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Neri C. - Quali funzioni svolgono la fede e la fiducia nella seduta e nel lavoro analitico? (2004)

19 marzo 2004

Quali funzioni svolgono la fede e la fiducia nella seduta e nel lavoro analitico?

                                                                Claudio Neri

Sommario
La nozione di fede - diversamente da quelle di “Illusione”, “Capacità di tollerare le frustrazioni”, “Investimento libidico” - non ha trovato un posto ben definito nella teoria psicoanalitica. Bion si è occupato di F (fede), per ciò che riguarda la sua funzione nel lavoro scientifico. Secondo Bion, è necessario un “Atto di fede” per dare consistenza ad alcune ipotesi ed intuizioni, che emergono durante le sedute analitiche e che corrispondono a fatti, la cui esistenza non è considerata dalle più comuni teorie. Il mio scopo è riprendere le sue proposte, mettendo in evidenza la rilevanza clinica di F e ed elaborando una concezione che risulti utile nel lavoro analitico. La prima parte del testo è dedicata all’esame delle aree nelle quali fede e fiducia si sovrappongono e di quelle nelle quali invece si divaricano. Ad esempio, la fede possiede un carattere propulsivo ed attivante, che non è parimenti rappresentato nel rapporto di fiducia. La seconda parte prende in considerazione F come fattore di una funzione psichica dell’analista, che è necessaria per riuscire a sostenere un paziente che si sente disperato e privo di risorse, attendendo che il suo desiderio di vivere si presenti nuovamente. L’ultima parte esamina F, vedendolo dal punto di vista del paziente e studiando la trasformazioni cui può andare incontro durante l’analisi. Parole chiave: fede, fiducia, investimento libidico, senso di vitalità
Parlare di fede è poco popolare tra gli psicoanalisti e non soltanto tra di loro. La fede - in contrasto con il libero pensiero, aperto, capace di raccogliere le contraddizioni, di accostare posizioni diverse - è vista come contenere un tratto autoritario: “La mia fede è vera, quella degli altri no!”. Questa osservazione, a mio avviso, è in larga misura  fondata. La fede, infatti, è sottoposta al rischio di un’involuzione autoritaria perché rimanda a modalità del pensiero e del sentimento assolute. Tuttavia non sempre e non necessariamente la fede si accompagna all’autoritarismo.
Parlare di fede, inoltre, è impopolare perché questo tema è proprio della religione. È impopolare, anche e soprattutto, perché fede, credulità e suggestione sono strumenti di cui si valgono maghi, guaritori  e imbroglioni. La psicoanalisi e il “pensiero laico”, dunque, tendono a stabilire una netta linea di demarcazione.
Io, tuttavia, penso che valga la pena di correre i rischi dell’entrare in questo terreno di confine. È importante portare la nostra attenzione sul fattore F in psicoanalisi, perché la fede possiede una grande capacità di attivare energie. Si dice comunemente che la fede “muove le montagne”. Non so se questo sia vero, però certamente mette in moto, molto di buono e di cattivo, sia nel gruppo che nell’individuo. È dunque importante che il fattore F venga riconosciuto come uno degli elementi rilevanti per la terapia psicoanalitica. Una mancanza o carenza di questo fattore, come vedremo più avanti, può dare luogo ad una stagnazione o portare addirittura ad un’interruzione del trattamento.
È inoltre importante portare la nostra attenzione sul fattore F, perché corrisponde ad un'attitudine necessaria per sostenere l'attesa di qualcosa che non ha ancora preso forma, che non si è ancora realizzato e che pure può essere importante. Ad esempio, F è un fattore della funzione psichica che l’analista deve mettere in campo, per riuscire ad aiutare un paziente che si trova in una condizione larvata di depressione ed abulia e non riesce ad uscirne. Bion: F come strumento dell’osservazione psicoanalitica
Nella letteratura psicoanalitica - a partire da Freud (1909-1939) - figurano alcuni interessanti articoli e libri dedicati al tema della fede e soprattutto a quello della religione. (Meissner 1984; Rempel 1997; Ricoeur 1965 e 1966; Rizzato 1979 e 1998).  Non li passerò in rassegna perché questo richiederebbe una trattazione estesa; dirò qualcosa soltanto del contributo di W.R. Bion, che si è occupato più direttamente della fede.
Bion parla di F (Faith) in Attenzione e interpretazione (1970) ed in Cogitations (1992, pp. 298-299). Egli considera F come una componente essenziale di qualunque procedura scientifica. L’Atto di Fede (Act of Faith) corrisponde alla capacità di avere fede in alcune percezioni ed intuizioni, che emergono durante il lavoro analitico e che corrispondono a fatti, la cui esistenza non è descritta e spiegata dalle teorie che sono al momento disponibili. Bion (1970, pp. 57-59) scrive: «Attraverso F [Atto di Fede], si può “vedere”, “udire” e “sentire” i fenomeni mentali della cui realtà un analista che ha pratica della psicoanalisi non ha alcun dubbio, sebbene non sia in grado di rappresentarli in modo sufficientemente accurato con una qualunque delle formulazioni teoriche che ha a sua disposizione.»  L’Atto di fede, dunque, corrisponde - secondo Bion - al salto esistente tra la teoria ed alcuni aspetti della realtà della seduta. La necessità dell’Atto di fede non è limitata alla psicoanalisi, ma riguarda anche altre discipline: fisica, astronomia, ecc. L’osservazione delle particelle sub-atomiche, ad esempio, è solo molto limitata ed indiretta, ciò nonostante la maggioranza degli studiosi di fisica “ha fede” nella loro esistenza.
A me è sembrato utile estendere il campo di F al di là dell’osservazione scientifica. F è necessario, non soltanto per vedere e sentire fenomeni mentali che non corrispondono al senso comune ed alle correnti teorie, ma svolge una funzione anche nell’ambito clinico e terapeutico.
Un secondo punto (seppure di minore rilievo) distingue il mio approccio da quello di Bion. Bion utilizza i termini “F” ed “Atto di fede”; io impiego, invece, la denominazione “Fattore F”. Il mio interesse non è rivolto a F (la fede) considerata in generale oppure isolatamente, ma ad F come un fattore che si può trovare associato ad altri in un certo numero di funzioni psicologiche, sociali ed istituzionali. F, ad esempio, può essere un fattore della funzione interpretativa oppure della funzione terapeutica dell’analista.
Desidero chiarire ancora un punto, prima di entrare nel vivo della trattazione. Nel titolo - come avrete notato - accanto al termine “fede” compare la parola “fiducia”. Non appena ho incominciato ad interessarmi di questo argomento, parlare contemporaneamente di fede e fiducia è emerso come una condizione indispensabile per dare coerenza al discorso. Le due nozioni, anche se per molti aspetti possono essere distinte, per altri si saldano. Non è dunque possibile sviluppare un discorso sulla fede, senza affrontare anche il tema della fiducia. Come diventerà chiaro andando avanti nella lettura, proverò ad accostare e differenziare questi due concetti, non ponendoli in diretto raffronto, ma prendendoli in considerazione nel loro rapporto con due “elementi terzi”: la ragione e la vitalità.
