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Solano L. - Teoria del Codice Multiplo e psicosomatica di ispirazione psicoanalitica (2007)

PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL FUNZIONAMENTO MENTALE INCONSCIO:
Incontro con Wilma Bucci


SABATO 7 LUGLIO 2007


Luigi Solano(1)
Teoria del Codice Multiplo e psicosomatica di ispirazione psicoanalitica(2)

ABSTRACT

L’autore discute l’utilità della Teoria del Codice Multiplo di Wilma Bucci nell’illuminare diverse aree critiche della psicosomatica di ispirazione psicoanalitica: il rapporto corpo/mente; il valore da attribuire al sintomo somatico nel processo psicoanalitico o più in generale nel rapporto clinico; l’importanza della comunicazione non verbale. Così il rapporto corpo/mente può essere visualizzato come rapporto tra sistema subsimbolico e sistemi simbolici; il sintomo somatico, come già proposto da Winnicott, può essere visto non come allontanamento da una mentalizzazione ma come primo emergere di un contenuto in termini subsimbolici; viene riaffermata l’importanza e la dignità intrinseca della comunicazione non verbale come espressione del sistema subsimbolico, mentre si riafferma altresì la necessità di una traduzione, anche se non immediata, nei termini dei sistemi simbolici.

Ho incontrato il pensiero di Wilma Bucci verso la metà degli anni '90, quando mi occupavo di ricerca sul processo psicoterapeutico insieme con Andrea Seganti, e mi interessavo inizialmente soprattutto alla misura dell'Attività Referenziale, come strumento utile anche nell'ambito della ricerca psicosomatica per documentare il grado di contatto del soggetto con la sua esperienza interna. Con questo strumento che studiammo e utilizzammo soprattutto insieme con una giovane collega, oggi psicoanalista junghiana, Luisa Zoppi, ottenemmo qualche risultato incoraggiante (Solano et al., 2001) nel rapporto con delle dimensioni fisiologiche, specificamente il livello di linfociti CD4+. Debbo dire però che più trascorreva il tempo più il mio interesse per la Teoria del Codice Multiplo diveniva molto più ampio e più teorico, al di là dell'interesse per un sofisticato strumento di ricerca empirica; la teoria mi appariva cioè utile a illuminare e a trovare un linguaggio comune e una cornice generale di riferimento per una serie di tematiche piuttosto controverse nell'ambito di quella che continuerò provvisoriamente a chiamare psicosomatica, anche se il termine mi appare sempre meno adeguato(3). La mia posizione è che la Teoria del Codice Multiplo, più che costuire un ulteriore modello, possa risultare come un arricchimento e contribuire ad un chiarimento di diversi modelli esistenti. Le tematiche di cui mi andrò ad occupare sono:
- il rapporto corpo/mente;
- il valore da attribuire al sintomo somatico nel processo psicoanalitico o più in
generale nel rapporto clinico;
- l'importanza della comunicazione non-verbale.Il rapporto corpo/menteNon è facile accennare in poche parole alla storia di questo tema, che ha attraversato fin dagli inizi il pensiero filosofico e più recentemente psicoanalitico. Se da una parte il dualismo, come teorizzato ad esempio da Platone o da Cartesio, rischia di sconfinare nella metafisica, in un concetto di anima-sostanza distinta dal corpo, il monismo di matrice positivista ha spesso rischiato, e rischia in particolare oggi, di sconfinare in un riduzionismo al biologico.
Credo che siamo in molti ad aver provato un senso di difficoltà, di contraddizioni non risolte, negli scritti psicoanalitici in questa area. Il lavoro di Freud comincia negli Studi sull'Isteria con l'intenzione di mostrare l'influsso della vita psichica sul corpo, come se si stesse parlando di due entità; finisce nel Compendio (Freud, 1938) con l'affermazione che "La psicoanalisi reputa che i presunti processi concomitanti di natura somatica costituiscano il vero e proprio psichico". La centralità dell'interesse per la vita sessuale, come ricorda Carignani (2006) può essere attribuita all'intenzione di rendere centrale un fenomeno in cui funzioni somatiche e rappresentazioni psichiche apparivano inestricabilmente connesse. La stessa connessione si può notare nel concetto di pulsione, "al limite tra psichico e somatico" (Freud, 1915), o nel concetto di Io, definito "prima di ogni altra cosa un Io-corpo" (Freud, 1922). La sensazione è che in questa ritrovata unità si rischi però di non riuscire più a formulare quella dialettica, quella possibilità di influsso reciproco descritta negli Studi sull'Isteria, e che aveva dato avvio alla ricerca psicoanalitica.
Torniamo un attimo indietro, al lavoro del 1894 sulla nevrosi d'angoscia, da molti considerato il punto di partenza per lo studio dei disturbi somatici non connessi con l'isteria. Nel tentativo di definire l'origine di questo disturbo, Freud inizia con l'affermare che "l'angoscia, che sta alla base dei sintomi di questa nevrosi......non è di derivazione psichica" (corsivo di Freud). Il meccanismo va invece ricercato "in una deviazione dell'eccitamento sessuale somatico dalla sfera psichica e in una conseguente utilizzazione abnorme di tale eccitamento". In particolare nell'uomo "questo eccitamento sessuale somatico si manifesta come una pressione sulle pareti, munite di terminazioni nervose, delle vescichette seminali" che al di là di una determinata soglia produce anche eccitazione a livello psichico" (p.169). Per diversi anni ho provato un certo disagio nei confronti di questo scritto, lo sentivo come una caduta di stile da parte di Freud, come un residuo di un meccanicismo positivista, in cui si giungeva ad affermare che una "deviazione dell'eccitamento sessuale" fosse la causa prima di un disturbo mentale. Un lavoro che avrebbe potuto addirittura portare acqua al mulino degli psichiatri organicisti (ammesso che si fossero mai degnati di leggerlo) , descrittivo di un effetto somato-psichico più che psico-somatico..........non per niente scritto nello stesso periodo del Progetto, un'opera dal chiaro intento riduzionista, almeno così può apparire......