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Bonanome N.- Ascoltare l'indicibile (2011)

Serata in commemorazione di Antonio Di Benedetto 16/12/2011

Nicoletta Bonanome

Ascoltare l’indicibile

Siamo giunti ormai alla fine di questo 2011, per noi scandito dai tanti lutti di colleghi e per qualcuno, come per me, anche famigliare:la malattia e morte di un giovane fratello.

Nel bel saggio “La solitudine dell’analista”, Enzo Morpurgo distingueva il dialogo mondano dall’attitudine dell’analista, nella messa in mora dell’immagine della morte, che è invece presente sulla scena analitica quotidianamente sia in forma di pulsione e di angoscia catastrofica sia sotto forma di morte fisica. Ho letto e riletto infinite volte questo articolo, un referente delle mie personali esperienze, un interlocutore che mi ha permesso di dare voce e parola a ciò che profondamente si muove dentro di me.

Soprattutto nei momenti che ritengo i più delicati, quelli in cui il tentativo di mettere in mora è forte. Anche in occasione di questa serata, quando Giorgio Campoli mi ha chiesto di parteciparvi, ho tentato questa operazione. Avevo cominciato a rileggere tutti i lavori di Antonio pensando di relazionarvi sul suo iter scientifico, ma ogni volta che mi accingevo a mettere per iscritto le osservazioni e considerazioni sui suoi lavori, mi sentivo in forte disagio fino a dovermi interrompere e strappare tutto. Mi sentivo una traditrice di me stessa e di Antonio, perché quello che avevamo in comune era proprio la ricerca di un ascolto “polifonico”, “oltre le parole”. Un ascolto che necessita di essere sentito prima ancora che coltivato, ampliato, raffinato, aggiungerei educato. Un percorso puramente cognitivo scientifico avrebbe lasciato inascoltato il senso più profondo e autentico dell’ascolto fino a rendere concretamente inaccettabile l’ineluttabilità della morte come “condensazione dell’irrevocabile irreparabile” (V. Jankélévitch,1977).

La nostra vita è legata a chi ci ha lasciato, alle trasformazioni che da questa morte riusciamo a fare. Il ricordo, scrive Erri De Luca “produce la costruzione, il dipanarsi della memoria attraverso le precedenze che stabilisce e le digressioni che accoglie. Questa costruzione è arteria, proprio quella del corpo che procede dal cuore, sempre per biforcazioni”.

Il dialogo con chi non c’è più ci da la possibilità di dirsi quella parola, “di scambiarsi un pezzo in più che allora non si è riusciti a darsi, a dirsi, a trasmettersi”. Il ricordare è veramente un ri/accordare, là dove “certi grovigli emotivi si compongono in modo armonioso e i contrari si uniscono in un accordo”. (Di Benedetto,91, L’inconscio attraverso la musica e la vocalità. Melodramma e psicoanalisi.)

Vorrei quindi farvi partecipi del mio ricordare per poterci “ri-accordare con il tempo presente”. (Di Benedetto, 2000, Prima della parola)

Conobbi Antonio nel lontano 78 ai seminari della dottoressa Lydia Gairinger. Lei era molto malata, era attaccata all’ossigeno seduta sul divano di casa sua con questi tubicini che finivano dietro una tenda a coprire e preservare in parte il nostro sguardo dalla vista delle bombole. Eravamo tutti in grande soggezione, quella donnina che fino a qualche tempo prima incuteva paura tanto era determinata e forte era lì pronta a mostrarsi a noi senza timori né reticenze. Morì dopo pochi mesi, ma in quei seminari mostrava tutta la forza della sua vitalità e del suo amore per la psicoanalisi. Un sabato mattina ci fermammo con Antonio a condividere sia la nostra iniziale inquietudine sia la meraviglia per le capacità della dottoressa (così la chiamavamo) di riportarci sempre nelle discussioni a individuare l’eros del paziente prima ancora delle risultanti distruttive e autodistruttive. Tanto da farci dimenticare che era molto sofferente. La domanda era comune : ma come fa? Solo l’esperienza e la maturità ci hanno permesso in seguito di scoprire ognuno la propria risposta, il nostro modo di ascoltare il dolore della malattia e della morte, di viverlo e di trasformarlo per quello che ci è possibile, non fosse che per un pomeriggio, come una farfalla.

In quegli anni che insieme a tanti altri colleghi ci trovavamo a condividere la straordinaria esperienza dei seminari con Corrao, Matte Blanco, Bordi, Tagliacozzo, Corti, Perrotti, Lussana, Bartoleschi, ognuno con il suo stile, con i suoi modelli con le sue teorie, con la loro anche diversa capacità di trasmetterci la passione per la psicoanalisi, per la ricerca, sempre con rigore e con maggiore o minore libertà, ma con il lascito di lunghe discussioni fra di noi. Chi più appassionato come Gianni Gandiglio, chi più fantasioso come Carla De Toffoli, chi più garbato e discreto come Antonio Di Benedetto.