Differenziare fede e fiducia a partire dal rapporto che mantengono con la ragione è un approccio classico al problema. Più nuovo è avvicinarlo a partire dalla nozione di vitalità. Questo approccio mi è stato suggerito dalla clinica.
Nel mio lavoro come analista, ho incontrato numerosi pazienti che presentavano tra gli altri sintomi anche un senso di scarsa vitalità. Questo sentimento penoso poteva prendere la forma di un’impossibilità a raggiungere un senso di pienezza, un sentirsi ''un po' a lato'', non poter partecipare al "cuore della vita". Altre volte, si manifestava come una continua ricerca di qualcosa che veniva percepito come perduto. Altre volte ancora, si presentava come una condizione di fragilità e di vulnerabilità, maggiormente presente nelle situazioni meno controllate e più emotivamente coinvolgenti. Si può ipotizzare che all’origine di questo sintomo vi sia un conflitto o una inibizione che impediscono l’affiorare di alcune fantasie inconsce nel preconscio e poi nelle relazioni. Si può anche ipotizzare che vi sia una difficoltà nello stabilire e mantenere soddisfacenti relazioni d’oggetto-Sé ideale e speculare. (Wolf, 1988) Al di là della severità del quadro clinico e della configurazione dinamica, mi è sembrato, però, di riconoscere in questi pazienti un’alterazione del fattore F. Per tutti, riconquistare una certa fede nella bontà della vita è stato uno dei maggiori impegni del lavoro psicoanalitico e terapeutico.
Dopo avere indicato lo scopo che mi propongo, avere fatto cenno all’apporto di Bion e chiarita la ragione del titolo, presenterò il piano espositivo. Nella prima parte del lavoro, presenterò il tema del rapporto tra fede e fiducia e proporrò due definizioni della nozione di fede. Nella seconda, prenderò in considerazione la costruzione e la stabilizzazione della fiducia, mettendola in rapporto con la speranza e con l’autostima. Mi interesserò, inoltre, di F come fattore di una funzione psichica propria dell’analista. Nella sezione conclusiva, metterò in evidenza la relazione che esiste tra fede e mentalità primitiva del gruppo. Discuterò, inoltre, uno dei possibili percorsi che portano dalla “fede cieca” ad una “fede personale ed aperta al cambiamento”.    Fiducia e fede
Fiducia e fede intrattengono un rapporto diverso con la ragione. La fiducia è una tensione emotiva di tipo curativo. Ogni buon terapista è in grado di attivarla e sostenerla, utilizzando contemporaneamente, tanto gli elementi che sono comuni a tutti i sistemi psicoterapeuti¬ci, quanto il sapere scientifico che è specifico della sua disciplina. (Cawte, 1963, p. 163)
La fede pone invece problemi alla ragione. (Severino, 1996, p. 91) È al di là della ragione, se la consideriamo come i mistici un “essere all’unisono” con la divinità. È al di là della ragione anche se la consideriamo insieme con alcuni scienziati e filosofi come un mettersi in contatto con una forza creativa biologica o con un Élan vital.
La fiducia nasce da un rapporto duraturo, affidabile ed affettuoso. È confermata dalla verifica che le cose stanno proprio come ci è stato detto. La persona di cui impariamo a fidarci, ci spiega che cosa accade e perché accade; comunque, ci dà ripetute prove di sincerità ed autenticità. (Greenson, 1972, p. 128) La fede, invece, dipende da numerosi fattori che sono estranei ad ogni tipo di rapporto diretto e personale. Non ha bisogno di verifiche o comunque le verifiche non le sono essenziali. Segue proprie temporalità. Può scaturire in un attimo.
Desidero affiancare a questa concezione della fede un’altra concezione, che è distante ma non necessariamente in contraddizione con quella che ho ora delineato. Mi riferisco all’idea della fede come risultato di un lavoro interiore. La fede, intesa secondo questa accezione, può essere vista come effetto di una serie di esperienze, ed anche come risultato di numerose occasioni nelle quali si è avuto fiducia in qualcuno o qualcosa ricevendo risposte coerenti con le aspettative e le necessità. La fede, in questo caso, non ha bisogno di conferme, perché attraverso un lungo processo la persona è arrivata ad una salda convinzione.
Se intendiamo la fede in questo modo, la distinzione tra fede e fiducia si fa meno netta. La fede, anzi, può essere avvicinata alla “fiducia di base” (Basic trust) ed alla “base sicura” di cui parlano John Bowlby (1973 e 1979) e  Mary Ainsworth (1969, p. …). «La sicurezza […] nei primi stadi è di tipo dipendente e forma una base a partire dalla quale l’individuo può evolvere gradualmente, sviluppando nuove capacità ed interessi […]. Dove manca la sicurezza […], l’individuo è ostacolato dalla mancanza di quella che si può chiamare una base sicura su cui lavorare.»Questo modo di concepire la fede permette di individuare anche alcune altre intersezioni tra fede e fiducia.
Si può pensare, ad esempio, alla fede non soltanto come effetto della fiducia che qualcuno ha riposto in una certa persona, ma anche e soprattutto come effetto della fede nella bontà della vita che ha saputo trasmetterle.
Molti tra i miei pazienti, in una o in un'altra occasione, mi hanno chiesto: “Supererò questo blocco? La mia sofferenza avrà fine? Posso guarire? Riuscirò a fare questa cosa?”. Ognuno di loro mi chiedeva di rispondergli con un atto di fede e contemporaneamente esprimeva un dubbio più o meno radicale. Ho avvertito, anche, che questi pazienti mi chiedevano di effettuare un investimento affettivo aggiuntivo. In alcuni casi, ho sentito infine che queste pressanti interrogazioni nascevano dal bisogno di saggiare la mia risposta. Mi veniva domandato di fare arrivare un segno (testimonianza), che non riguardava, tanto la capacità di quel certo paziente di “superare il blocco”, “guarire”, “fare quella certa cosa”, ma piuttosto la fede nella sua possibilità e diritto ad un’esistenza soddisfacente. Tutto questo, al di là di quella particolare performance che il paziente poteva o meno fornire (superare il blocco, porre fine alla sofferenza, guarire).
Svilupperò più avanti questo punto, appoggiandomi su alcuni apporti di Winnicott, Anzieu e Kohut e presentando una breve illustrazione clinica. Adesso, invece, dirò qualcosa sulla paura e sull’ansia che si possono associare all’accordare fiducia a qualcuno.Turbolenza associata alla speranza
La nascita della fiducia nell’ambito di un rapporto psicoanalitico è accompagnata da un sentimento di rischio e da paura. Questi sentimenti derivano principalmente da due fattori. In primo luogo, la fiducia spinge ad entrare in relazione con un altro o con altre persone. Quando si è entrati in relazione, non si ha più il pieno controllo (o la fantasia di un pieno controllo) su noi stessi e ciò che ci può accadere. La fede, da questo punto di vista, è più rassicurante della fiducia perché consente di mantenersi maggiormente in una condizione di isolamento, di monade.
