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Barnà C.A. - Transfert e assetto analitico (2003)

ATTUALITA’ DEL TRANSFERT: Articolazioni, varietà cliniche, evoluzioni

3° modulo seminariale

IL TRANSFERT NELL’ORA ANALITICA

11-12 Aprile 2003

Per quanto tu cammini, e percorra ogni strada,

non potrai raggiungere i confini della psiche,

tanto si estende il suo logos. (Eraclito, V! Sec. a C)

Il miglior modo per comprendere la     

psicoanalisi  ancora quello di seguirne la

genesi e lo sviluppo. (S. Freud 1922)

Cono Aldo Barnà

Transfert e assetto analitico

Aderendo all’invito del nostro Segretario Scientifico, vorrei proporre, come contributo al tema di quest’anno, alcune riflessioni relative all’assetto analitico e al trattamento del transfert.

Mi sono molto giovato degli interventi già svolti nel corso del modulo e ringrazio per questo i colleghi che mi hanno preceduto, cos" come ho fiducia di giovarmi del vostro giudizio per verificare le mie convinzioni e per correggerle.

Spero per questo che non sia troppo complicato rintracciare, tra i ricorsi geroglifici del mio discorso, gli elementi di proposta relativi al tema. 

In ogni caso vi ringrazio di cuore fin da ora. 

Succede ogni tanto di incontrare situazioni della realtà, ma soprattutto letterarie, che si propongono come efficaci metafore della situazione analitica e soprattutto della sostanza di essa che in quel tempo stiamo cercando di distillare.

‘Lo  Stralisco’  il titolo di un bel libro per  ragazzi  (Piumini 1993).  Vorrei condividere con voi l’emozione che mi ha suscitato la sua lettura anche per la sorprendente attinenza della narrazione con il discorso che mi proponevo di svolgere in questo incontro.

Il libro racconta di Sakumat, pittore della città turca di Malatya, chiamato da Ganuan, signore della terra di Nactumal, presso il suo palazzo per affrescare le stanze dove vive il piccolo Madurer, il figlio infermo del burban.

Egli  malato di una strana malattia: ogni parte di sole e di polvere gli  nociva per cui non può vivere all’aria aperta e correre e giocare. Tutti i medici hanno consigliato fermamente che egli viva nella parte interna e più riparata del palazzo, che respiri aria filtrata da strati di garza umida, non abbia finestre o luce diretta , ma solo quella mandata nelle stanze da lucernari...

- Cosa desideri che io dipinga nelle stanze del tuo figliolo? chiede Sakumat.

- A questo non ho pensato, con precisione -disse il burban- lo decideranno la tua arte e il tuo pensiero.

- Ecco un’altra domanda. Come  l’anima del tuo figliolo? La sua sorte, dura per un bambino, lo rende infelice? E il suo volto e il suo corpo, come si potrebbe immaginare, sono inerti e chiusi, simili alle piante che non ricevono luce?

Il burban socchiuse gli occhi per un istante. La mano sulla cintura si rilassò.

- A queste domande non risponder amico mio -disse-, non perché non voglia: ma le parole di un padre non sono le più adatte per parlare del figlio. Sentendole, tu non potresti fare a meno di pensare quanto  grande l’illusione, e quanto  bugiardo l’affetto. Ma poiché hai accettato la mia preghiera, la risposta te la daranno direttamente il corpo, il volto e l’anima del mio figlio.

Nei giorni successivi Sakumat e Madurer stettero molto insieme, giocando e parlando.

- Che cosa dipingerai, Sakumat? - chiedeva il bambino.

- Non lo so ancora, Madurer. Ci ho pensato molto, ma la mia mente  rimasta vuota, bianca come le pareti di questa stanza.

- Per qualcosa dipingerai, vero?

- Certo, Madurer. Ma prima bisogna che ne parliamo, io e te. Bisogna che decidiamo quali sono i nostri desideri...

- Cosa ti piacerebbe vedere attorno a te? -chiedeva Sakumat - Che desiderio hanno i tuoi occhi?

- Sono molti , e un po’ confusi...Io ho guardato tante figure sui libri che il burban, mio padre, mi ha donato... Tutte queste immagini mi sembrano belle e desiderabili, Sakumat, e stanno insieme nella mia mente. Non riesco a scegliere...

Ci fu un breve silenzio.

- Forse non  necessario scegliere -disse il pittore,  -occorre solamente mettere ordine nelle immagini e nei desideri.

- Cosa vuol dire, Sakumat?...

-Posso dipingere molte delle immagini che conosci. Ma bisogna che mi racconti le cose che hai veduto, e le immagini che ti sono care. Devi accompagnarmi a fare un viaggio nel tuo pensiero. Poi decideremo, e io ti aiuterò...

Madurer tacque a lungo, pensando. Poi disse:

- A volte, Sakumat, io faccio dei sogni: e nei sogni le figure si mescolano stranamente, e si confondono una con l’altra, e si trasformano in continuazione...

Dopo una pausa, Sakumat domandò:

- Vuoi che dipingiamo le figure come nei sogni, Madurer?

Il bambino restò in silenzio ancora. Poi sorrise e disse:

- No! Dipingiamo il mondo. Ai sogni ci penso io....

Tutti gli spigoli furono tolti: le pareti si stendevano attorno a Madurer e Sakumat come uno spazio morbido e ininterrotto.

Mentre i servi provvedevano a quel lavoro, il burban fece chiamare il pittore e così parlò:

- Ti ho chiamato nella mia casa per fare a mio figlio un dono insolito... Ora, mi accorgo, sta diventando un dono miracoloso....

- Che cosa ti fa dire adesso, burban, che il dono a tuo figlio  miracoloso? - Chiese Sakumat pacatamente.... - Oggi ancora, se cerchi un solo tocco di pennello sulle pareti delle sue stanze, non lo troverai...

- Si! - fece Ganuan annuendo - io so ora che la tua mente, e quella di mio figlio sono piene di immagini e figure stupende. So che se riuscirai a dipingere anche solo la decima parte di quello che insieme state immaginando, il tuo sarà un lavoro ammirevole...

Ganuan tacque, versando tè fresco all’ospite. Bevvero guardandosi negli occhi, come usano gli uomini di quel paese per dimostrarsi, senza parlare, riverenza e stima, e mostrare di non avere nulla da temere o da far temere....

Il libro prosegue con la narrazione della lunga relazione e del lavoro del bambino e del pittore che, allo scopo, si trasferisce a vivere nelle stanze del bambino.