(4) L'incomprensione nasce, come spesso accade, dal dimenticare il contesto storico e culturale in cui nasce un lavoro, dal dimenticare che Freud si stava inoltrando in un territorio inesplorato, per cui non sempre riusciva immediatamente a trovare termini che rendessero giustizia alle sue intuizioni. Se mettiamo da parte per un attimo le vescichette seminali, possiamo riconoscere che quello che Freud sta descrivendo è un processo interno, privo di significati simbolici, che forse è fuorviante chiamare somatico (a meno che non intendiamo un soma che è il "vero e proprio psichico"), che produce tensione nell'organismo senza riuscire a trovare una comprensione, una traduzione in termini simbolici. Viene quindi proposta una modalità di genesi del sintomo sostanzialmente diversa da quella dell'isteria, situazione in cui una rappresentazione mentale, simbolica, è esistita ed è stata rimossa. In questo caso la rappresentazione mentale non è mai esistita, non si è mai formata. A questo lavoro possiamo far risalire il concetto contemporaneo di alessitimia, una "incapacità a trovare parole per l'emozione", per cui l'emozione rimane ad un livello "fisiologico", non trovando una connessione con un livello simbolico, verbale(5). Non per niente il lavoro di Freud si chiude (con una delle sue sublimi contraddizioni che disinvoltamente ci propone quando cerca di descrivere con il linguaggio della causalità lineare, non avendone altro a disposizione, fenomeni non descrivibili in quei termini(6)), affermando che nella nevrosi d'angoscia, come nell'isteria "si ha un'insufficienza psichica, in conseguenza della quale si verificano processi somatici abnormi." Primaria diventa quindi l'insufficienza psichica, non il processo somatico. Rimane il problema di come riferirsi a questo processo interno privo di significati simbolici.
Chiamarlo processo somatico a me sembra fuorviante, in quanto appunto rischia di farci cadere nell'organicismo; ugualmente può risultare fuorviante parlare di aspetti "puramente fisiologici" dell'emozione.
Lungo la storia della psicosomatica il problema del "misterioso salto dalla mente al corpo" non sembra trovare facilmente soluzione. Negli ultimi anni sta piuttosto prevalendo una corrente, in cui io stesso mi riconosco, i cui esponenti più noti sono James Grotstein(7), Irène Matthis(8), Francisco Varela(9) e per alcuni aspetti anche Luis Chiozza (1986), che considerano corpo e mente come due facce della stessa medaglia, o meglio, come ci ha proposto recentemente Carla De Toffoli (2007) come due categorie che hanno a che fare essenzialmente con il vertice da cui si pone l'osservatore e non con una realtà dell'organismo. Analogamente la fisica quantistica è giunta a riconoscere come a livello subatomico lo stesso fenomeno possa essere rilevato sotto forma di onde o di particelle a seconda dello strumento e delle modalità di osservazione utilizzate. Si è altresì giunti alla convinzione, già proposta da Gaddini nel suo noto lavoro pubblicato nel 1981, che i correlati fisiologici dell'attività mentale, pur rilevabili primariamente a livello del sistema nervoso, siano in realtà in qualche modo presenti in tutti le cellule dell'organismo, secondo il modello fornito dalle tecniche olografiche (Bohm, 1980).
Da questa posizione unitaria può però risultare difficile riprendere i contatti con una dimensione dinamica in cui entità diverse si influenzano a vicenda. Formulazioni psicoanalitiche che tendono a considerare più sistemi in interazione, come primario/secondario (Freud), simmetrico/asimmetrico (Matte Blanco) tendono ad riguardare essenzialmente il funzionamento mentale. Il pensiero di Bion(10) può apparire vicino alla proposta di Wilma Bucci, in quanto anch'esso presuppone tre livelli di elaborazione dell'esperienza. Va però rilevato che se all'inizio del suo lavoro, in Esperienze nei Gruppi (1961) il protomentale può apparire come un sistema in cui fisico e mentale sono indistinguibili, nelle successive formulazioni, a cominciare dalla Teoria del Pensiero (1962a) e Apprendere dall'esperienza (1962b) gli elementi beta non appaiono più come un sistema, una struttura con una propria dignità, ma sono piuttosto apparentati a dati sensoriali, destinati ad essere il più possibile trasformati da successivi apparati elaborativi (funzione alfa, apparato per pensare i pensieri). In questo modello gli elementi beta non trasformati possono disturbare il funzionamento corporeo, non possono essere identificati con il funzionamento corporeo(11). Da un altro versante, il rischio è di ricadere nel dualismo. In anni recenti Ferrari (1992) ha posto al centro della sua teoria clinica il rapporto dell'individuo con il proprio corpo, definito Oggetto Originario Concreto, teorizzando a questo proposito una relazione e quindi in analisi una interpretazione "verticale" accanto a quella "orizzontale", transferale. Così posta, questa distinzione rischia di reintrodurre un dualismo che magari non rientra nelle intenzioni né di Ferrari né dei suoi epigoni. Le parole, ci diceva Bion, portano con sé un alone di significato, una "penumbra" che è difficile mettere da parte. Il termine corpo, nel linguaggio come lo usiamo oggi in occidente, porta con sé inevitabilmente un'idea di corpo quale viene visto dalla medicina tradizionale, un corpo "solo biologico", quale nella realtà esiste solo nel cadavere o forse quando una persona è sotto anestesia: una macchina con dei pezzi da riparare o da cambiare, ma soprattutto, nella derivazione cartesiana, una res extensa priva di senso, funzione, intenzionalità, caratteristiche che dovrà ricevere dalla res cogitans, l'anima del pensiero religioso. Insomma, un "corpo" come contrapposto a una "mente", costruzioni appunto del pensiero cartesiano e della medicina occidentale moderna.
L'impressione viene rafforzata dal fatto che questo corpo viene descritto in un rapporto "verticale" solo con il soggetto, evidentemente distinto da quest'ultimo, mentre il soggetto a sua volta si può rapportare "orizzontalmente" con qualcun altro(12).
Credo che come psicoanalisti siamo invece per la maggior parte convinti che il corpo reale, dalla nascita e anche prima, sia immerso in una rete di comunicazioni e di relazioni, che hanno fin dall'inizio effetti anche biologici, come testimoniato dagli studi di Hofer (1984) sui regolatori nascosti(13). Un corpo che si costituisce come un precipitato di relazioni, esattamente come ciò che siamo soliti chiamare mente, e i cui movimenti non sono direzionati solo all'interno del soggetto, ma hanno almeno una componente relazionale, esattamente come i movimenti mentali. Un corpo che sente, risponde, soffre, gioisce, prova orgasmi. Un corpo dotato di pensiero organizzato, anche se non simbolico.