In secondo luogo, la nascita della fiducia può generare paura perché il suo sorgere è sempre accompagnato dall’emergere di speranza. Più precisamente, la speranza da aspettativa generica e vaga, diventa attesa definita e focalizzata. È uno dei momenti più difficili e minacciosi nel lavoro analitico. Per chiarire questo punto, utilizzerò un’immagine proposta da Bion (1983, pp. 29 30) durante i seminari che ha tenuto a Roma. «Un gruppo di cinque persone era so¬pravvissuto ad un naufragio. Gli altri erano morti di fame oppure erano caduti dai relitti della chiatta. Non ebbero paura di sorta, ma si terrorizzarono quando pensarono che si stesse avvicinando una nave. La pos¬sibilità di essere salvati, e la ancor maggiore possibili¬tà che la loro presenza non venisse notata sulla super¬ficie dell’oceano, li portò al terrore. Prima il terrore era affondato, per così dire, nelle travolgenti profondi¬tà della depressione e della disperazione. Così l’anali¬sta, nel chiasso della sofferenza, del fallimento dell’analisi, dell’inutilità di questo genere di conversa¬zione, deve pur sempre essere in grado di udire il suo¬no di questo terrore che indica la posizione di una persona che incomincia a sperare di poter essere salvata.»Il paziente, quando inizia ad avere fiducia, inizia anche a rinunciare alla condizione di distacco e perplessità (il chiasso, il sentimento di inutilità di questo genere di conversa¬zione), che gli consentiva di controllare il coinvolgimento e la distanza emotiva, però non è stato ancora accolto (la possibili¬tà che la sua presenza venga notata). Se vi è la speranza di essere capito ed aiutato, allora vi è anche la possibilità di essere nuovamente disilluso ed ingannato. Questa possibilità è veramente terrorizzante e angosciante.
A volte, il conflitto tra fiducia e sospettosità, tra necessità e paura è particolarmente drammatico. È come se una persona avvertisse un grande bisogno di nutrirsi e contemporaneamente temesse che il cibo possa essere avvelenato. In questi casi, il terapista deve offrire una prova, dare una “credenza”.
Zapparoli (1986, pp. 462 3) usa il termine “credenza”, per indicare che in queste situazioni la funzione del terapista ricorda quella che svolgevano nel Medio Evo i servi denominati “scalchi”. Gli scalchi oltre che preparare cibi e bevande, dovevano assaggiarli in presenza del padrone, per fornirgli “la  credenza”, dimostrargli cioè che non erano avvelenati. Il mobile - sul quale i cibi e le bevande erano posti “in bellavista” - era anch’esso chiamato “credenza”; ed ancora oggi in Italia il termine viene comunemente impiegato.
È difficile indicare quali siano gli strumenti più adatti ad avviare una relazione di fiducia, a “dare la credenza”. Secondo la mia esperienza, l’analista più che assaggiare i cibi che ha preparato per il suo paziente, deve assaggiare, anzi mangiare quelli che il paziente cucina per se stesso e per lui. Lo psicoanalista non deve essere ingenuo o privo di capacità di giudizio, ma contemporaneamente non deve rifiutare “a priori” - come sciocco, illogico, irrealizzabile o delirante - nulla di quello che il paziente dice e propone. Al contrario, deve  ascoltarlo con rispetto, attenzione ed interesse, ed in qualche modo farlo proprio. (Ferenczi 1932, pp. 311-12 [nota del 17 agosto])
Non tutti gli psicoanalisti condivideranno la mia opinione su questa modalità di dare la “credenza” a un paziente particolarmente angosciato e poco in contatto con la realtà. La grande maggioranza, però, sarà d’accordo con me nell’affermare che stabilire la fiducia del paziente è il lavoro terapeutico che richiede più tempo ed impegno. È il lavoro che può condurre il paziente a sperimentare una fiduciosa dipendenza ed una regressione terapeutica, di cui forse non ha mai fatto prima un’esperienza. (Winnicott, 1955, p. 335 e p. 342)La trama nascosta
Dirò adesso qualcosa di alcune aree nelle quali fiducia e fede si sovrappongono. Winnicott (1963, p. 118) in un piccolo saggio, che fa parte di Sviluppo affettivo e ambiente, scrive: «Il detto che l’uomo ha fatto Dio secondo la propria imma¬gine è considerato di solito come un esempio divertente del contrario, ma la verità che esso contiene potrebbe essere resa più evidente se lo trasformassimo così: l’uomo crea e ricrea di continuo Dio come luogo in cui poter mettere ciò che egli ha di buono in se stesso e che potrebbe rovinare se lo tenesse in sé insieme a tutto l’odio ed a tutta la di¬struttività che anche ha dentro.»  L’idea di tenere lontano e al riparo ciò che si ha di più prezioso ed autentico è centrale anche nella concezione di relazione tra “vero Sé” e “falso Sé”. Winnicott (1988, p. 125n) scrive a questo proposito: «Quando si verifica un certo grado di fallimento dell’adattamento, […] il bambino piccolo sviluppa due tipi di rapporto. Il primo tipo è un rapporto silenzioso e segreto con un mondo interno essenzialmente personale e privato […]. L’altro va da un falso Sé a un ambiente percepito, nel profondo, come esterno o completo. Il primo contiene la spontaneità e la ricchezza, e il secondo è un rapporto di sudditanza mantenuto per guadagnare tempo fino a quando, forse, il primo tipo di rapporto [quello del vero Sé col mondo esterno] potrà un giorno attuarsi. […]»  L’idea di Winnicott è che l’analista debba sostenere la nascosta fede del paziente (ritengo in questo caso che “fede” e non “fiducia” sia la parola appropriata) e cercare di realizzare in analisi l’ambiente che potrà favorire il suo divenire più spontaneo e felice.