Soprattutto viene narrato il ‘metodo’: alla fine, più che disegnare il mondo, essi, attraverso continue rielaborazioni e trasformazioni, disegnano il divenire del mondo, risultante dai loro discorsi a loro volta  trasformati dell’approfondimento e dell’evoluzione della loro relazione.

Ci riconduce a noi...

Ho fatto esperienza di come la frequentazione quotidiana della ‘situazione psicoanalitica’ (Stone 1961, Gill 1994) non abbia ridotto negli Ranni la forza della mia motivazione, n l'interesse per l'ulteriore comprensione del contesto operativo.

Con il termine "contesto operativo" mi riferisco appunto alla situazione psicoanalitica in generale, alla relazione paziente-analista, al setting  e alla seduta psicoanalitica in particolare.

Ritengo che l'immutato interesse intellettuale, così come la serena disposizione quotidiana a rientrare nel ruolo, a fronte di congiunture esistenziali e nocività varie -piuttosto rappresentate nel nostro lavoro- attengano ad una funzione curativa che la situazione analitica svolge per l'analista: almeno per me.

Penso infatti che l'esercizio quotidiano della psicoanalisi curi noi terapeuti non meno dei nostri pazienti, motivandoci in specifico a ri-assumere e mantenere quella ‘responsività di ruolo’  (Sandler 1976) che  poi lo strumento che consente al transfert di essere accolto e utilizzato all’interno della relazione.

Anche questa notazione ha senso soprattutto per |quello che vorrei riuscire a dirvi di seguito e per un più completo riconoscimento dell'azione terapeutica dell'analisi e dei suoi fattori.

Ritengo infatti provvisoria, malgrado la costante evoluzione della ricerca, la definizione di tali fattori e delle modalità con cui la psicoanalisi opera per produrre i risultati che le vengono riconosciuti, tenendo presente soprattutto il fatto che giovamento e vantaggi vengono riferiti all’analisi, da parte di persone che ne hanno usufruito in varie epoche della nostra disciplina e quindi in relazione a teorie,  modelli di riferimento e prevalenze tecniche piuttosto diversi tra di loro.

Penso perciò che le nostre teorizzazioni siano un tentativo provvisorio e ancora incompleto di interpretare gli elementi operativi e le valenze trasformative della prossimità specifica della situazione psicoanalitica e del dialogo che in essa si svolge.

Ciò detto aggiunger che trovo affascinante lo sforzo costante di tanti autori, appartenenti a generazioni successive di psicoanalisti, di continua ulteriore interpretazione del medesimo contesto, osservato da vertici differenti e a livelli diversi.

Osservazione appunto di un contesto che  rimasto formalmente abbastanza costante  malgrado la psicoanalisi si sia nel frattempo  misurata con le trasformazioni della domanda, delle prevalenze cliniche e del  quadro socio-culturale di riferimento.

Osservazione infine che  ha potuto dare luogo, nel tempo, alla produzione di mappe o modelli variamente divergenti  a motivo della pluralità dei vertici adoperati e dei differenti livelli presi in considerazione.  In altre occasioni invece sostanzialmente coincidenti per l’assimilazione dialettica di paradigmi diversi, non sempre contigui, ma provenienti, talvolta, da ibridazioni e/o contaminazioni  disciplinari più o meno congrue.

In questa caratteristica della sua ricerca, il gruppo psicoanalitico ha continuato a declinare, da un lato, la sua omogeneità con l’oggetto osservato, continuando a mostrare dall’altro, nella dialettica fedeltà/superamento paradigmatico, la sua costituzione edipica a partire dalla discendenza dal padre Freud e dalla sua ‘invenzione’ della cura (Gill 1994).

Ho già precisato altrove come io ritenga del tutto naturale che l’ampliamento delle esperienze cliniche, l’assunzione di nuovi vertici, il confronto con la ricerca di altre discipline e con gli avanzamenti epistemologici, tendano a trasformare continuamente i paradigmi e le posizioni teoriche e tecniche degli psicoanalisti.

Ricordavo anche, nella stessa occasione, come il dispositivo psicoanalitico proceda da quello  ipnotico a quello transferale, attraverso quello catartico,  fino all'attuale relazione psicoanalitica a partire dall'assunzione di elementi preesistenti nell'ambito della sofferenza e della donazione di senso alle angosce esistenziali e ai fantasmi dello sviluppo (cfr. Barn 1990).

Le caratteristiche suddette della ricerca psicoanalitica hanno dunque reso sempre più ricca, nel tempo, e più complessa la comprensione del contesto, dando luogo per a punti di vista ed interpretazioni apparentemente cos" diversi da far parlare di "molte psicoanalisi"  (Wallerstein 1988) e da proporre alla riflessione del gruppo la necessità di rintracciare  e definire il "common ground" sotteso ai vari modelli (36! IPA Congress, Roma, 1989. Wallerstein 1990, 1992).

I vari modelli o teorie si collocano infatti tra di loro in modo da diffrare l’ambiguità epistemologica costitutiva della  psicoanalisi (quella per intenderci tra scienze nomotetiche e/o ideografiche), così come "l'autofraintendimento scientistico" attribuito a Freud (Habermas 1968; 1981), e da estrinsecare in fondo  tutta la ricchezza di questa sua collocazione ambigua.

Schafer (1976) e Spence (1982) ad esempio hanno preso spunto dal suggerimento di Habermas e Ricoeur, secondo i quali la natura della psicoanalisi sarebbe affine a quella delle discipline linguistiche o ermeneutiche, piuttosto che strettamente scientifiche. In quest'ottica succede quindi che la psicoanalisi diviene interessata più al significato che al meccanismo. Si tratta di un approccio che io trovo interessante e che, a sua volta, si  sviluppato  in maniera indipendente anche in Gran Bretagna con il lavoro di Home (1966) e Rycroft (1985). 

Anche nel nostro paese, allo stesso modo, si  sviluppata una teorizzazione a mio parere abbastanza coerente malgrado la diversa provenienza ideologica dei vari autori.

Essa riesce a coniugare lo sviluppo kleiniano, soprattutto quello bioniano (con la cesura che pure esso opererebbe rispetto al pensiero kleiniano -Ferro 2002)  e quello Winnicottiano con gli sviluppi narratologici ed ermeneutici (cfr. Barn 1992; Martini 1998). 

Con il filone suddetto si articolano vivacemente, ma a mio parere non proprio contraddittoriamente, gli avanzamenti della psicologia del S e gli sviluppi" interpersonalisti e intersoggettivisti (Mitchel 1988; Renik 1993; Storlorow, Atwood 1992).