Se a questo punto sostituiamo alla dialettica mente/corpo il rapporto tra sistemi simbolici e sistema subsimbolico, possiamo venire a capo almeno di qualcuna di queste contraddizioni. Il sistema subsimbolico è almeno in gran parte inconscio, è dotato appunto di un pensiero organizzato, comprende i sistemi fisiologici viscerali e motori soprattutto involontari, comprende la memoria implicita, quella che a volte viene chiamata "memoria del corpo"(14). E' corpo e mente allo stesso tempo a seconda appunto del vertice da cui lo guardiamo, se con il microscopio, con la risonanza magnetica, con l'elettrodo, o invece dal punto di vista di cosa comunica, o cerca di comunicare, al soggetto e a chi gli sta accanto. E' "la materia che assomiglia sempre di più a un pensiero" di cui parla Carla De Toffoli (2007). Potremo interpretare la sua emergenza in termini "verticali" od "orizzontali" senza gerarchie predefinite.
Potremo chiamare attivazione subsimbolica che non trova un nome - piuttosto che pressione delle vescichette seminali - quella che affiora nella nevrosi d'angoscia (o attacco di panico che dir si voglia); potremo definire l'"insufficienza psichica", di cui parla Freud al termine del suo lavoro, come incapacità a creare connessioni con i sistemi simbolici.
Ma anche i sistemi simbolici sono anche corpo, nella misura in cui fondano il loro funzionamento su strutture nervose "superiori" come la corteccia cerebrale o l'ippocampo. Potremo quindi ridefinire il rapporto mente/corpo come il rapporto tra i sistemi simbolici e il sistema subsimbolico, ricordando come ciascun sistema può essere visto a seconda del vertice da cui lo osserviamo come mente o come corpo, e quindi senza ricadere in un dualismo di cartesiana memoria.Il valore da attribuire al sintomo somatico nel processo psicoanalitico o più in generale nel lavoro psicologico-clinico (o ancora più generale, nella vita di una persona).Altro annoso problema, che a sua volta si può scomporre in due parti:a) i sintomi somatici hanno un significato simbolico?
Questa tematica inizia anch'essa con gli Studi sull'Isteria di Freud, in cui il significato simbolico, specificamente edipico, del sintomo somatico, dall'anosmia di Lucy R. alle difficoltà di deambulazione di Elizabeth von R., viene affermato con forza, al punto di diventare uno dei pilastri della teoria. Il problema si porrà quando si passerà da sintomi aventi a che fare con sensazioni o movimenti normalmente volontari, regolati dal Sistema Nervoso Centrale o della Vita di Relazione, ad alterazioni somatiche aventi a che fare con il Sistema Nervoso Vegetativo, del tutto al di fuori della consapevolezza del soggetto. Su questo Freud fu abbastanza categorico: basti ricordare il suo invito "a non civettare con l'endocrinologia e il sistema nervoso autonomo" (1927, p.422). Unica eccezione il lavoro sui disturbi visivi psicogeni (Freud, 1910), attributi a conversione di conflitti preedipici. Altri studiosi seguirono però in seguito tracce diverse. Alexander (1950) arrivò a sostenere che ogni disturbo, o per lo meno raggruppamento di disturbi somatici, fosse sotteso da un conflitto inconscio specifico. Sulla scia del concetto freudiano di conversione preedipica, o pregenitale, una serie di autori, a cominciare da Groddeck (1929)(15), per giungere a Garma (1953)(16) a Deutsch (1959)(17) fino a Chiozza (1976, 1986)(18) hanno finito per affermare un significato simbolico specifico per tutti i disturbi somatici.
Questo tipo di approccio, peraltro non del tutto tramontato, mi sembra rischi di sfiorare il ridicolo se inteso come applicazione di un significato definito a priori a tutti i pazienti affetti da una determinata malattia o disturbo. Il problema è infatti che più che al "misterioso salto dalla mente al corpo", ci troviamo di fronte ad un salto epistemologico da una o più situazioni cliniche in cui un certo disturbo fisico assume effettivamente un certo significato nella (ri)costruzione analitica - per cui questo senso (ri)trovato favorisce lo sviluppo dell'analisi e il miglioramento del paziente - ad una teoria generale in cui si giunge ad affermare che l'ulcera è causata (magari anche in termini monocausali e lineari) da questa o da quest'altra configurazione mentale.
Mi sento invece di condividere l'approccio di Carla De Toffoli (2001), in cui il significato simbolico di un sintomo non è dato a priori, né tanto meno è universale, ma viene co-costruito nella relazione analitica, esattamente come quello di un sogno. In questo contesto mi sembra che il pensiero di Wilma Bucci trovi un suo spazio, laddove possiamo ritenere che un'attivazione inizialmente subsimbolica possa trovare all'interno del rapporto analitico la possibilità di connettersi a rappresentazioni di livello simbolico, non verbale e poi verbale.
Da questa notazione possiamo passare al punto successivo.
b) la comparsa in analisi, o nella vita di una persona, di un sintomo somatico, ha sempre un significato difensivo o di mancata mentalizzazione?
Nella tradizione analitica troviamo parecchie indicazioni in questo senso. Nel pensiero bioniano, almeno nella formulazione più sistematica, quella di Apprendere dall'Esperienza (1962a), per intenderci, un eccesso di elementi beta, in grado di sfociare in un agìto o in un sintomo somatico, deriva da un difetto della funzione alfa, di mentalizzazione, appunto. Oppure il disturbo somatico può derivare da una interruzione difensiva di collegamenti, come nel concetto di Attacco al Legame (1962b) o in quello di désaffectation della Mc Dougall (1989), laddove l'individuo si distacca dal valore affettivo della propria realtà interna. Anche il concetto di alessitimia (Nemiah e Sifneos, 1970; Taylor et al., 1997) è un concetto essenzialmente difettuale, o in un alcune versioni salda un aspetto deficitario con un aspetto difensivo (Grotstein, 1997b).