Didier Anzieu, in un articolo dedicato alla “etica psicoanalitica”, parla della salda fiducia (della fede?) - in se stesso, nel paziente e nella psicoanalisi - che l’analista deve mettere a disposizione del paziente, perché questi possa superare i periodi di attesa e stagnazione, che si presentano nella terapia. Anzieu (1975, p. 261 [per l’edizione francese, p. 265]) scrive: «Il male che è stato fatto può essere disfatto; ciò che si è bloccato può riprendere il suo sviluppo; ciò che non è sta¬to dato può essere ricevuto, a condizioni di pazienza, pre¬senza, lucidità e opportunità […]. Se […] la carenza affettiva […] è stata tale che nell’uscire dalla pri¬ma infanzia, la pulsione di autodistruzione si è trovata rin¬forzata […], dobbiamo […] insegnare al paziente a sco¬vare e a sventare le astuzie dell’autodistruzione, rappre¬sentare per lui la realtà esterna ogni volta che è necessa¬rio […], manifestargli la nostra fiducia nel possibile primato del¬l’Eros.»  Le parole di Anzieu mi hanno fatto tornare alla memoria il sogno di una paziente. È una giovane donna in analisi da alcuni anni. La paziente sogna che io stavo insieme con lei e che avevo tre figli. Due dei tre figli erano morti, ma io li tenevo vicino a me tutti e tre. Uno era un cranio o un teschio, l’altro un cadavere, il terzo figlio era vivo. Nel sogno era rappresentato anche in maniera poco chiara un rapporto sessuale tra me e lei. Questo rapporto era caratterizzato dal fatto che io tenevo molto ben differenziata la mia condizione di psicoanalista dalla condizione di me stesso che aveva un rapporto sessuale con lei.
Dopo avere sognato questo sogno, la paziente si era sentita molto meglio. Dopo parecchio tempo, le era venuta nuovamente voglia di truccarsi, curarsi e comprarsi dei vestiti. Le era anche tornato il desiderio di cucinare. Complessivamente si era sentita più fiduciosa in se stessa.
Le possibili interpretazioni del sogno sono numerose. Mi limiterò ad accennare ad una chiave di lettura. Raccontando questo sogno, la paziente ha voluto mostrare gratitudine per il fatto che io avevo tenuto, per molto tempo,  in analisi e vicino a me, anche gli aspetti del suo Sé più sofferenti e addirittura morti. La sua testa era vissuta da lei come un cranio. Lei sentiva il suo corpo come un cadavere.
Questo sogno può venire messo in relazione, non soltanto con il discorso di Anzieu, ma anche con la proposta teorica di Heinz Kohut. Kohut (1987, pp. 73-74) ci invita ad avere fede nell’efficacia curativa di un dio minore, il dio della delicatezza e della sommessa gentilezza. Un esempio è l’affettuosa attenzione che traspare dalle sue note dedicate al recupero dell’autostima negli adolescenti e nei giovani adulti. «La sensazione di tepore fisico e l’autostima sono stretta¬mente connesse. E questo ha parecchio a che fare con la genesi del co¬mune raffreddore. Quando uno ha freddo, quando è depresso e non si sente accudito, si verificano cadute dell’autostima che sono molto spesso seguite dal raffreddore comune. Allora un bagno caldo, ad esem¬pio, può servire a ripristinare l’autostima. È una misura frequente nel¬la idroterapia, anche se non conosciamo bene il perché dei risultati ot¬tenuti. Anche altre esperienze, come l’esercizio fisico, possono servire a reintegrare l’autostima.» L’attenzione e le cure dell’analista per il paziente sono come un bagno caldo. Rinvigoriscono la sua autostima. Se qualcuno, si occupa di lui, egli sente di essere stimato e di avere valore, non perché egli ha fatto qualcosa, ma perché qualcuno ha fatto qualcosa per lui.
Possedere una sufficiente autostima non significa soltanto essere/avere una valida mente (un cervello al posto di cranio), ma anche essere/avere un corpo vivo. L’autostima è correlata con il Sé corporeo. Autostima è anche avere un positivo rapporto con il proprio corpo, percepire attraverso il proprio corpo il calore degli altri. Stabilizzazione della fiducia
La stabilizzazione della fiducia - come ho accennato nei primi paragrafi, quando ho parlato della distinzione tra fede e fiducia - si fonda sul poter contare su un certo numero di rapporti affidabili. La fiducia aumenta con la sicurezza in questi rapporti. L’ambiente esterno, però, non è mai totalmente affidabile. Darà, comunque, delusioni. Inoltre, noi siamo organismi in cambiamento e ci muoviamo in contesti che mutano. Ogni volta che siamo di fronte a situazioni nuove, ad una tappa della vita (dall’infanzia alla pubertà, dalla pubertà all’adolescenza, dall’età matura alla fase in cui si è anziani), l’insieme degli elementi su cui avevamo fondato la nostra sicurezza deve essere riformulato.
La stabilizzazione della fiducia dunque non può dipendere soltanto dall’affidabilità dei rapporti, ma deve poter fare conto anche sull’aumento della capacità di affrontare l’insicurezza dei rapporti, valendosi della sicurezza che si possiede (autostima). Stabilizzare la fiducia dipende, cioè, anche dalle risorse sulle quali si può contare perché le delusioni vengano “banalizzate”; vengano, cioè, considerate come effetto di una limitazione umana, di un semplice errore, di un caso sfortunato, e non di un tradimento, un’intenzione di ferire, un’ignominia.
Imparare a banalizzare le delusioni (mi sia consentito il gioco di parole) non è affatto un cambiamento banale. Significa imparare ad impiegare - quando si è confrontati con ciò che causa delusione - una griglia di lettura differente da quelle impiegate in precedenza.
Se è possibile fare affidamento su una certa sicurezza interiore, una fiducia intrinseca in se stessi, queste permetteranno di pensare che saremo in grado di trovare una via d’uscita dalle situazioni che si possono essere determinate. Potremo inoltre pensare che l’immagine di noi stessi e la nostra autostima non saranno troppo intaccate dalla delusione subita, o quanto meno che potranno essere recuperate senza troppi danni.
Ogni delusione cui si va incontro, comunque, comporta una certa perdita dell’autostima. (Luhman 1968, pp. 121 124 e p. 128)
Il recupero di questa è legato, tra gli altri fattori, anche al senso di  responsabilità che si è raggiunto. Sentirsi responsabili fa sentire meno in balia degli eventi. Fa sentire meno acutamente la penosa sensazione che può essere espressa con queste parole:  “Io sono impotente, quello che faccio è irrilevante per la mia vita, io non sono in grado di influenzare ciò che succede”. Se ci si sente responsabili si può fare qualcosa. Se si può fare qualcosa, l’autostima aumenta.
L’autostima è fondata sul senso di responsabilità e su un realistico giudizio relativo alle proprie capacità. Trae, però, origine anche da precoci esperienze infantili di fusione con la madre e il padre sperimentati come perfetti e dotati di intrinseca bontà e bellezza. Una fonte essenziale di autostima è rappresentata, inoltre, dalla risposta entusiastica ed ammirante (il brillio degli occhi) che il bambino ha ricevuto quando ha esibito se stesso, i suoi prodotti e abilità.