Gli autori che si collocano lungo questa evoluzione sono ormai troppi perché possa enumerarli esaustivamente. Tra di essi ci sono maestri, amici e colleghi, più o meno prossimi, che meriterebbero tutti quanti la mia esplicita citazione e il ringraziamento per il contributo apportato allo sviluppo del mio pensiero.

La prospezione comune riguarda comunque l’itinerario critico dall’intrapsichico all’intersoggettivo, attraverso il riconoscimento del contributo dell’analista alla co-determinazione degli elementi del campo e la preferenza accordata alle coppie funzionali dello sviluppo e delle trasformazioni del campo medesimo: libera associazione-attenzione fluttuante,  transfert-controtransfert, identificazione proiettiva-rêverie, contenitore-contenuto, narrazione-interpretazione, etc. (cfr. Chianese 1997).

                                            (c)                                                                                                                                                                  I tentativi di sintesi o di convergenza sono stati soprattutto affidati alla ‘teoria clinica’,   come superamento metodologico delle idee ormai insostenibili all’interno del paradigma teorico freudiano, ottenuta attraverso una vera e propria "teorectomia" (G. Klein 1976), almeno per quanto attiene alla metapsicologia. Anch’ essa conserva per esplicitazioni paradigmatiche e affermazioni alternative in parte irriducibili riguardo alla comprensione del contesto operativo comune, all’assetto giusto e agli strumenti operativi.

Proprio questa divergenza tra i modelli e il contesto condiviso  diventata quindi oggetto di crescente discussione all'interno della comunità psicoanalitica (cfr. Tuckett 1994) .

Personalmente ritengo  giusto e prezioso che questo confronto continui e si arricchisca progressivamente al di l della frettolosa, ricorrente lagnanza relativa alla crisi della psicoanalisi. In realtà si può considerare piuttosto come un elemento di buona salute del contesto ormai secolare in cui operiamo e di vivacità scientifica e intellettuale del gruppo degli psicoanalisti.

Il problema  piuttosto quello di riuscire ad esplicitare il proprio orientamento collocandolo discretamente nella pluralità e nella complessità della modellistica in uso, ottenendo che una benevola attenzione critica, volta alla ricerca di sintonie e convergenze, si imponga rispetto alla prevalente foga polemica, difensiva del proprio credo. 

Nella realtà operativa comunque quasi tutti gli psicoanalisti, a meno di drastici arroccamenti dovuti a ragioni personali e/o scientifiche non sempre facilmente comprensibili, configurano assetti personali dovuti ad operazioni particolari di aggiustamento eclettico rispetto ai modelli stessi.

Un aggiustamento nel quale  trovano collocazione molte esigenze dell’analista, insieme alle teorie implicite derivanti dalla sua esperienza personale, e che  può inaugurare e consentire per ognuno di noi la  più autentica e creativa espressione professionale.

In questo ambito epistemologico e ‘narcisistico’, variamente interpretabile, la concezione del transfert rappresenta una questione centrale del proprio modo di intendere e/o di condurre l'analisi.

Utilizzerei, a proposito, una sintetica formulazione teorica, proposta in qualche occasione da Corrao, come accordo epistemologico di base per poter continuare il nostro discorso:

1) Esiste l’inconscio. Cioè un mondo interiore di ‘oggetti’, vissuti e relazioni, interno e sottostante alla coscienza dell’individuo e costitutivo della sua personalità.

2) Il contenuto del mondo interiore inconscio ha un’alta incidenza nelle attività coscienziali, nelle scelte e negli stili esistenziali dell’individuo.

3) L’incidenza del mondo mentale inconscio nella vita dell’uomo fa s" che si realizzino dei ‘transferts’ in ogni relazione significativa.

Il ‘transfert’ che si produce nella relazione  tra paziente e analista si costituisce come elemento specifico costante dell’interesse e dell’indagine della coppia analitica (Corrao ripreso da Barn 1989).

Una formulazione che, accanto ad altre invarianti, riconosce  l’ubiquitorietà del transfert e il suo uso specifico all’interno della relazione analitica.

Forse nessun altro concetto della psicoanalisi  stato esplorato ed esaminato cos" a fondo come il transfert. Il riconoscimento della sua centralità e della specificità, relative alla stessa coerenza della clinica con la teoria, non ha impedito per nemmeno al transfert e al suo trattamento la stessa deriva e la stessa complessizzazione di molti altri termini e concetti della nostra disciplina.

La sua evoluzione  tale da suggerire, parafrasando l’ottimo Camilleri, la “forma dell’acqua” come immagine per indicarne l’estrema plasticità assieme alla conservazione di sostanza.

In tale evoluzione esso  passato dalla veste di “distorsione” a quello di elemento specifico della comunicazione tra paziente e analista e di strumento principe della terapia psicoanalitica; da ‘resistenza’ contro il riconoscimento della realtà relazionale ad ineluttabile relazionale, in tal senso correttamente identificato nell’analista come nel paziente; da “ripetizione” contenente l’elemento patologico non elaborato, potente al punto da produrre ex novo la ‘nevrosi di transfert’, a tutto ci che passa tra paziente e analista; da macchia cieca nella consapevolezza, sempre pronta ad innescare la temibile “cura transferale”, a specifica competenza del paziente di interpretare il proprio analista, fino ad essere identificato come portato specifico e quindi come oggetto di quella ‘esperienza emotiva correttiva’ più o meno riconosciuta, con oscillante imbarazzo, alla nostra disciplina. 

Interrogarci oggi, dopo il lungo confronto che anche a proposito del transfert si  verificato tra le scuole e i modelli prevalenti e dopo tutta la letteratura prodotta in proposito, significa perciò essenzialmente  esprimere delle preferenze o delle inclinazioni che, lungi dal poter accampare la pretesa di essere più giuste o più ortodosse, più semplicemente  rispecchiano la nostra formazione, le appartenenze e le frequentazioni.

Ritengo perciò che il nostro dibattito sul transfert  rappresenti soprattutto un modo per aggiornare il nostro confronto,   per operare una ricognizione e per riflettere sullo stato delle nostre teorie di riferimento, alla ricerca dell'identità del nostro gruppo e del grado di coerenza e/o di differenziazione al suo interno.

Spero non sfugga, accanto a quella scientifica, l’importanza politica di questa discussione  per l'esigenza di riconoscere e testimoniare un’identità rinnovata del nostro Centro, dopo un tempo di crisi della nostra proposta  e della nostra forza, forse  semplicemente dovuta ad un travagliato avvicendamento generazionale, all’interno del quale  sembrata smarrita un'omogeneità teorica e politica.