Una voce dissonante è quella di Winnicott, nel suo lavoro "The mind and its relationship to the psiche-soma" (1949) in cui il sintomo somatico viene visto in una dimensione anche evolutiva, specie a partenza da situazioni che potremmo oggi definire dissociative. Mentre in presenza di un accudimento da parte di una madre sufficientemente buona esistono un soma e una psiche che ha la funzione di elaborazione immaginativa delle parti somatiche, dei sentimenti e delle funzioni, ....... in presenza di adattamento ambientale insufficiente il bambino svilupperà un Intelletto (così è stato reso Mind nella traduzione italiana) che si assume il compito di assistenza allo psiche-soma che non viene svolto sufficientemente dall'ambiente (un po' come il Falso Sé di elaborazioni successive). Questo "Intelletto" attrae e sé la "Psiche" che si stacca dal Soma: il risultato è un'attività mentale in grande misura staccata dal funzionamento corporeo e dalla vita emozionale. In questa cornice il sintomo somatico acquista il valore di un tentativo di "ritirare la Psiche dall'Intelletto per ricondurla alla sua associazione intima originale con il Soma.......si deve essere capaci di vedere il valore positivo del disturbo somatico nella sua opera di neutralizzazione di una «seduzione» della Psiche da parte dell'Intelletto".(19)
Una traccia di questa posizione si ritrova nell'ultimo incontro (Febbraio 2007) tra la Società Psicoanalitica Italiana e quella Britannica, che ha avuto come titolo "Il Corpo nella Seduta Analitica", e dove uno dei temi era proprio il seguente: "Come differenziare e discriminare manifestazioni corporee evolutive e difensive in seduta?". Possiamo quindi introdurre l'idea che un sintomo somatico possa avere una potenzialità evolutiva, o per lo meno che possa rappresentare l'emergere di qualcosa di nuovo, non allontanarci dalla conoscenza. La teoria del codice multiplo offre la possibilità di vedere e teorizzare il sintomo somatico come una prima espressione, subsimbolica, di un contenuto che non ha trovato fino a quel momento nessuna possibilità di espressione, e non come effetto di una difesa contro l'emergenza di quel contenuto. Delinea quindi un nuovo rapporto tra somatizzazione(20) e verbalizzazione, incluse condizioni in cui ci si può attendere un rapporto complementare, non alternativo, tra somatizzazione e verbalizzazione, e porta quindi ad implicazioni diverse anche per il trattamento (Bucci, 1997).
In questa visione, sintomi somatici (e agìti) possono essere visti in alcune circostanze come adattivi e progressivi, piuttosto che sempre regressivi, come è stato spesso assunto. La preoccupazione del paziente per un particolare sintomo somatico può funzionare da tentativo di connessione, una connessione transizionale tra la computazione implicita, subsimbolica, del sistema di elaborazione viscerosensoriale e i contenuti interpersonali dello schema emozionale, piuttosto che un modo di resistere al formarsi della connessione, o un effetto della mancanza di connessione.
Propongo ora una vignetta clinica che mi sembra esemplifichi il possibile valore della comparsa di un sintomo somatico nell'aprire la strada alla comprensione e al vissuto
consapevole:
Stefano mi è venuto a chiedere un'analisi 3 anni fa, quando aveva 37 anni. Mi colpisce fin dall'inizio l'estrema vaghezza delle sue motivazioni, nonostante un precedente percorso psicoterapeutico di una certa durata e profondità. Verso la fine del primo colloquio, come se parlasse di un particolare irrilevante, mi dice che da tempo non va d'accordo con la moglie, che pensa di separarsi, che ha un'altra storia. Dà in genere la sensazione che i fatti della vita gli scivolino sopra senza toccarlo; emerge una storia passata, prima del matrimonio, in cui solo dopo un anno si accorge che la ragazza ha un altro, quando lei infine lo lascia. Mostra d'altra parte buone capacità intellettive e professionali. Ha un buon impiego, con buone prospettive di carriera, ma anche lì non sembra rendersi conto dei rischi molto seri che corre in vista di una prossima fusione della sua azienda con una multinazionale. I primi tempi dell'analisi sono costellati da una sequenza di agìti che lui sembra attraversare come protetto da una corazza: lascia la moglie (e una bambina di 3 anni), va a vivere da solo nel primo locale che gli capita, una soffitta umida, frequenta in modo apparentemente appassionato la nuova donna, salvo lasciarla all'improvviso e apparentemente senza rimpianti dopo due mesi per rientrare in famiglia. Dopo poche settimane che descrive come di idillio ritrovato con la moglie ha una nuova storia, di nuovo descritta come estremamente passionale, con un'altra, che di nuovo lascia con le stesse modalità dopo 15 giorni. Tentativi di interpretare questi agìti come sue reazioni a separazioni, minacce di separazione, frustrazioni delle sue aspettative vengono superficialmente accettati ma non portano a grandi
cambiamenti rispetto al suo modo di porsi nella vita.
Dopo poco più di un anno di analisi rientra dalla seconda separazione estiva con un volto scuro, preoccupato, che non gli ho mai visto; nel dargli la mano ho la sensazione come di raccogliere un naufrago. Ieri sera si è accorto di avere un rigonfiamento al collo (probabilmente presente da tempo, ma disconosciuto), è andato al pronto soccorso, gli hanno diagnosticato un nodulo tiroideo, con tumefazione dei linfonodi satelliti. In modo abbastanza sorprendente nella sua acutezza il significato evolutivo del sintomo viene colto dalla moglie che gli dice "così finalmente ti occuperai di te stesso". E in effetti lui non aveva mai pensato di poter avere una malattia seria. Il fratello, che soffre da tempo di disturbi psichiatrici, in modo meno cortese gli dice "finalmente è capitato qualcosa anche a te", che io traduco nel senso di "finalmente ti è capitato qualcosa di cui non puoi negare l'importanza". E così accade: Stefano si attiva in modo attento ed adeguato, spinto finalmente da una preoccupazione adeguata ai fatti, consulta i migliori specialisti costruendo nel percorso una solidarietà realistica con la moglie, che nel suo racconto risulta dolcissima, forse perché lo ha sentito per la prima volta autentico. Il nodulo per fortuna risulta benigno, si riduce progressivamente grazie a terapie appropriate, ma soprattutto l'episodio segna l'esordio di una ritrovata capacità di prendere sul serio quello che gli accade, di potersene occupare, dal lavoro, alla famiglia, al fratello malato. Nel tempo, riusciremo anche a collegare la comparsa del nodulo con l'interruzione estiva.