Penso che riferirmi a loro in particolare, loro che non ci sono più, rappresenti per me il momento in cui il viaggio psicoanalitico da esperienza del “far scoprire” si trasformava in esperienza che “fa nascere”.

La dialettica fra modello freudiano e modello kleiniano, che implicavano la presenza comunque di un soggetto riflessivo, cominciavano a mostrare i loro limiti. I pazienti che si affacciavano nei nostri studi spesso non erano in possesso di quel minimo di “insight” che l’analisi di allora richiedeva. Il misconoscimento sistematico del loro stato interno era, in forme e modi diversi, il nocciolo delle nostre angosce, dubbi e preoccupazioni. Vi ricordo che allora il concetto di analizzabilità era una costante dei nostri maestri, quante volte ci siamo sentiti dire che quel paziente non era analizzabile. Eppure gli stessi maestri ci aprivano la strada alla complessità della funzione alfa di Bion, alla teoria delle strutture bi-logiche che regolano emozioni e pensieri di Matte Blanco, o alla difficile coesistenza di processi di attaccamento e di separazione, problematizzate da configurazioni narcisistiche arcaiche. E ognuno di noi, ognuno di loro, ha cercato la propria strada per uscire da impasse teoriche e cliniche che rischiavano di alimentare sterili dispute accademiche dal chiaro segno di autoreferenzialità a scapito della ricchezza delle contraddizioni che costellano l’intera esistenza umana.

Ognuno di loro ha seguito quel percorso che Ogden e Gabbard hanno così ben descritto nel Int J of Psych. del 2009, On Becaming a psychoanalyst,: sviluppare ciò che è specifico e unico nella propria personalità, nel proprio stile, nel proprio modo di essere e comunicare.

E per Antonio la musica e, l’opera in particolare, non sono stati solo alimento della sua vita né solo una riflessione metodica sull’arte, ma un lavoro attento e se posso aggiungere creativo dell’ascolto. Un ascolto più rivolto alle forme che ai contenuti, come scrive Petrella nell’introduzione al libro “Prima della parola”, alla musica del discorso. Un ascolto teso a valorizzare i livelli stilistici, prosodici e metrici del discorso, per “accogliere e mettere in discorso gli elementi preverbali e confusi dell’esperienza”.

Scrive Petrella: “Solo il linguaggio delle arti, e per primo il linguaggio sui generis della musica, può accogliere, trasformare e rendere intellegibile l’esperienza sorgiva, il caos emotivo originario e inconsapevole… I linguaggi ordinari perdono di vista questo livello costituente o addirittura l’occludono. Di Benedetto è invece massimamente interessato a quest’area anteriore alla parola, a quel non luogo del corpo silenzioso, dal quale l’esperienza inizia ad articolarsi…”

L’attenzione alle patologie sempre più frequenti che disgregano le articolazioni mente-corpo necessita inevitabilmente di un analista che “funzioni in una certa misura come medium sensoriale” capace di ascoltare al di là delle parole, di rendere udibile l’ineffabile. La questione è di quali forme disponiamo o quali forme costruiamo, accanto ovviamente a un buon setting? Quale apparato costruiamo per sentire prima ancora che per pensare?

La questione dei mediatori non verbali e delle forme di cui disponiamo o che cerchiamo di costruire per un ascolto meno influenzato dal Logos, dal pensiero razionale, più attento alle forme proto-conoscitive degli organi sensoriali, occhio, orecchio, tatto, gusto, non lascia Di Benedetto insensibile alle difficoltà e ai rischi di arbitrarietà e di regressione massiccia, derive sempre in agguato e che certamente non vanno sottovalutate. Ma sia all’una che all’altra offre una risposta più che convincente sia sul versante della verifica nella continuazione del dialogo analitico, dove l’analista esplora e l’analizzato scopre, sia sulla funzione propulsiva oltre che organizzativa dei canali sensoriali.

Anche qui alla base c’è il considerare il “latente” non come un’altra scena da sostituire a quella manifesta, ma come “tutto ciò che predispone al verbo, la trama sonora di un discorso a venire”.

Quello che Di Benedetto ci propone, è che “ascoltare” non è un dato, non è un fatto di empatia o similare, è un processo che si costruisce ora per ora e ha dei suoi parametri scientifici anche se non si lascia circoscrivere come non si lascia circoscrivere il messaggio artistico. Finalizzando la sua ricerca a quel dispositivo d’ascolto necessario a percepire in primis il respiro con i suoi suoni, ossia “quella realtà fisiologica di scambi ininterrotti fra interno e esterno” (Idem,1991, L’inconscio attraverso la musica e la vocalità), con il suo ritmo, e il suo tessuto dinamico. Perdendo quindi di vista il significato, si sofferma sulle capacità integrative e semiotiche dell’ascolto, grazie alle quali vengono elaborate “alcune delle forme pre-simboliche mediatrici della interazione non verbale”.