In realtà io penso che esistano, nel nostro Centro, a livello scientifico come a livello politico,   un’identità e un’omogeneità riconoscibili.  Soprattutto che esista una continua evoluzione di esse, che corre come un fiume carsico, episodicamente ma significativamente intercettato e portato alla luce dalla felice espressione concettuale di qualche componente del gruppo.

L’occasione del "modulo sul transfert", che considero una  bella  intuizione del Direttivo e del Segretario Scientifico, rappresenta appunto una di quelle occasioni che possono consentire tale emersione e riconoscimento.

Nei lavori prodotti fin'ora (Bonanome, Bonfiglio, Cancrini, Corrente, Ginzburg, Lupinacci, Moccia, Palmieri, Rossi et al.) questa possibilità mi sembrerebbe configurarsi. Mi auguro che essa si renda più esplicita e riconoscibile nel prosieguo del nostro lavoro.

Interrogarsi sul transfert significa anche interrogarsi e confrontarsi sui fattori terapeutici e/o trasformativi nei quali soprattutto confidiamo ed esporre quanto più chiaramente possibile il nostro modello operativo: l’assetto e il modo con il quale interagiamo con i nostri pazienti. 

Significa anche collocarsi rispetto ad una questione divenuta sempre più significativa nel confronto tra i vari autori e i modelli (cfr. Pulver 1992).

Si tratta, in definitiva, di esprimersi su quale valore assegniamo, ai fini del  cambiamento, alla presa di coscienza, al disvelamento e al riconoscimento dei conflitti profondi rivissuti in analisi attraverso il transfert ed evidenziati soprattutto attraverso la sistematica interpretazione di transfert; e quale valore assegniamo invece alla specifica relazione vissuta con l’analista come riedizione, ma anche come nuova occasione, per bonificare le configurazioni traumatiche e disadattive del soggetto, anch’esse vivacemente presenti nella dinamica del transfert ma trattate non tanto come elementi da riconoscere ma più naturalmente come vissuti da trasformare insieme, confidando  non soltanto  nella presa di coscienza come acquisizione cognitiva, ma soprattutto nella sperimentazione di un assetto mentale,  e di un clima relazionale, continuamente e sistematicamente proposti dall’analista,  capaci alla fine di sconfiggere la coazione a ripetere  divenuta ormai aspettativa destinale.

A me sembra, in fondo, che il nostro cimento quotidiano consista nel configurare una relazione, e una qualità della stessa, nella quale far agire tutti gli elementi ai quali nel tempo abbiamo riconosciuto la qualità di fattori del cambiamento psicoanalitico della personalità.

I fattori di cambiamento che con Bion potremmo considerare prodotti dall’attività sistematica, all’interno del campo, della ‘funzione psicoanalitica della mente’ (Bion  1970).

E’ comunque dall’interno di questo orientamento che ho cercato di produrre il mio assetto di fondo,   quello che cerco di esprimere all’interno di ogni singola relazione analitica e di ogni seduta.

Forse  utile ricordare come uno stesso orientamento di fondo sia in grado di dar luogo a declinazioni molto diverse, in parte derivanti dalle inevitabili fluttuazioni all’interno della persona dell’analista, ma soprattutto per lo specifico rappresentato dalle comunicazioni e dall’intreccio transferale  del singolo paziente. Dobbiamo quindi  riconoscere che, all’interno di una posizione etica e metodologica uguale per tutte le analisi che intraprendiamo, la singola fortuna e la felicità di ognuna di esse sono in gran parte ineluttabili e ineffabili, dovute al dispiegamento di fattori relazionali che solo in minima parte riusciamo a comprendere e a trasformare.

Una prospettiva questa che assegna un sicuro significato alla preparazione teorica dell’analista, al modello e alla tecnica che egli adopera, ma che soprattutto assegna il più grande significato alla presenza dell’analista e alla sua persona: e ciò non soltanto a quello che esso fa ma anche al suo modo di essere nella relazione, alla capacità di mantenere un costante dialogo con il suo mondo interno e con quello dell’altro, di riconoscere le forme creative che assume il transfert e di gestire le sue conseguenze, cos" come quelle del proprio controtransfert.

All’interno di questa convinzione mi collocherei nel numero di coloro che hanno preso posizione per un uso prudente e parsimonioso dell’interpretazione e soprattutto contro l’uso sterotipato, per non dire contro l’abuso sistematico, dell’interpretazione di transfert come unica presenza dell’analista nel dialogo con il suo paziente  (Arlow 2002,  Bonaminio 1993, Bonfiglio 1994, Ferro 1992, Sarno 1994,Winnicot 1968).

In questa direzione vorrei arricchire ulteriormente il mio contributo esplicitando, per quanto mi  possibile, le trasformazioni e gli aggiornamenti della mia concezione.

Mi auguro che questa intenzione giustifichi  l'abuso autoreferenziale consistente nella  riproposizione di alcune affermazioni di un vecchio lavoro presentato qui al Centro e poi pubblicato sulla  Rivista (Barn 1990).

Concordavo allora con quanti sottolineavano l’aspetto interattivo della relazione analitica e quello di 'nuova possibilità' attribuita al transfert. Essendo da intendersi, in questa accezione, il transfert  non tanto e non soltanto come pura ripetizione di emozioni precedentemente vissute, ma come prodotto della stessa situazione analitica (cfr. Macalpine 1950) vista, a sua volta, come una formidabile fabbrica di fantasmi (cfr. Laplanche 1986; 1987).

Precisavo come nel corso del comune impegno della coppia, nell’ambito specializzato di rapporto, si sarebbero costitute rielaborazioni significative e trasformazioni vantaggiose del vissuto del paziente, risultante dalle congiunture storiche del suo sviluppo psicologico. Ma che sarebbero state altresì costruite nuove coniugazioni di significato e nuove versioni significative, a posteriori, della storia vissuta fino a quel momento come fato.

In questo vertice può essere riaperta ad uno sviluppo ulteriore la congiuntura emozionale e concettuale che era ormai costretta nel segno della coazione a ripetere e dell’impossibilità ad 'apprendere dall’esperienza'; ci che portava, in definitiva, ad una perdita di responsabilità del soggetto (cfr. Erikson 1964).

Alcuni autori, concludevo, insistono fortemente su questa accezione 'costruttiva' del lavoro analitico. Ci che vi si svolgerebbe, essendo costruito dalle sue stesse coordinate, non riprodurrebbe alcuna esteriorità. Cosicché il lavoro di elaborazione non mirerebbe a ritrovare una storia reale n a ricostruire degli eventi passati, ma a costruire una nuova storia che non deve il suo contenuto che alle coordinate della cura.