L'importanza e l'utilizzo della comunicazione non-verbale

Che la comunicazione non verbale in analisi rivesta sempre una qualche importanza mi sembra qualcosa su cui tutti gli analisti possono risultare d'accordo in termini generali. Diverse sono però le posizioni sull'entità di questa importanza, e del suo rapporto con la comunicazione verbale. Per chiarezza descriverò due posizioni estreme, in qualche modo antitetiche, tra cui esistono ovviamente molte posizioni intermedie.
a) E' importante cogliere la comunicazione non verbale, ma per tradurla quanto prima in termini verbali.
Per quanto qualcuno possa obiettare che si tratta di fraintendimenti delle intenzioni degli autori, trovo difficilmente negabile che alcuni modelli psicoanalitici possano aver facilitato posizioni di questo genere. Mi riferisco a tutti i modelli che pongono i diversi livelli di elaborazione dell'esperienza in sequenza evolutiva sia rispetto allo sviluppo dell'individuo, sia rispetto all'elaborazione di ciascuna esperienza della vita. Tali mi sembrano sia il concetto di processo primario/secondario in Freud, sia la sequenza elementi beta ----> elementi alfa ---> pensieri in Bion. Una lettura diffusa, al di là, ripeto, delle diverse sfumature presenti negli autori, è la presenza di qualcosa di informe che, per la salute fisica e mentale dell'individuo, va tradotta il più possibile e quanto prima in termini simbolici(21). Anche questo tema è stato affrontato nel recente incontro italo/britannico sul Corpo nella seduta analitica. Il caso clinico presentato in quella occasione da Joan Schachter mostra un esempio di quella che può essere vista come una tendenza alla "ipertraduzione": La paziente, Sara, presentava, tra altri, il sintomo di strapparsi i capelli: "Potemmo così discutere e riconoscere tra noi i diversi significati del suo sintomo. Lo strapparsi i capelli è chiaramente un'azione iperdeterminata....con diversi livelli di significato psichico. Il più evidente appare quello di liberarsi di sentimenti e pensieri intollerabili, creando un pertugio o una discontinuità da cui possano defluire, vi è anche un elemento comunicativo nel quale la paziente veicola la sua disperazione, e talvolta lo strapparsi i capelli diviene una fantasia masturbatoria sado-masochistica. E' anche un spostamento verso l'alto, una fantasia di rimanere bambina senza la spia rivelatrice della peluria pubica" (Schacter, 2007). Come nota Pina Antinucci, che faceva da discussant al caso, la paziente non reagisce bene a queste interpretazioni. Sviluppa mal di testa nelle sedute, dice che "parlare è come una tortura". "L'analista stabilisce dei nessi tra gli stati somatici della paziente e quelli affettivi, la qual cosa tuttavia sembra solo infiammare Sara , che si sente fraintesa e molto arrabbiata, come se l'analista fosse una cattiva traduttrice di un linguaggio corporeo primitivo verso una lingua più sofisticata, vissuta dalla paziente come la lingua spuria dell'Altro. Inoltre la paziente considera le interpretazioni dell'analista, per quanto attente ed accurate, non di meno come una violenza". (Antinucci, 2007). E' d'altronde evidente come la paziente sia venuta in analisi proprio per trovare un senso in comportamenti del corpo che senso sembrano non avere. E allora, che fare? Antinucci introduce a questo punto una vignetta tratta da Racalbuto (1994): L'autore parla di un paziente che spesso comunicava per il tramite di azioni che l'analista viveva come allarmanti e prive di senso. All'inizio di una seduta, il paziente prese una sedia e sedutovisi di fronte all'analista, allungò le gambe e mise i piedi sulla poltrona di questi. La risposta iniziale di Racalbuto fu una sensazione di allarme e perplessità e, solo dopo averla elaborata, fu in grado di sentirsi più a suo agio, sensazione che risonava dentro di lui, ma che pure apparteneva all'esperienza condivisa nella stanza d'analisi. A questo punto l'analista disse "Per mettersi più comodo!" e ricevette come risposta: "E se mi puzzano i piedi?" "Beh, mettiamo il borotalco" fu la spontanea replica dell'analista, dapprima a lui stesso inaspettata e alla quale riuscì a dare un senso solo a posteriori. Il paziente, dapprima impaurito e ora a suo agio e persino estasiato, cominciò ad immaginare un piumino con il quale cospargersi di borotalco dopo un bagno caldo, con la sensazione di essere tutto bello, pulito e asciutto.
