto con la paziente senza incorrere nell’agito, tollerando, quindi, sul piano controtransferale la tensione emotiva che mi aveva trasmesso nella seduta e nei giorni successivi, è stato possibile per l’analizzanda sperimentare una condizione di accudimento empatico da parte dell’analista, disposto a sacrificare per lei la propria tranquillità e probabilmente per questo messo alla prova, così come le era mancato nella propria storia in rapporto alle figure parentali, riuscendo quindi a sbloccare da quel momento importanti risorse per superare l’inibizione e l’impasse presenti in quella fase. Scrive Purcell (2008): “Oltre ai significati transferali ci sono anche usi potenziali controtransferali della terapia farmacologica, così come interazioni transfero-controtransferali reciprocamente costruite … che richiedono un’analisi. […] Ad esempio, un analista potrebbe allontanarsi inconsciamente dall’intensità dell’esperienza emotiva di un analizzando, o dalla ripetizione inerente all’elaborazione di conflitti centrali, e razionalizzare la necessità dei farmaci per rassicurare se stesso, scindendo l’ansia e spostandola verso un problema neurofisiologico gestibile dai farmaci”.

Qualora si ritenga utile o necessario ricorrere alla prescrizione farmacologica, sarà inoltre indispensabile considerare quali implicazioni siano presenti se sia lo stesso analista a gestire il farmaco o se sia opportuno ricorrere ad un secondo specialista. Le fantasie del paziente in campo saranno infatti ovviamente diverse se sorte in relazione ad un analista “che può tutto” rispetto invece alla possibilità di orientare porzioni dei propri vissuti su un secondo polo, andando incontro ad una lateralizzazione o scissione del transfert (Greenson, 1967) che, se da una parte può favorire la diluizione del carico di aggressività o delle identificazioni proiettive che altrimenti potrebbero intasare l’unica via di deflusso rappresentata dal rapporto esclusivo con il proprio analista, dall’altra comporta il rischio di far perdere materiale che, se espulso dal setting, può essere difficile che sia riportato nel transfert con l’analista, l’unica cornice che ne permetta un’adeguata analizzabilità (Sonnino, 2006).

Rinviando al testo di Nielsen, “Pillole o Parole” (1998) per una più ampia disamina dei vantaggi e degli svantaggi rappresentati dalle due opzioni, analista prescrittore della farmacoterapia o invio ad un secondo specialista per la gestione del farmaco creando una condizione di doppio setting, vogliamo ora illustrare due situazioni cliniche nelle quali verrà descritto dapprima come il secondo riferimento possa essere usato dal paziente, in questo caso affetto da psicosi delirante mistica, a scopo difensivo, fino a realizzare una vera e propria fuga dall’analisi e quindi, con il secondo caso, come l’uso del farmaco, prescritto dallo stesso analista, anche in assenza di effetti significativi sulla sintomatologia manifesta, una grave ruminazione ideativa con isolamento sociale, possa aver aiutato il paziente, probabilmente grazie ad un depotenziamento significativo degli aspetti conflittuali, ad avvicinare un’area traumatica altrimenti fortemente rimossa.

 



1 Si pensi ai resoconti di Abraham sui pazienti maniaco depressivi, alle esperienze di Ferenczi, di Jung, prima della frattura con il movimento psicoanalitico, o alle stesse analisi condotte da Freud su pazienti oggi chiaramente diagnosticabili come psicotici.

2 Basti pensare all’allargamento del concetto di narcisismo, all’introduzione del concetto di transfert psicotico o all’individuazione del meccanismo di identificazione proiettiva.

3 Pensiamo alla scoperta della Clozapina, del Risperidone e di tutti gli altri neurolettici antipsicotici atipici, o di seconda generazione, efficaci sia sui sintomi positivi, produttivi floridi, come i deliri, le allucinazioni e la mania, sia sulla sintomatologia negativa, rappresentata dalla chiusura, dall’introversione e dal ritiro dal mondo esterno, senza compromettere la lucidità e la vigilanza e poi, ancora, all’introduzione degli antidepressivi inibitori della ricaptazione della Serotonina (i cosiddetti SSRI), privi degli effetti collaterali e delle controindicazioni caratteristiche dei farmaci scarsamente maneggevoli che erano in uso fino alla fine degli anni ottanta per la cura dell’ansia e della depressione.

4 I disturbi “di tratto” si riferiscono alla struttura di personalità e vengono classificati dal DSM (A.P.A., 1994) secondo l’asse II, mentre i sintomi “di stato” corrispondono alla patologia in atto e vengono collocati sul cosiddetto asse I.

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