Un’accezione questa che sottolinea gli aspetti di autonomia della situazione e della relazione analitica in accordo con le tesi epistemologiche sviluppate dai fautori dell’auto-organizzazione (cfr. Cohen 1985).

Erano affermazioni che rivelavano il mio interesse per un'epistemologia aggiornata - che tenesse conto ad esempio della controversia tra teoria coerentista e teoria corrispondentista della verità (cfr. Rorty, 1989; Cavell, 1994) - lo stimolante incontro con il costruttivismo radicale (cfr. von Glasersfeld 1988, Gill 1994) e con la comprensione e lo sviluppo degli aspetti e delle prospettive ermeneutiche del lavoro analitico ( cfr. Steele  1979, Vattimo 1987).

Scrivevo ancora quanto mi sembrasse congruo, date le premesse, sottolineare riprendendolo l'aspetto narrativo intrinseco della relazione psicoanalitica, tendente alla costruzione condivisa di una versione della vita interiore e della storia del soggetto: di un testo capace di raccogliere il vissuto e il mito personale e familiare che hanno trovato, nella drammatizzazione transferale, qualità affettiva rappresentabile e, nel dialogo della coppia analitica, il linguaggio necessario.

Certamente sono il modello 'costruttivo' dell'analisi e quello 'narrativo' che consentono il superamento di quello 'archeologico', cioè del reperimento di ricordi traumatici o congiunturali recuperati, al di l di una rimozione, nella storia personale infantile del paziente, s" da giovare alla ricostruzione della verità storica sulla psicogenesi del mondo interno degli oggetti e sull'origine della nevrosi.

E' infatti da considerare che sia il modello 'archeologico' che il concetto di rimozione contrastano con gli studi più recenti sulla memoria. Almeno per quanto attiene alla memoria esplicita cognitiva,  improbabile che l'assetto psicoanalitico -analisi del transfert, delle associazioni e delle resistenze in regime di regressione- rappresenti un metodo efficace per il reperimento di ricordi. E' più probabile che la memoria implicita, quella che non  costituita da dati mnemonici recuperabili, ma che  inconsciamente presente nel vissuto e nella personalità dell'individuo, ottenga dal lavoro analitico, dal suo funzionamento retorico e psicodrammatico, attraverso la regressione, che reintegra gli aspetti emozionali con quelli concettuali, una nuova strutturazione verbale, più coerente e $di carattere relazionale, per mezzo della capacità affettiva e rappresentazionale della coppia analitica.

Per capacità affettiva e rappresentazionale intendendo la specifica competenza della coppia transfert/controtransfert  di percepire, accogliere ed elaborare tutti gli elementi fisici, psicosomatici, sensoriali, onirici, affettivi, ideografici, concettuali e speculativi presenti nello spazio analitico -gli elementi psicoanalitici che trovano tendenziale sistemazione nella griglia di Bion- e di dar loro una forma testuale, di carattere mitopoietico e narrativo, attraverso la costituzione di un linguaggio condiviso, che si organizza come discorso.

Da allora molti, interessanti contributi hanno ulteriormente arricchito il paradigma teorico e tecnico della nostra disciplina.

Alcuni sviluppi della scienza cognitiva ad esempio (cfr.Bruner 1986, 1990) hanno consentito di tracciare interessanti paralleli con le formulazioni psicoanalitiche (cfr. Teesdale, 1993)  cos" come recenti scoperte della psicologia dello sviluppo hanno reso meno netta la distinzione fra verità storica e verità narrativa (cfr. Holmes, 1994).

Per tornare al tema del transfert, le riflessioni odierne considerano che l’interrogativo sul transfert, a parte l’interrogazione più generale sui fattori specifici presenti, o presi soprattutto in considerazione, nella relazione analitica  (Ferro 2002), confluisce nella discussione sull’assetto e sul funzionamento intersoggettivo nel lavoro analitico (Ogden 1994).

Discussione tesa anche a ribadire e/o a riconsiderare le asimmetrie reali e quelle funzionali  all’interno di tale assetto  (cfr. Barn 1990).

Ora,  la collocazione di ognuno di noi in questo senso dipende dalle convinzioni raggiunte appunto a proposito dei fattori trasformativi della psicoanalisi e tra di essi, appunto, del transfert: del ruolo e del trattamento del transfert.

Abbiamo accennato a quante evoluzioni si sono verificate nella concettualizzazione del transfert a partire dall’intuizione e dalle formulazioni Freudiane.

L’evoluzione delle convinzioni rispetto al transfert ha trasformato anche le opinioni riguardo all’interpretazione come veicolo specifico della funzione analitica.

La comprensione della specificità transferale della relazione psicoanalitica ha comportato infatti che all’interpretazione sistematica del transfert fosse assegnata la massima funzione trasformativa.

Strachey ha magistralmente illustrato per tutti noi le caratteristiche dell’interpretazione ‘mutativa’ in quanto interpretazione ‘completa’ di transfert. Ha esplicitato in dettaglio  le porzioni e i singoli componenti che ne costituivano la completezza: le funzioni di chiarificazione del super-io proiettato sull’analista, la differenziazione tra figura genitoriale o primaria e figura dell’analista, la trasformazione del super-io e quindi la introiezione bonificata dell’analista  (Strachey 1934).

Altri autori e molto autorevoli dopo di lui hanno proseguito nell’opera di massima specificazione di questo strumento e del suo uso corretto, senza tuttavia ridurre mai l’enfasi ad esso accordata.

Alle interpretazioni extratransferenziali sono state assegnate funzioni diverse ma sostanzialmente preparatorie e sicuramente meno cruciali e specifiche rispetto all’interpretazione di transfert.

Diversa evidenza e significato terapeutico sono stati dati agli altri elementi dell’assetto e della relazione analitica, distinguendoli al massimo tra quelli da considerare ancora specifici fino a quelli considerati decisamente aspecifici.      

Sinceramente io ritengo che per quanto riguarda questo aspetto, cos" significativo della specificità del nostro lavoro in confronto al vasto mondo della psicoterapia, noi dovremmo procedere ad un confronto più aggiornato, più sereno e meno ideologico.