Nella sequenza l'analista riconosce che il bisogno più immediato del paziente è di avere un oggetto da "usare" su una base sensoriale, piuttosto che "oggettuale" e quindi un oggetto che non può essere percepito come diverso dal Sé, con le sue caratteristiche e, soprattutto, la sua alterità. Si tratta di un "oggetto-sensazione", dalle connotazioni affettive-sensoriali basate su modalità "psicosomatiche" di costruirsi l'esperienza (Racalbuto, 1994). L'analista deve sopportare il disagio controtransferale di essere, per il paziente, un oggetto sensoriale inanimato come il piumino, un oggetto che si presta ad essere usato per "inaugurare" la funzione di rappresentazione, che dapprima è "presentazione di cosa" e solo successivamente può essere connessa con la parola. "L'analista utilizzando la parola traspone l'esperienza sensoriale in un linguaggio simbolico che deve, però, rimanere ancorato alla sua base concreta e sensoriale, pur indicando al paziente che la sua esperienza è stata trasformata e resa simbolica dalla e nella mente dell'analista. Questo è ciò che è stato carente o deficitario nell'esperienza precoce del paziente, cioè la presenza di un oggetto abbastanza buono da trasformare i dati protosensoriali e gli stati corporei così da conferire loro significato psichico, ma ciò non è da intendersi come l'indice di una gerarchia di esperienza, quanto invece l'acquisizione di pensabilità di qualcosa che non era stato ancora pensato". (Antinucci, 2007).
Mi sembra che il pensiero di Wilma Bucci possa contribuire a chiarire i termini di questo dibattito, nella misura in cui definisce un sistema subsimbolico che può comprendere "presentazioni di cosa", "oggetti sensazione", "base concreta e sensoriale dell'esperienza", in una posizione non gerarchicamente subordinata ad altri sistemi. Si può quindi definire l'importanza di rimanere al livello subsimbolico di comunicazione del paziente, fino a quando questi sarà in grado di percepire la connessione con aspetti simbolici non più come una "traduzione in una lingua straniera". In questo senso si possono ipotizzare interventi ancora meno interpretativi di quelli proposti da Racalbuto nella vignetta citata (anche se in quella circostanza risultano perfettamente adeguati), che in fondo attribuiscono un'intenzione al paziente ("per stare più comodo"); interventi che semplicemente descrivano una situazione, riconoscendo e contenendo l'emozione sottesa, magari con una connotazione di "gioco" (es. "vedo dei piedi"; oppure, con la paziente della Schacter: "sembra che abbia proprio bisogno di strapparsi i capelli e venire qui sanguinante").
b) la comunicazione e le modificazioni a livello non verbale sono quasi l'unica cosa importante in analisi, e sono nettamente distinguibili da quelle verbali.
Ricordo dibattiti di ormai diversi anni fa sulla possibile utilità di audioregistrazioni di sedute per la ricerca sulla psicoanalisi e sulla psicoterapia. Una delle obiezioni che venivano portate con una certa enfasi era che la registrazione audio non dava conto della componente non verbale degli scambi. Mi sembra che in questa posizione si possa riconoscere da una parte l'attribuzione di un valore molto alto alla comunicazione non verbale, dall'altra l'assunto che nel linguaggio parlato non entri alcuna traccia di quei movimenti che stanno alla base della comunicazione non verbale.
Su di un piano più sistematico è noto come il gruppo di Boston, facente capo a Stern, e in parte anche Fonagy, abbiano teorizzato come per aversi un vero cambiamento in analisi debba avvenire un cambiamento a livello dei sistemi non verbali, della memoria implicita, procedurale. ".....è importante che l'analista sia consapevole del fatto che i cambiamenti cercati non riguardano la consapevolezza che il paziente ha dei suoi eventi passati, ma piuttosto cambiamenti nella memoria procedurale ed implicita. Così il recupero mnestico dell'esperienza passata può essere utile, ma la chiave del cambiamento è la comprensione degli attuali modi-di-essere-con-l'altro" (Fonagy e Target, 2000). Se l'importanza di cambiamenti a livello non verbale, implicito, può essere difficilmente negata, è difficile sottrarsi all'impressione di aver buttato via il bambino con l'acqua sporca, come si dice in inglese. L'interpretazione non serve, la parola non serve.............cosa rimane della nostra talking cure?