La musica, portatrice di “forme significanti” sensibilizza la percezione al confine tra lo psichico e il somatico. L’ascolto degli aspetti fisici delle verbalizzazioni testimonia “una prossimità sensoriale che precede quella emozionale” e facilita l’istituirsi di un campo simbolico primitivo, un luogo transitorio, in cui è possibile (cito Fiorangela Oneroso) il “verificarsi della percezione dell’esperienza emozionale” per sua natura essenzialmente e primariamente simmetrica e totalizzante. In poche parole “un buon ascolto del corpo-vocalizzato, scrive Di Benedetto, implica un toccare un sostenere e fungere da ricostituente del suo Sé, senza toccarlo fisicamente”. (2000, Prima della parola)

Ascolto e vocalità predispongono l’analista a un sentire prelinguistico di natura sensorio-affettiva che è essa stessa lingua, una “lingua segreta” che l’analista “costruisce in se stesso, per dare forma ascoltabile a ciò che il paziente non dice” che funge da involucro proto -psichico, premessa indispensabile all’ascolto nel paziente di ciò che è indicibile per lui.

Ho voluto stasera soffermarmi sul tema dell’ascolto per la originalità e rigore con cui Antonio Di Benedetto ha cercato di costruire una semeiotica dell’ascolto e l’ha affrontato fino ai giorni nostri, come nel lavoro pubblicato postumo su Richard e Piggle “Ascoltare chi non sa parlare. L’inconscio e l’infante. Oltre le parole”. Con una stimolante e calorosa introduzione di Lorenzo Iannotta, che a suo tempo gentilmente mi inviò. Un tema, dicevo, significativo per le risonanze e le affinità con gli interrogativi a cui continuamente siamo richiamati nell’esperienza clinica, nella costruzione dell’assetto dell’analista e nelle tante variazioni di setting che oggi dobbiamo affrontare.

Ma anche affascinato dalla cultura musicale per cui va annoverato fra i grandi studiosi del Flauto Magico di Mozart. Un orecchio musicale che gli ha permesso di affinare un ascolto sospeso tra asimmetria e simmetria, tra “vedere e sentire”, tra passato e presente, tra mondo interno e mondo esterno.

Un giorno parlando di questo limen fra sentire e vedere gli raccontai un episodio legato alla scoperta dell’acqua da parte di mio figlio. In cui il rumore della fontana nel parco richiamò la sua attenzione con urla di gioia e desiderio irrefrenabile di avvicinarsi a toccarla. Mi sorpresi a dire che avevo sentito l’odore della scoperta e la mia meraviglia di scoprire l’acqua come se fosse la prima volta. Ripensandoci sento ancora il calore della sua voce che accompagnava i suoi commenti sull’episodio più banale della vita eppure più intenso nel rapporto madre-infante.

Se sono riuscita con i miei ri-accordi a render un po’ dell’armonia di una vita così improvvisamente strappata, ne sarò contenta. Grazie.

Bibliografia

- Bonanome N., 2007 - Potere trasformativo della metafora nella relazione analitica. La metafora nella relazione analitica, Mimesis.

- De Luca E., 2002 - Altre prove di risposta. Dante & Descartes.

- Di Benedetto A., 1991 - L’inconscio attraverso la musica e la vocalità. Melodramma e psicoanalisi. Relazione al Centro di Psicoanalisi Romano.

- Di Benedetto A., 1992 - Il valore dei suoni nella relazione analitica e nell’ascolto dell’analista. Relazione al CPR.

- Di Benedetto A., 1993 - L’immagine, il suono, la parola. Psiche. Borla 1 (1)

- Di Benedetto A., 1996 - La musica segreta al confine corpo-mente. Il segreto e la Psiocanalisi. Gnocchi-Idelson.

- Di Benedetto A., 1998 - I sogni suonano? La forma segreta. F. Angeli

- Di Benedetto A., 2000- Prima della parola. L’ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte. F.Angeli.

- Di Benedetto A., 2005 – Introduzione. Ascoltare il dolore, scritti di R.Tagliacozzo. Astrolabio

- Di Benedetto A., 2011 - Oltre le parole, Ascoltare chi non sa parlare.L’inconscio e l’infante, in Richard e Piggle, 19 (3).

- Gabbard G.O., OgdenT.H., 2009 - On becoming a Psychoanalyst. Int.J Psychoanal., 90.

- Iannotta L., 2011- Introduzione. Il linguaggio e l’ascolto. Richard e Piggle, 19 (3).

- Jankélévitch V., 1995 - Pensare la morte? Cortina.

- Morpurgo E., 1995 - La solitudine dell’analista. La solitudine forme di un sentimento. F.Angeli.

- Oneroso F., 2004 - La logica delle emozioni. Le emozioni fra cognitivismo e Psicoanalisi. Liguori.

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