A parte la legittimità che l’interpretazione venga assegnata significativamente all’analista piuttosto che ad entrambi i co-autori della relazione,  essa, con il suo principio asimmetrico di autorità, con l'insistenza e la specializzazione della dipendenza dentro la relazione, rischia di decentrare sistematicamente i protagonisti tra partecipanti e/o osservatori e interpreti asimmetrici dell’esperienza intersoggettiva dell’analisi, con un rischio di alienazione, di intellettualizzazione (relazione o realizzazione in parole) e di crescita delle resistenze rispetto al coinvolgimento e alla fruizione primaria del contesto relazionale di esperienza.

Propenderei quindi per gli assetti e le operazioni relazionali e dialogiche che favoriscono la costituzione, l’uso e l’espressione del pieno funzionamento intersoggettivo dell’analisi (Ogden  1994 ).

Per ultimi gli avanzamenti recenti degli studi sulla memoria consentono in modo particolare di tradurre in termini più attuali la questione del transfert (cfr. Edelman 1992, Gabbard 1995, Garella 1991, 2003).

La scienza cognitiva distingue fra diversi sistemi di memoria (cfr. Roediger 1990, Schachter 1992, 1996).

-La memoria esplicita (cosciente) che implica il richiamo alla mente di fatti, episodi ed idee: in termini episodici essa riguarda un avvenimento autobiografico specifico.

-La memoria implicita (inconscia)  quella che  osservabile nel comportamento ma che non  parte  della consapevolezza cosciente.

La memoria procedurale  una forma di memoria implicita e comporta una conoscenza del ‘come’: ad esempio la memoria motoria delle competenze necessarie per andare in bicicletta. Anche il ‘come’ delle relazioni o dei meccanismi di difesa va a far parte di questa categoria. una seconda forma di memoria implicita  la memoria associativa.

La ricerca della neuroscienza cognitiva *ha dimostrato che la memoria implicita ed esplicita coinvolgono sottosistemi neurologici distinti.

Alcuni autori sostengono che le relazioni di attaccamento precoci verrebbero interiorizzate e codificate come memoria procedurale (cfr. Amini et al. 1996). Il transfert quindi sarebbe in parte colleg4ato con la memoria procedurale e rappresenterebbe  il modo abituale, stereotipato e automatico con cui si strutturano le relazioni d'oggetto cos" come sono configurate nelle relazioni d'attaccamento durante il primo anno di vita.

Si tratta quindi di configurazioni relazionali inconsce codificate appunto nella memoria procedurale.

Gli stessi autori propongono infine di considerare la psicoterapia come una nuova relazione di attaccamento che  capace di ristrutturare la memoria procedurale implicita collegata con l'attaccamento (cfr. Amini et al. 1996, Fonagy 1999).

In definitiva si verificherebbe che prototipi del passato -prototipi storici e soprattutto prototipi narrativi- vengano modificati da nuove interazioni con un analista affettivamente coinvolto.

Questo modello implica infatti che il terapeuta sia affettivamente coinvolto perché l'apprendimento affettivo implicito dipende da un'esperienza affettiva intensa del terapeuta.

Questa modalità dell'azione terapeutica potrebbe verificarsi in parte al di fuori di ci che pensiamo sia la tecnica analitica convenzionale (cfr. Gabbard 2002).

Secondo alcuni autori questo tipo di conoscenza può avvenire infatti in "momenti di incontro" fra analista e paziente che non sono n simbolicamente/ verbalmente / coscientemente rappresentati n dinamicamente inconsci nel senso ordinario del termine (cfr. Lyons-Ruth et coll. 1998). Tuttavia questi momenti possono essere importanti nel riorganizzare l'esperienza procedurale ed affettiva in un contesto relazionale (cfr. Stern et al. 1998).

Gabbard sottolinea come i pazienti spesso non ricordino quasi nessuna delle interpretazioni fornite dal terapeuta per suscitare insight mentre ricordano soprattutto una battuta di spirito, una risata, un significativo scambio emozionale (cfr. Gabbard 2000).

Alcuni autori considerano quindi questi momenti della terapia come una forma di conoscenza relazionale implicita quando qualcosa di riparativo sul piano emozionale viene alla luce senza che venga coinvolto il piano dell'insight o della comprensione cognitiva. Situazioni quindi significative per riorganizzare modalità relazionali non codificate proceduralmente. Questi ricercatori ritengono che momenti di questo tipo costituiscano un aspetto cruciale del modo in cui si esercita l'azione terapeutica  della psicoanalisi (cfr. Lyons-Ruth et al. 1998)

Gli studi recenti sulla memoria precisano quindi soprattutto la differenziazione tra memoria operativa e memoria dichiarativa, modificando in parte la concezione di inconscio o di consistenza dell’inconscio trattabile attraverso la psicoanalisi e di azione terapeutica della psicoanalisi e dei singoli fattori operativi quali il setting, l’assetto mentale, l'assetto emozionale, l’assetto relazionale, l’ascolto, la verbalizzazione e all’interno della verbalizzazione l’interpretazione,  e  infine l’interpretazione del transfert.

Queste osservazioni tenderebbero in definitiva di nuovo a ripartire l’azione terapeutica della psicoanalisi in una sua porzione più specificatamente cognitiva, di cambiamento attraverso la cultura, e in un’altra affettiva, di trasformazione del mondo interno e delle relazioni oggettuali, degli schemi di attaccamento e/o degli schemi motivazionali, attraverso l’apprendimento specifico dovuto alla fruizione della relazione con il proprio analista, alla capacità affettiva e/o rappresentazionale dei partecipanti nel dispositivo psicoanalitico e alle conquiste intersoggettive dei partners nell'assetto  asimmetrico specifico. "

Questa porzione  di pregnante trasformazione affettivo-cognitiva dell’analisi, sembrerebbe quindi giovarsi in realtà più delle competenze e delle abilità intersoggettive dell’analista, che dell’interpretazione come veicolo di comprensione, esplicitazione, riconoscimento del transfert e quindi di trasformazione delle proiezioni e degli affetti del soggetto: la via attraverso l’insight intellettuale, la presa di coscienza e l’elaborazione.

Rimane il fatto che la verbalizzazione dell’esperienza vissuta evidenzia al contempo, in termini interpretativi, la trasformazione del paradigma narrativo del romanzo psicoanalitico: della narrazione genetica e di quella della relazione con l’analista, della vicenda storica e di quella transferale.

Giungendo infine al transfert nell’ora d’analisi, che in realtà avrebbe dovuto essere il tema di questa sera, cioè  all'assetto operativo in seduta, preciserei ulteriormente  alcuni elementi della mia convinzione attuale sull’assetto analitico.