Ci possiamo rendere conto di come l’autostima sia legata alla qualità delle nostre relazioni fondamentali, pensando a quanto è più facile recuperare fiducia in noi stessi, quando abbiamo accanto qualcuno che è importante per noi e che condivide i nostri vissuti. Questo naturalmente è vero se la persona che ci accompagna è sincera, affettuosa e capace di empatia. Un proverbio dice “Meglio soli, che male accompagnati”. Se chi ci è vicino non ci ama “per come siamo”, se dubita di noi - noi spesso dubitiamo non di lui e del suo amore, ma della nostra capacità di amare. A sua volta, il pensiero di essere incapaci di amare agisce in modo assai avvilente sul sentimento di sé (Selbstgefühl). L’uomo che ha dubbi sulla propria capacità di amare dubita di tutto. (Freud 1915, pp. 468-9)
L’autostima subisce fluttuazioni, ed ha comunque, necessità di sempre nuove conferme. Non dobbiamo qui pensare soltanto ai grandi crolli, ma anche a piccoli avvenimenti. Eventi apparentemente secondari, talora, possono produrre oscillazioni amplificate. È stabile solo la “autostima normalizzata”: quella di chi si considera sempre buono, giusto e normale.  L’autostima normalizzata è propria di chi non ha bisogno di conferme. Chi la possiede non è aperto all’esperienza, dunque non ha bisogno di trovare nuovi equilibri. Già ha tutto ciò che egli stesso approva e giudica valido. Mi verrebbe da dirgli: “Buon per te!!”. Subito dopo, però, nasce nella mente un secondo pensiero: “Però io non vorrei essere al tuo posto.” (Kohut 1987, p. 64, p. 367 e pp. 376-7)Fede e mentalità del gruppo
Per ciò che riguarda la fede, molto più che per la fiducia il riferimento al gruppo è essenziale. Basta pensare alla recita dell’atto di fede, che ha accompagnato tanti momenti dell’infanzia: “Credo in Dio padre onnipotente …”. Si tratta di un’attestazione che, anche quando avviene in silenzio e in privato, porta il segno dell’adesione ad una fede condivisa da un gruppo di credenti.
A mio avviso, una delle ragioni per cui la gestione della fede frequentemente è “delegata” ad un gruppo o ad una chiesa risiede nella difficoltà che l’individuo incontra nel confrontarsi con la contraddittorietà dei sentimenti implicati nel credere. Avere fede è meno arduo se una istituzione effettua la “saldatura” di questi sentimenti in un credo collettivo. (Ambrosiano e Gaburri 2003, pp. 46-57)
I sentimenti che accompagnano la fede sono più complessi e contradditori di quelli che vanno insieme alla fiducia (speranza, paura, sicurezza).  Si può parlare della fede in termini di assoluta certezza. Si può, però, anche mettere in evidenza la presenza di timore, sgomento, risentimento, e forse persino odio. Vi può essere amore reverenziale per l’oggetto in cui si ha fede, ma anche totale ripulsa. (Freud, 1928, p. 81; Malcolm 1964, p. 107; Needham 1972, p. 95; Kierkegard …., p. …)
La fede, inoltre, è accompagnata da due particolari “toni del sentimento”. Freud ne parla in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) e ne L’avvenire di un’illusione (1928). Il primo è l’idealizzazione: nella fede è in questione qualcosa di alto, nobile, straordinario. Il secondo è l’illusione: uno stato mentale che preserva la fede, tenendo distante la verifica della realtà.
Esaminerò più avanti la trasformazione di questi sentimenti nel corso dell’analisi; adesso, invece, metterò in evidenza come avere stabilito una connessione tra fede e mentalità di gruppo ponga in migliori condizioni per chiarire un fenomeno cui ho accennato nei paragrafi iniziali: la fede segue proprie temporalità.
Presenterò un esempio che riguarda la nostra professione. Attualmente - in Italia e probabilmente anche in altri paesi - l’opinione pubblica attribuisce alla psicoanalisi un valore molto minore di quanto non le assegnasse dieci o venti anni fa. Questo cambiamento è effetto di una molteplicità di fattori sociali, politici e scientifici. Io ritengo, però, che non dipenda interamente da valutazioni di persone che conoscono la psicoanalisi e possono offrire un motivato giudizio sulla sua utilità. Il cambiamento è dovuto, almeno in parte, al variare della moda. Si tratta di un mutamento che ha caratteristiche simili a quelle descritte da Bion, quando ha parlato della mentalità del gruppo in assunto di base.
Bion (1961, p. 182) – come è noto - distingue nella vita mentale del gruppo due mentalità contrapposte: la mentalità del gruppo di lavoro e la mentalità del gruppo primitivo (gruppo in assunto di base). Nell’attività del grup¬po di lavoro, il tempo è un fattore intrinseco. «L’uomo che domanda: “Quando ci sarà la prossima riunione del grup¬po?” si riferisce, nella misura in cui sta parlando di feno¬meni mentali, al gruppo di lavoro.» Al contrario, in un gruppo in assunto di base, il tempo non svolge alcun ruolo. Le credenze, le mode e le tensioni collettive sorgono e tramontano senza correlazione con il tempo dell’orologio, e neanche con il tempo ciclico che è proprio del mito.«Non vi è né sviluppo né decadenza nelle funzioni dell’assunto di base, e sotto questo aspetto differiscono to¬talmente da quelle del gruppo di lavoro.» In ogni gruppo o comunità la mentalità di “gruppo di lavoro” e quella di “gruppo in assunto di base” coesistono. La percezione del tempo subisce l’influenza di entrambe.«Bisogna dunque aspettarsi dei risultati anomali e contraddittori se si osserva la continuità [di un fenomeno] del gruppo nel tempo senza aver indivi¬duato che due diverse specie di attività mentali agiscono […] nello stesso tempo.» Molti psicoanalisti hanno avvertito il cambiamento dell’opinione pubblica cui facevo cenno e l’hanno messo in connessione, non tanto con la “crisi della psicoanalisi” (l’insieme dei fattori sociali, politici e scientifici) o con un mutare della sintomatologia prevalente dei pazienti che si rivolgevano loro, quanto con un cambiamento che riguarda la fede e la fiducia (Fattore F). Ne hanno quindi tenuto conto, mettendo in opera accorgimenti che potevano garantire un buon andamento della terapia anche in queste mutate condizioni. Ad esempio, negli anni ‘70 ed all’inizio degli anni ’80, i pazienti manifestavano un’immediata accettazione (“devozione”?) per l’analisi nella forma (“canonica”?) delle quattro sedute settimanali. Oggi un’analoga proposta incontra resistenze o addirittura un rifiuto. Alcuni analisti, conseguentemente, offrono all’inizio del rapporto un setting idoneo a cogliere i dubbi, le esitazioni, le perplessità ed anche le attese dei pazienti.  Vi è la consapevolezza che un certo livello, non solo di fiducia, ma anche di fede nella psicoanalisi, deve essere costruito insieme al paziente perché l’analisi abbia un motore che aiuti a superare i successivi momenti di difficoltà. Di questa costruzione o attivazione della fede nella psicoanalisi, negli anni passati, non vi era bisogno, perché faceva parte della mentalità del gruppo sociale e si trasmetteva automaticamente ai pazienti. Trasformazione dell’onnipotenza
Un altro momento del trattamento in cui è importante tenere in considerazione il Fattore F è quando il lavoro analitico sta iniziando a dare risultati. Il paziente ed anche l’analista avvertono che qualche cosa potrà cambiare veramente. Il paziente non è più lì soltanto per essere consolato, ma capisce di avere la possibilità di accedere ad un modo più ricco e più profondo di essere e di vivere i rapporti, ad un modo di stare in relazione con se stesso dotato di maggiore respiro. Spesso si verifica allora una “reazione terapeutica negativa”. La persona, improvvisamente, si tira indietro e pensa di terminare l’analisi.