Mi viene in mente un lavoro di Carla Busato (2003) di cui sono stato discussant e che mi aveva stimolato riflessioni in questa area. Partirò da una vignetta clinica tratta da quel lavoro: Letizia è venuta da me adolescente. Il primo colloquio con lei avvenne dopo una serie di incontri con un collega, incontri finiti per la decisione del collega che non c era bisogno di continuarli. Essendo una ragazza che si presentava adeguata alla sua età, anch io non riuscivo a capire la sua richiesta di una psicoanalisi per motivi affettivo-sociali .Non trovavo seri motivi per acconsentire. Mi costrinse a riflettere questo fatto: mentre le chiedevo il perché ritenesse necessaria un analisi, con la sua risposta che forse era solo una moda di famiglia, in quel momento mi accorsi che mi tremavano le mani. Nella mia mente si mettevano assieme, da un lato, l essere lì di Letizia per chiedere aiuto a me, senza trovarne i modi, a me, la seconda persona con cui tentava, e da un altro lato il tremare delle mie mani, un tremare senza motivo, un tremare comprensibile come una rappresentazione di un modo simile all esprimersi, al comunicare senza le parole. Così decido di ritentare una strada per andare incontro al suo chiedere aiuto.
Nei termini della teoria del codice multiplo, abbiamo l'emergere nel campo di una attivazione subsimbolica, il tremito delle mani dell'analista. Ora, se alcune comunicazioni subsimboliche, come quelle tra madre e feto, cui fa anche riferimento in un altro passo il lavoro di Busato, non necessitano di ulteriore codifica, l'esperienza emozionale postnatale - che nella teoria della Bucci nasce a livello subsimbolico per poi acquisire nel rapporto con l'accudente le sue caratteristiche cognitivo/esperienziali, simboliche - necessita di una connessione con i sistemi simbolici, onde permetterne la piena consapevolezza, l'identificazione, l'utilizzo come segnale intrapsichico ed interpersonale. Quello che quindi vorrei sottolineare è che l'analista si trova anche di fronte al compito, altrettanto difficile e complementare a quanto descritto nel paragrafo precedente sulla necessità di entrare e rimanere in contatto con l'esperienza subsimbolica del paziente, di (ri)costruire queste connessioni, muovendosi tra i diversi livelli di simbolizzazione. Non basta infatti che l'analista percepisca il tremito delle proprie mani e lo intenda come una comunicazione della paziente; è necessario decodificare - o costruire ex novo - un significato simbolico per questa comunicazione e, nel caso di una consultazione, prendere anche una decisione pratica - accettare la paziente in analisi - sulla base di questa comunicazione. Che non significa naturalmente la traduzione immediata, multisfaccettata, che veniva criticata sopra. Come dire, per concludere questo punto, che la Teoria del Codice Multiplo, attribuendo pari dignità ai diversi sistemi, e sottolineando d'altra parte l'importanza della loro connessione, ci può aiutare a raggiungere una posizione più equilibrata tra considerazioni di tipo diverso.
Un ultimo aspetto che trovo prezioso della Teoria del Codice Multiplo è la sottolineatura di quanto il subsimbolico, il non verbale, possa entrare nel linguaggio; e non soltanto nei termini ben noti di tono, prosodia, volume della voce; ma anche, e questo mi sembra l'aspetto più specifico, nella scelta tra parole apparentemente di significato analogo, o nelle caratteristiche grammaticali/sintattiche del discorso. Tali sono ad esempio la scelta di un termine specifico o generico per indicare un oggetto (delle arance o della frutta); l'uso dell'Io o del Noi; l'uso o meno dell'impersonale (ci si trova a, uno si trova a); la descrizione di un episodio specifico o invece di un comportamento in generale; il livello di concretezza dei termini usati ("mi sono arrabbiato" o invece "ho sentito la rabbia che mi cresceva dentro e il cuore che mi batteva come un martello"); in che misura una situazione viene descritta in termini di attività del soggetto sull'oggetto o viceversa ("mi sono entusiasmato di questo lavoro" oppure "questo lavoro mi ha riempito di entusiasmo").
Aspetti di questo tipo sono alla base di metodi di siglatura di testi di sedute o di interviste: la misura dell'Attività Referenziale di Wilma Bucci tende appunto a valutare in che misura l'esperienza subsimbolica (il "corpo") e non verbale simbolica (il "sogno della veglia" di cui parla Antonino Ferro) sia presente nel linguaggio verbale; il Metodo Prototipi e Variazioni di Andrea Seganti (Seganti et al., 2000) sulla base delle caratteristiche linguistiche di un testo prodotto da un soggetto giunge a definire caratteristiche e modificazioni pre-verbali quali quelle relative allo stile di attaccamento. L'attenzione agli aspetti non simbolico/contenutistici del linguaggio, può risultare però molto utile anche nella comune esperienza clinica, nella misura in cui è una porta d'accesso per l'esperienza subsimbolica, o simbolica non verbale del soggetto, e ci fornisce indicazioni sulle difficoltà e le difese relative al pervenire ad una piena consapevolezza esperienziale di essa.