Comincerei dal setting, del quale direi che  auspicabile venga proposto dall'analista in  modo da poter essere concepito dal paziente soprattutto come una convincente, utile cornice dell'incontro con la persona del proprio analista, custodita da quest'ultimo come discreto invito di assetto e/o di metodo di cui egli ha esperienza personale. Quasi come una preferenza quindi, un suggerimento discreto, da ottenere e riconquistare senza drammi, piuttosto che come legge o come vincolo contrattuale, rigidamente imposto e fiscalmente ribadito.

In quest'ultima  accezione infatti, che non  ritengo tra l’altro configuri  un setting più preciso o più contenitivo ma semplicemente più rigido, si rischia soprattutto di alimentare fantasie e aspettative idealizzate, adesioni fanatiche e alla fine più o meno gravi resistenze emozionali all'accoppiamento con l'analista e con il suo metodo. 

Considererei cioè auspicabile che l'esperienza del setting, della sua rigidità e della ritualità, venissero fruite dal paziente come costanti ambientali dovute   alla persona dell'analista e alla qualità  dell'incontro con esso, piuttosto che come regola idealizzata, persecutoria e fobica insieme, del rapporto con il proprio analista.

Ritengo difficile, tra l'altro, che in questa versione si possa configurare realisticamente e sviluppare la funzione di ricezione, da parte dell'analista, della proiezione parentale del paziente.

Il contratto e il setting  devono essere chiaramente stabiliti e custoditi dall’analista, soprattutto affinché risulti minima, e del tutto eccezionale, la necessità di "tornarci sopra", se non per accogliere significative, ulteriori comprensioni  delle loro funzioni da parte del paziente, tali da consentirgli una più convinta adesione alla relazione analitica.

Cos" come penso che, più complessivamente, il carattere psicoanalitico dell’esperienza debba essere discretamente e implicitamente attribuito all’assetto dei membri della coppia analitica al punto da non doversi più riferire alla "psicoanalisi" nel dialogo dei partecipanti e nello stesso pensiero esplicito in seduta di entrambi, soprattutto  dell’analista.

"Impara l’arte e mettila da parte" dovrebbe essere l’assunto dell'analista al lavoro. Il riferimento esplicito alla teoria, anche alla teoria clinica e ai modelli per relazionarsi con la produzione del paziente o con la situazione analitica, dovrebbe essere escluso dalla seduta, dall’ora d’analisi e caso mai adoperato nella riflessione post-analitica, nella supervisione, nel dibattito scientifico con il gruppo dei colleghi o nelle situazioni scientifiche più espanse.

Qualsiasi assetto attentivo/cosciente, infatti, disloca mentalmente e affettivamente l'analista dall’assetto "senza memoria e senza desiderio" (Bion 1970;  Fainberg 1989)  e/o in stato di "rêverie" (Ogden 1994) che dovrebbe essere il reciproco funzionale con cui l'analista corrisponde all’assetto per "libere associazioni"   richiesto al paziente.

L’ascolto dovrebbe quindi prevalere sull’interpretazione e quest’ultima avere caratteristiche di misura, discrezione, timing tali da apparire in "parallelo", come detta da un luogo percepibile come "accanto al paziente" o proveniente da un "terzo intersoggettivo" piuttosto che essere percepita come decisamente proveniente da un assetto  alter-egoico dei contraenti. 

A tale assetto alter-egoico affiderei casomai la funzione di ristabilire separatezza e responsabilità personale nelle situazioni in cui ci si configuri come necessario.

Sarebbe auspicabile cioè che la comprensione e la condivisione dell’assetto libera associazione/rêverie fosse interrotta eccezionalmente, quanto meno possibile, per il disturbo che ci arreca all’accoppiamento ‘proprio’ e per la scarsa utilità effettiva delle interruzioni. Spesso l’assetto alter-egoico  motivato infatti da esigenze difensive di uno o di entrambi i protagonisti della relazione.

Verifico con una qualche frequenza, nella mia pratica, il passaggio automatico, involontario dal "lei" al "tu" quando mi sforzo di intervenire nell'assetto suddetto "accanto". I miei pazienti, che pure notano questa mia mobilità o incoerenza dialogica, evi1tano di solito  di commentarla in termini problematici e spesso l'approvano come perfettamente funzionale al nostro assetto dialettico di lavoro.

La caratteristica empatica di questo assetto di ascolto e di intervento non coincide, nella mia visione, con un buonismo stereotipo o con una collusione narcisistica con il paziente, ma si configura piuttosto come un pensiero, comunque rispettoso, discretamente incidente, che si affianca a quello del paziente anche quando fortemente contraddittorio. Il "tu" si verifica quindi, spontaneamente, a causa  di un assetto fortemente identificatorio e aumenta la qualità retorica di quel pensiero come fosse detto ‘a sé stesso’ da una porzione critica  del soggetto medesimo.

L’analista si affiderebbe cos", nell’esercizio del ruolo primario, funzionalmente asimmetrico, che gli conferisce  l’analisi e il transfert  in essa, alla sincerità e alla prudenza degli interventi e dei gesti, piuttosto che all’autorità asimmetrica esplicita di interprete del transfert. Trovo infatti facilmente disfunzionale quest'ultimo assetto anche quando legittimamente  esercitato all’interno di una teoria che lo contempli.

Per approssimarmi ulteriormente e più esaustivamente all'assetto che mi sforzo di assumere in seduta cercherò di esplicitare,  infine,  quello che chiamo il modello del "monitor".

Si tratta di una metafora più volte utilizzata soprattutto nella discussione con gli allievi.

Ritengo che la formazione complessiva dell’analista, e la sua esperienza clinica, abbiano costituito o sostenuto in lui un'attitudine mentale alla relazione analitica. Questa attitudine oscilla tra le versioni narcisistiche idealizzate  -del paziente e dello stesso analista-, di ascolto empatico assoluto di quel paziente come "unico" ,  e il criterio più realistico e ragionevole,  di buona disponibilità all'ascolto e alla conduzione  "per il meglio",  "a buon fine", della relazione medesima. Un assetto che  vacilla spesso di fronte a certi livelli di identificazione proiettiva, o di frustrazione affettiva, che si verificano inevitabilmente e continuamente nella relazione con il paziente.

Comunque,  dell'assetto affettivo e /o operativo di cui parlo  fa parte una  funzione mentale, incidentale e/o accessoria, che assume la forma di spontaneo, irriflessivo  monitor mentale dei parametri utili alla lettura -in continuo- delle condizioni e dell'andamento della relazione analitica.

Si tratta di una funzione, attivata nell’analista da una parziale dissociazione mentale rispetto all'impegno affettivo reciproco, che processa  -appunto in continuo- nella mente dell’analista, gli elementi significativi dell’andamento dello scambio all’interno della seduta e che segnala prevalenze, pericoli, urgenze ed emergenze.