Questa reazione può essere vista nei termini di una non sufficiente autostima: la persona sente di non essere all’altezza di quello che si prospetta, avverte di non meritare una vita migliore. Può essere considerata anche come espressione della paura di perdere - con il cambiamento - alcuni punti di riferimento essenziali per il mantenimento dell’identità, per il sentirsi “proprio se stesso”: ad esempio, una certa immagine di sé come persona sfortunata e sofferente, l’appartenenza ad una data cerchia di persone o ambiente. La “reazione terapeutica negativa” può però dipendere, anche, dal non avere elaborato adeguatamente un’iniziale “fede cieca” nella analisi (la fede cui corrisponde un “affidarsi magico” allo psicoanalista ed alla cura), trasformandola in una “fede personale ed aperta al cambiamento”. (Orefice 2002, pp. 133-148 e pp. 342-343 )
In questa fase, il compito dell’analista, consiste nell’affrontare l’elaborazione dei traumi che hanno causato un danno alla fiducia di base del paziente. Il compito del paziente è scoprire validi oggetti in cui porre la propria fede ed un nuovo modo di avere fede. Questo impegno del paziente implica, prima di tutto, fare i conti con l’onnipotenza.
Bion (1970) e Kohut (1984) - all’interno di quadri di riferimento teorici diversi - osservano che il vissuto di onnipotenza è l’altra faccia di quello di sentirsi miseri e completamente privi di capacità. Sin quando questi sentimenti non sono stati riconosciuti e guardati con uno sguardo benevolo da un terzo (dall’analista), la persona rimane intrappolata e non si può neanche iniziare a parlare dell’acquisire una “fede personale”. Soltanto chi non si sente troppo misero (o troppo onnipotente) può riconoscere l’attrazione che nasce in lui dall’incontro con un uomo, una donna, un’idea, una visione della vita. Può operare una scelta guidata dalla propria  inclinazione (clinamen) e non da ciò che il gruppo cui appartiene considera bello, elevato, eccitante.
Non approfondirò oltre il discorso sugli apporti di Kohut e di Bion perché il mio punto di riferimento principale nel trattare di questo tema non è rappresentato dalle loro opere, ma da Freud, in particolare dalla sua teoria relativa al lutto. Le considerazioni che Freud ha avanzato per discutere della trasformazione che segue la perdita di un oggetto amato, a mio avviso, infatti, possono essere utilmente estese anche a ciò che avviene in coincidenza con la rinuncia ad un aspetto onnipotente della personalità. In Caducità (1915, pp. 174-6), egli offre una descrizione del processo, che mette bene in evidenza il suo risultato: la nascita di nuove relazioni.«[…] Perché [il] distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo cosi doloroso resta per noi un mistero […]. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo […] è il lutto.»
«[…] Il lutto, [però,] per doloroso che sia, si estingue sponta¬neamente. […] Allora la nostra libido è di nuovo libera (nella misura in cui siamo ancora giovani e vitali) di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora. […] Torneremo a rico¬struire […] su un fondamento più solido e duraturo di prima.»Quando i vecchi oggetti perduti sono stati dis-investiti (e gli aspetti del Sé più onnipotenti sono stati de-potenziati), è possibile nutrire nuovamente una certa fede nel vivere il presente e il futuro. Questo breve resoconto clinico illustra il momento in cui per Mariana si apre tale possibilità.
Una serie di avvenimenti antichi ed anche relativamente recenti aveva gravemente compromesso la fede di Mariana - una donna di quarantotto anni - nella possibilità di continuare ad essere viva. Mariana non sapeva se e come avrebbe potuto concretamente vivere gli anni che le rimanevano, quelli della maturità avanzata. Attraverso il lavoro fatto in analisi, la paziente - con grande sollievo - ha iniziato a pensare che avrebbe potuto arrestare l’aspetto inanimato ed autodistruttivo di lei stessa che le premeva da dietro (il passato?). La paziente sogna: «Ero alla guida di un grosso camion: un tir. Vedevo una donna che attraversava la strada. Facevo una lunga, lunghissima frenata. Mi fermavo molto vicino alla donna. Era una donna che poteva avere una diecina d’anni più di me. Assomigliava ad una signora che veniva a cucire a casa, quando ero bambina. Io, anche se non la conoscevo molto bene, la chiamavo “tata”.»
Mariana - nel sogno - riesce a rivolgere l’attenzione alla “se stessa-futura”, che rischia di venire travolta dal pesantissimo tir di cui è alla guida. È una donna anziana, ma non priva di risorse. La “donna che cuce” - nella lettura del sogno che ho proposto alla paziente - rappresenta non soltanto lei stessa nei suoi anni a venire, ma anche “ciò che ha dentro di sé”: l’analista che si prende cura di lei, come in passato la tata.
Per Mariana la rinuncia all’onnipotenza ha coinciso con il rendersi conto dell’esistenza di un aspetto della sua personalità fatalistico, automatico ed auto distruttivo. Un altro paziente, Marco rappresenta un analogo momento di rinuncia ad essere onnipotente ed intangibile come “accettazione della legge”.
Marco sogna: «Seguivo un corso come “propagandista”. Nella lezione, qualcuno diceva che l’89% oppure l’85% muore. Era un tipo di linguaggio pseudo scientifico. In effetti il 100% muore. Parlare dell’89% o dell’85% era un trucco, perché si riferiva alle persone che muoiono nel tempo considerato dall’esperimento.» Il paziente mi spiega che i “propagandisti” o “collaboratori scientifici” sono impiegati delle aziende farmaceutiche che vanno a visitare i medici per illustrare loro le caratteristiche dei farmaci. Marco aggiunge che i “propagandisti” spesso offrono informazioni distorte sulla qualità dei medicinali. Anche questo sogno - come quello di Mariana - può essere letto secondo diverse linee interpretative. Io e il paziente ci siamo orientati a pensare che esso mostra una disponibilità di Marco ad accettare la legge di natura. Non vi sono eccezioni. È inutile escogitare trucchi. È inutile illudersi di appartenere ad una piccola minoranza esentata dalla legge.