1Membro Associato Società Psicoanalitica Italiana, docente di Psicosomatica presso la Facoltà di Psicologia 1 dell'Università "La Sapienza" di Roma.


2Molte idee contenute in questo lavoro nascono dalla mia partecipazione al gruppo di studio "Verso l'Unità Corpo/Mente" condotto dalla Dr.ssa Carla De Toffoli presso il Centro di Psiconalisi Romano. Di esso fanno parte, oltre al sottoscritto: Alessandro Antonucci, Letizia Barbieri, Maria Pia Corbò, Roberta Di Lascio, Angelo Macchia, Alma Macho, Maura Magnani, M. Adelaide Palmieri, Dimitri Rallis, Domenico Timpano. Ringrazio tutti anche per l'attenta lettura critica di questo lavoro (di cui comunque mi assumo l'intera responsabilità).

3Alcuni motivi sono i seguenti:
- il termine ha un alone di significato legato alla patologia;
- il termine suggerisce l'effetto di qualcosa che si chiama mente su qualcosa che si chiama corpo, riproponendo quindi implicitamente un dualismo ontologico, e una modalità nello svolgersi di questo effetto che segue più la traccia della conversione isterica che la genesi dei disturbi somatici in generale.

4 Sappiamo che dopo avere completato l'opera Freud scrisse a Fliess (29 Novembre 1895) che il lavoro gli sembrava "una sorta di aberrazione", preferì non pubblicarlo e non se ne occupò più. In cosa consistessero le perplessità di Freud non è dato sapere: possiamo immaginare di coglierne qualcosa attraverso la nostra stessa incertezza tra due diverse posizioni che possiamo assumere oggi di fronte al Progetto: considerarlo un tentativo auspicabile e legittimo nella direzione di un isomorfismo mente/corpo, non più attuale però in quanto la fisiologia di oggi è ben diversa da quella del 1895, e quindi accingerci a sforzi analoghi di tradurre i processi psicologici nella fisiologia del nostro tempo o la fisiologia del nostro tempo in psicologia; oppure prenderlo come una metafora, un travestimento preterintenzionale delle scoperte psicologiche che Freud andava facendo, attraverso l'utilizzo di un linguaggio ritenuto più accettabile per l'ambiente scientifico dell'epoca. Forse l'idea di un isomorfismo, di una possibile riduzione del mentale al corporeo, non convinceva Freud neppure nel momento in cui aveva appena tentato - genialmente - di applicarla.

5Una situazione alessitimica viene riscontrata appunto elettivamente nelle persone affette da "attacchi di panico", come viene oggi chiamata la nevrosi d'angoscia di cui parlava Freud.

6Mi viene in mente come analogia che mentre gli strumenti a corda, la voce, la tromba, hanno la possibilità di produrre suoni che corrispondono a varie suddivisioni del tono musicale (un quarto, un ottavo di tono) e anche di aumentare o diminuire la frequenza del suono senza apparenti soluzioni di continuità (quello che sulla chitarra si fa con il "distorsore"), questo non è possibile con gli strumenti a tastiera, che emettono suoni fissi con ogni tasto. Il pianista che desidera ottenere sonorità ambigue (ad es. nel blues) ricorre all'artifizio di suonare contemporaneamente due tasti adiacenti, anche su ottave diverse, un po' come due affermazioni contradittorie.

7Le metafore utilizzate da Grotstein sono la striscia di Moebius, Giano bifronte, i gemelli siamesi (Grotstein, 1997a).

8Matthis (2000) ci ricorda come il lampo e il tuono appaiono all'osservatore come due fenomeni diversi e distanziati nel tempo mentre in realtà originano da un unico fenomeno fisico, una scarica elettrica.

9Per Varela (es. 2000) la mente è una proprietà, una funzione emergente dall'organismo, come un tornado rispetto alle molecole di aria e di acqua che lo compongono.

10E' impossibile naturalmente pensare ad una sintesi del pensiero di un autore che ha scritto migliaia di pagine lungo l'arco di una trentina di anni. Mi riferirò alle idee di Bion essenzialmente per come vengono utilizzate dalla maggioranza degli analisti nei dibattiti e nei lavori scientifici.

11Solo in tempi relativamente recenti si è giunti a proporre (Hautmann 2002; 2005) che possa essere presente un'attività di pensiero e di trasformazione anche a livello degli elementi beta.

12Così Gaddini (1981): "Tutto questo potrebbe portare a descrivere il processo di apprendimento mentale del proprio apprendimento fisiologico come l'apprendimento mentale di una prima realtà, che è il proprio corpo col suo funzionamento e i suoi comportamenti fisiologici. Questo tipo di descrizione non mi sembra consigliabile, perché può facilmente portare all'errore di considerare la mente soltanto come soggetto e il corpo soltanto come oggetto (corsivo mio). Da un punto di vista ontogenetico è forse più corretto dire che corpo e mente sono l'organismo..........."

13Hofer definì "hidden regulators" interazioni madre/cucciolo che mostravano effetti di regolazione biologica non evidenti ad una semplice osservazione dall'esterno. Tali ad esempio la facilitazione della produzione di ormone della crescita a seguito di stimolazione tattile o la maturazione del sistema vestibolare a seguito del cullare.

14o che la Klein chiamava "memories in feeling".

15"......quando una persona ha l'alito cattivo, il suo inconscio non vuole che sia baciata; quando tossisce, vuole che qualcosa non accada; quando vomita, vuole sbarazzarsi di qualcosa di nocivo"

16 Nel suo lavoro si sostiene come l'ulcera peptica sia l'espressione simbolica di una madre cattiva interiorizzata.


17 E' di Deutsch il concetto di una "corrente continua di conversione" dalla mente al corpo. Oggi si potrebbe piuttosto sostenere che vi possa essere una continua corrente che dal corpo, o dal subsimbolico, viaggia, o cerca di viaggiare, verso la mente, o i sistemi simbolici.

18 "i diversi processi che denominiamo organici, ed i loro disturbi, sono equivalenti di fantasie specifiche qualitativamente differenziate le une dalle altre quanto lo sono i processi o disturbi menzionati" (Chiozza, 1976).

19Gaddini (1981) tende in genere a considerare i disturbi fisici in termini difensivi, in particolare nei confronti di un'angoscia di perdita del sé. In alcuni punti sembra però anche accedere ad una posizione dove appaiono come una prima via di espressione di contenuti emozionali: "Si può dire così che la sindrome psico-fisica sia più vicina all'angoscia di perdita di sé e alla possibilità di certi riconoscimenti oggettivi di quanto non lo sia l'organizzazione mentale difensiva della non-integrazione". Una via d'uscita, si potrebbe affermare, dalla suddetta organizzazione.


20Identico discorso viene fatto in merito all'acting out. Così Racalbuto (1994, p.7): "L'irrapresentabilità non era nell'agito assenza; quest'ultima rappresentava......già la trasformazione, seppur minima, dell'affetto-sensazione, area opaca di senso".


21Il modello simmetrico/asimmetrico di Matte Blanco mi sembra vada invece più nella direzione di dare pari dignità ai due sistemi, co-presenti peraltro dall'inizio dell'esistenza, come esemplificato dalla metafora per cui  non può esistere un dirigibile fatto di solo gas (Matte Blanco, 1975) e come, possiamo aggiungere, non può esistere un dirigibile fatto di solo involucro. Il modello proposto da Wilma Bucci presenta rispetto a quello di Matte Blanco la differenziazione del livello di elaborazione iconico; potrebbe in effetti essere visto come una Integrazione del pensiero di Bion con quello di Matte Blanco.


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