Si tratta di una dissociazione particolare nell’assetto dell’analista, che deve da un lato affidarsi al gioco delle associazioni e della fantasia, abbandonandosi al suo stesso inconscio e sottoporre dall’altro il materiale prodotto da s stesso e dal suo paziente ad un esame logico in modo da essere guidato da entrambi i vertici (Ferenczi 1919).

Gli elementi risultanti dalla implicita monitorizzazione continua del contesto, sono di solito  affidati ad una specie di aggiustamento automatico dell’assetto mentale e relazionale dell’analista,  il quale si dispone in modo da ‘schivare’ le resistenze e facilitare l’ulteriore sviluppo del contesto. Essi possono per condurre, in caso di andamento problematico, ad interventi sempre più espliciti da parte dell'analista, fino alle operazioni di salvaguardia dei parametri formali: il contratto, il setting, la ri-contestualizzazione, l’azione diretta cosciente.

Abbiamo esperienza di come questa attività abbia estrema importanza ad es. nelle situazioni a prevalente funzionamento borderline.

Questi interventi andrebbero riservati comunque a quelle situazioni in cui i parametri monitorizzati si fossero spostati in una zona di emergenza non più modulabile con gli innumerevoli impliciti aggiustamenti operativi dei fattori affettivi e tecnici a disposizione dell’ordinario funzionamento intersoggettivo dentro il setting ‘proprio’.

E’ in questo senso che riprenderei la dizione che l’analisi può arrivare laddove  arrivato l’analista.

E cioè a quel grado di interpretazione profonda implicita del contesto intersoggettivo che l’analista  in grado di proporre ai propri analizzandi, e a quell’analizzando in particolare, del quale sta raccogliendo il transfert, in quell’ora d’analisi,  con la competenza, affettiva prima che tecnica, di cui  capace rispetto ai parametri in corso.

I tracciati della monitorizzazione, che in seduta hanno causato l'aggiustamento empatico e operativo dell'analista, forniscono quindi, nel tempo extra-analitico, gli elementi di riflessione strategica dell'andamento di quell'analisi e l'elaborazione necessaria all'analista per tornare in seduta "al meglio". Capace cioè degli ulteriori aggiustamenti necessari a ricevere di nuovo il paziente in una condizione quanto più prossima possibile al suo standard.

Ritengo che buona parte della comprensione ed elaborazione del transfert e la preparazione delle interpretazioni di transfert, si giovino di questa elaborazione  fuori contesto.

In verità, cioè,  considero anche le interpretazioni di transfert come operazioni   non ordinarie, di risignificazione forte dell'andamento della relazione, forse anche  di salvaguardia del contesto, da utilizzare laddove ci appare strettamente necessario. Considero invece ordinaria amministrazione la reciproca fiducia dei contraenti nell'accadere del discorso, all'interno dell’accoppiamento transfert-contransfert, ma anche libera associazione-rêverie, capace di far funzionare appunto il “terzo intersoggettivo inconscio" (Ogden 1994).

Considero poi del tutto inutile, bizzarro e controproducente il suggerimento  di "avocare" continuamente a s il transfert, ci che in effetti  esita di solito nella frequente, infelice, stereotipa proposizione: "forse anche qui con me lei sente che..." .

Sinceramente non ricordo dove e quando si  creato questo suggerimento. Oltre ad esprimere la mia contrarietà, ritengo che sia doveroso confrontarci serenamente ma validamente su questa questione perché in esso temo si declini un aspetto disdicevole dell'insegnamento e della  pubblicizzazione della psicoanalisi.

Voglio sottolineare insomma che tanto l'uso dell'esplicitazione verbale e della porzione cognitiva dell’analisi debbono avere caratteri di particolare misura e discrezione, quanto intenso, prolungato e generoso deve essere il coinvolgimento affettivo dell'analista nella relazione; la neutralità necessaria essendo affidata all’astinenza e all’ascolto rispettoso delle problematiche interiori del paziente piuttosto che ad una restituzione saccente  (Nissim Momigliano 1984).

Ritengo che un'implicita comprensione della funzione di "nuova occasione" attribuita all'analisi e al transfer7t in essa, comporti la concezione del tempo necessario per inaugurare e consolidare la nuova relazione di attaccamento, per  fare operare a pieno, in essa, le funzioni di contenimento e riparazione, per ottenere, attraverso lo svolgimento della relazione e del discorso, le introiezioni e le stabili interiorizzazioni necessarie alla trasformazione  del soggetto e all’acquisizione di un miglior funzionamento (cfr. Soavi 1990).

In definitiva del tempo necessario per operare tutte le  trasformazioni potenziali del campo e il cambiamento possibile, per procedere poi verso lo svezzamento attraverso l'elaborazione delle angosce di separazione.

Tutto ci giustifica, a mio avviso, il progressivo allungarsi dei tempi medi delle analisi. 

Per ultimo esprimer la mia preferenza per un linguaggio dell'analista che oltre alla caratteristica della frugalità, abbia quella del linguaggio comune, dotato di semplicità, come sono solito dire : "da strada".

Una lingua quindi  che non indulga all'uso di termini gergali,  in ogni caso di dubbia utilità e portatori di grossi rischi di razionalizzazione e di intellettualizzazione.

Mi sembra necessario soprattutto concepire la profonda responsabilità del nostro lavoro e del nostro ruolo per la vita di tante persone. Ci comporta  di disporsi con il proprio paziente all’interno di un campo operazionale fatto di una fortissima prossimità psico-somatica, finalizzata ad una trasformazione psicologica profonda che coincide, per alcuni aspetti, con la crescita del soggetto, ma che non si verificherebbe senza la specificità e l’efficacia degli elementi trasformativi in essa rappresentati dal vertice psicoanalitico adoperato e dalle singole operazioni che lo sostanziano. 

Ritengo che in questo vertice, l’autenticità del coinvolgimento di entrambi debba essere costantemente accoppiata con la perizia dell’analista, attraverso le proposte e i gesti suggeriti dalla sua esperienza,  per dirottare l’investimento e i transferts dalla coazione a ripetere e dalla dipendenza conflittuale verso il primato della comprensione e del cambiamento, del superamento della dipendenza e dell’acquisizione di curiosità e disponibilità  ad assumere nuove responsabilità nel mondo trovato e creato.  

Pubblicato in Nicolò A.M. (a cura), Attualità del transfert, Angeli Ed., Milano, 2007

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