La consapevolezza che accompagna questo sogno, ha permesso al paziente di accettare maggiormente se stesso, anche se non compie performances eccezionali. Nei mesi immediatamente successivi, Marco è andato assimilando la sostanza affettiva di un altro limite: le persone importanti per lui non sono “eccezionali” nel senso di essere (in teoria) idealmente buone, capaci e disponibili, ma semplicemente perché sono loro: quelle certe persone con ciò che hanno di “buono” ed anche di “quasi intollerabile”. In un tempo ancora successivo, Marco ha affrontato ciò che egli stesso ha definito: “l’effetto legame degli affetti”,  “la loro natura bi-fronte”. Egli si è reso conto di desiderare e ricercare gli affetti, ma che questi comportano anche la creazione di limitazioni e l’attivazione di contro-campi. Progressivamente, egli ha gioito maggiormente dello stare in intima compagnia ed ha dovuto fare meno ricorso al rendersi inaccessibile come strumento per salvaguardare se stesso.Alcune importanti precisazioni
Approfondirò il discorso relativo all’elaborazione dell’onnipotenza, parlando di alcune qualità del vissuto che debbono essere assolutamente preservate nel momento in cui tale processo si realizza.
L’esperienza clinica mi ha mostrato, infatti, che l’elaborazione del lutto e l’attraversamento della posizione depressiva  (o un suo “supposto” attraversamento) possono essere accompagnati da consistenti “effetti collaterali” negativi. Vi può essere un irrigidimento della personalità. La persona non trova più un’esperienza gioiosa di sé che sperimentava (magari accompagnata da ansia e grande sofferenza) quando era maggiormente onnipotente. Scompare una certa capacità visionaria che non è in contraddizione con il vivere la vita quotidiana, ma anzi aiuta a coglierne il sapore. Quando il processo si svolge positivamente, al contrario, queste qualità vengono preservate ai confini e anche dentro il nuovo senso della limitatezza.
Melanie Klein (1940 e 1946) ha parlato della rinuncia all’onnipotenza e della “difesa maniacale”, nell’ambito della sua trattazione relativa al passaggio dalla posizione maniacale alla posizione depressiva. Non illustrerò le sue posizioni, perché sono molto nota. Dirò, invece, qualcosa a proposito di alcune critiche che le sono state mosse. Queste critiche, infatti, a mio avviso, sono pertinenti ed offrono indicazioni utili per chiarire il problema di cui ci stiamo occupando. James Grotstein (2000, p. 272 [dell’edizione inglese]) scrive:«In un lavoro del 1935 dedicato alla discussione della  posizione depressiva, Melanie Klein illustra il concetto di difesa maniacale. Le  difese maniacali cercano di aiutare l'aspetto [onnipotente-infantile] (the infantile portion) della personalità a trionfare, disprezzare e controllare sia l’oggetto da cui si dipende, sia la parte dipendente [della personalità] del bambino (infant). Io ho l’impressione che Melanie Klein abbia però trascurato di prendere in considerazione le difese depressive. Queste sono la controparte internalizzata delle difese maniacali: la loro principale manifestazione è il martirio, che il bambino (infant) soffre al fine di controllare l’oggetto.»  Le espressioni “difese depressive”, “martirio” e “controllo dell’oggetto” - come accennavo - offrono spunti per una migliore comprensione delle situazioni cliniche, nelle quali l’attraversamento della posizione depressiva porta ad esiti parziali e limitanti.
Il discorso di James Grotstein diventa più preciso se lo mettiamo in rapporto con il contenuto di un piccolo articolo di Greenson. Greenson parla della “ricerca della perfezione”. Vale a dire della continua ricerca di qualcosa di elevato, meraviglioso ed anche assai difficile da raggiungere, una ricerca alla quale viene sacrificata gran parte della vita. Riporterò una illustrazione clinica di Greenson (1973, pp. 137-142) che ho trovato illuminante. «Un geniale magnate degli affari, di mezza età, era tiranneggiato dalla coazione ad essere esatto, preciso e accurato in particolari che il suo stesso miglior giudizio gli diceva insignificanti. Nonostante il suo enorme successo finanziario, sentiva di dover supervisionare personal¬mente le minuzie delle sue varie imprese commerciali che erano disseminate per tutto il mondo.» La coazione di questo paziente ad essere esatto indica che nella sua personalità di sono presenti tratti di ossessività. La megalomania e l’iper-attività controbilanciano la sua depressione e i vissuti di vuoto. Tuttavia, parlare soltanto di ossessività, depressione e del sentimento di sentirsi vuoto non darebbe un’immagine completa e sufficientemente specifica dei problemi del paziente.«La nascosta ma frenetica, coazione della vita di questo uomo era una ricerca di perfezione. Egli aveva sgobbato tutta la vita per conquistarsi l’amore della madre.»  «La madre lo adorava e chiaramente lo pre¬feriva al padre, ma era ossessionata dalla pulizia. Que¬sto significò per il bambino che amava la pulizia più di quanto non amasse lui. Per lei la pulizia era molto vicina alla bontà.» «Nella vita adulta, la sua esattezza e precisione erano diventate richieste interne, residui della madre, che ora portava dentro di sé.»
«[Essere pulito, preciso ed efficiente, però,] era un compito senza fine, poiché ogni caduta dalla perfezione rievo¬cava il volto della madre deformato dal disgusto. La tera¬pia lo aiutò alla fine a preoccuparsi un po’ meno della madre morta e a interessarsi di più alla moglie viva ed ai figli.» Concordo con le idee di Greenson salvo che per un punto: Greenson parla di scelta tra la “moglie viva” e la “madre morta”. Io penso, invece, che la scelta si ponga piuttosto tra la “moglie viva” e la “madre ideale”, cioè una madre astratta ed inanimata. Rinunciando alla ricerca della perfezione (quella che nei termini di Grotstein potrebbe essere definita una “difesa depressiva”) si scarta un ideale astratto rispetto alla vita. Si sceglie la vita che è fonte di ricchezza e bellezza, ma è anche terribile, imperscrutabile e caotica. La vita che dà gioia e contemporaneamente ansia.Individuazione e scelta
Un aspetto essenziale della trasformazione della fede in “fede personale”, è l’individuazione e la scelta di ciò di cui ci si vuole interessare e su cui investire interesse ed affetto. Turoldo (2002, pp. 81-82) scrive:«Non c’è dubbio: [il problema non è] tanto il credere, cioè l’avere o no una fede, quanto il problema di una precisa fede. [...] Arrivare ad una individuazione della fede è la grande questione [...]»
 
Il problema della scelta degli oggetti nei quali riporre fede, ha assunto una posizione sempre più importante nel mio lavoro. Inizialmente, avevo pensato che il mio compito quale analista consistesse soprattutto nell'aiutare i pazienti a rimuovere gli ostacoli nevrotici (e più in generale di ordine psicopatologico) che si frapponevano alla possibilità di lasciare i vecchi oggetti di investimento libidico. (Fairbairn 1944)  Il nuovo investimento si sarebbe realizzato in modo spontaneo e sarebbe stato accompagnato da un rinnovato senso di vitalità.
Ho notato, successivamente, che alcuni pazienti incontravano considerevoli difficoltà nell’individuare come oggetto di investimento: presone, idee e situazioni che fossero adeguate alla fase della vita che stavano vivendo e che fossero in grado di ricambiare l’investimento con risposte che dessero a loro volta un rifornimento libidico. Pertanto rimanevano a lungo in un limbo confuso e penoso. Durante il lavoro analitico con questi pazienti, inoltre, mi è sembrato di poter riconoscere che il problema non era completamente comprensibile alla luce della teoria del lutto. Spesso entrava in campo l’effetto di un trauma precoce.
In questi pazienti, era carente un’attitudine psicologica necessaria per sostenere l'attesa. Mancava una positiva capacità di rischiare e mettersi in gioco in momenti importanti della vita. Talora queste capacità erano soltanto potenziali. Altre volte, io - come analista - dovevo svolgere una funzione di supplenza. In tutti questi casi, mi è sembrato di potere ravvisare un’alterazione del Fattore F. - F
Un caso particolare, tra le situazioni nelle quali il Fattore F è carente o inadeguato, è rappresentato dalle situazioni nelle quali una fede che era stata raggiunta è diventata successivamente un ostacolo. W.R. Bion - per indicare questa estensione della fede nel campo della resistenza - avrebbe, probabilmente, utilizzato l’espressione - F (meno F).
Riporterò una breve illustrazione clinica.
Nadia è una donna di circa trentacinque anni. È una professionista apprezzata. Non è sposata o fidanzata. Conduce una vita sociale ristretta. Va in vacanza con un piccolo gruppo di amiche e colleghe. I rapporti con i familiari sono saltuari. La famiglia, invece, è incombente nella sua mente e nelle sue fantasie.
Nadia - nonostante abbia la patente - si sposta esclusivamente in motorino. Dice: “Un’automobile sarebbe troppo per me; avrei paura di intralciare, dare fastidio agli automobilisti”. Non si tratta però solo di non disturbare, occupando troppo spazio. Nadia, ha un intenso coinvolgimento  emotivo con il suo motorino, che è veramente molto importante per lei. Ho la possibilità di rendermene conto qualche tempo dopo l’inizio dell’analisi, quando il ciclomotore ha un guasto. “Per fortuna - dice la paziente - lui, il motorino ha fatto un grande sforzo e mi ha portata sino al posto dove dovevo andare, ma poi lo ho dovuto lasciare dal meccanico”. Nei giorni successivi, Nadia mi riferisce che molti colleghi di lavoro ed amici le hanno suggerito di comprare un motorino nuovo e più moderno. Lei, però, non ha voluto neanche sentirne parlare. “Il mio motorino va benissimo. È la prima volta che si rompe. Per la velocità a cui debbo andare, non ho bisogno di altro. Poi, è il mio motorino da tanti anni e non mi ha mai tradito.” Il meccanico - con grande soddisfazione della mia paziente - nel giro di qualche giorno è in grado di restituire l’amato ciclomotore alla legittima proprietaria. Il motorino riparato resta un elemento essenziale della vita di Nadia, ma l’idea di un possibile cambiamento è ormai entrata nel discorso analitico.
Per Nadia, il motorino non è soltanto un oggetto di investimento affettivo: è il simbolo di qualcosa in cui crede profondamente. Max Weber (1922) cita un versetto della bibbia «Se vedi un uomo prestante nella sua professione, è segno che egli può apparire davanti ai Re». Weber - attraverso questa citazione biblica - mette in evidenza il valore che l’etica protestante attribuisce al lavoro, in contrapposizione all’etica feudale basata sui titoli nobiliari e sulla genealogia.  Per Nadia, il motorino è il simbolo di qualcosa di simile. Un “piccolo” (come lei sente di essere) può conservare la propria dignità e mettersi al riparo dall’arroganza dei “grandi”, soltanto se è profondamente consapevole della sua condizione, non ne supera mai i limiti, e soprattutto se se la cava sempre da solo.
Il motorino e tutto ciò che di analogo vi è stato in precedenza nella vita di Nadia l’hanno veramente salvata da bambina e da adolescente, quando era impegnata nella dura lotta per sopravvivere all’interno di una famiglia che era sempre pronta a mettere in evidenza, punire e ridicolizzare ogni piccola mancanza e debolezza.
Mentre ascoltavo Nadia in seduta, si è presentato alla mia mente un racconto di una collega australiana, che lavora nelle zone abitate dagli aborigeni. La collega mi aveva detto: «Per noi australiani, il deserto al centro del continente è l’equivalente di quello che è il mare nell’immaginario di altri popoli: un mondo vasto, sconosciuto, da scoprire. Numerosi esploratori - sin dall’inizio della colonizzazione - si sono avventurati nel grande deserto centrale. Molti sono morti, soprattutto di fame. Il deserto australiano però non è privo di risorse. Gli aborigeni vi hanno vissuto per centinaia e migliaia di anni. Il problema era che gli esploratori non riconoscevano il cibo e l’acqua nella forme in cui erano presenti. Lo cercavano nelle forme “europee” a loro conosciute. Non distinguevano la loro presenza in quelle forme nuove.»
Nadia - ho pensato - dovrebbe rinunciare almeno in parte ai suoi conosciuti “oggetti di fede” ed imparare a porre fede in nuove esperienze e relazioni. La sua fede nel motorino, adesso, è soprattutto un segno delle sue difficoltà ad andare avanti.
Durante il successivo periodo di analisi, ha che quel tanto di mistero, di vitale e di illimitato, cui segretamente aspirava, poteva essere trovato proprio nella sua vita quotidiana, alla sua portata. È stata capace di unire il diritto ad esistere con dignità con un certo benessere e felicità. Conclusione
Se la controparte della fiducia è l’autostima, la controparte della fede è una forte promessa di vita e di partecipazione.
Accordare fiducia è entrare in rapporto e potere a delegare  ad un altro qualcosa di essenziale per noi. Avere fede è impegnarsi in un progetto ed prendervi parte attiva.
Il costruttivo ottimismo è una delle possibili trasformazioni della fede. L’ottimismo a cui mi riferisco non è generico o vago. Non è ingenuo. È un tipo di inclinazione ottimistica, che non rende assolutamente ciechi nei confronti degli aspetti negativi ed anche terribili della storia e del mondo. Una propensione ottimista che, anzi, aiuta a conoscere ed affrontare ciò che vi è di negativo, impegnandosi sino in fondo. (Tillich 1958, p. 1 [della edizione inglese])  
Il costruttivo ottimismo è aperto al dubbio, al dibattito ed anche al conflitto. Si oppone al dogmatismo ed al rimuginare ossessivo. È caratterizzato dall’interesse per ciò che è al di la della superficie, per ciò che può evolvere ed ancora non è conosciuto. È un fattore di una funzione psichica che consente di lavorare con ciò che ancora non c’è. Il costruttivo ottimismo non è statico, ma dinamico ed in trasformazione.
Se nella vita di uno dei miei pazienti, compare sono molto contento e mi sento soddisfatto del lavoro compiuto.
 
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