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Fabozzi P. - Stili, utensili e forze motrici nella cura dell'adolescente (2011)

Il lavoro clinico con gli adolescenti:

le modificazioni della tecnica

SABATO 19 -  DOMENICA 20 NOVEMBRE 2011

Stili, utensili e forze motrici nella cura dell’adolescente.

Girovagando tra i testi di P. Gutton e V. Bonaminio

Paolo Fabozzi

Nel mio girovagare tra il testo di Philippe Gutton e quello di Vincenzo Bonaminio, cercherò di toccare tre questioni, tra loro interconnesse: stile, utensili, e forze motrici, in quanto dimensioni che ci aiutano ad orientarci nel lavoro con gli adolescenti. Ma, innanzitutto, vorrei cogliere un primo importante merito di Gutton e di Bonaminio: entrambi hanno deciso di interrogare il loro fare, mostrando, in una certa misura, il proprio essere, poiché ritengo che non sia possibile pensare e parlare di tecnica come se il “fare” fosse scisso dall’“essere”. E di questo li ringraziamo.

Se, leggendo i testi di Gutton, si presta attenzione ad alcuni aggettivi utilizzati per descrivere il lavoro dell’analista con l’adolescente, ne emerge una postura analitica del tutto originale e peculiare: descrive “una corrente di pensiero più prudente, veramente benevola o rispettosa” (2000, p. 216); evidenzia la necessità di sottolineare con discrezione, nonché la nostra simpatica sensibilità all’altro; tratteggia una prudenza benevola dell’evocazione, una posizione di stupore affettuoso, un desiderio benevolo… Qualcosa di molto simile mette in campo Bonaminio, quando la sua costante e al tempo stesso fluttuante attenzione gli consente di monitorare la temperatura (“la mia presenza troppo calda”) e la distanza, e di avvertire la necessità di modulare l’esplicitazione della propria comprensione, poiché rischierebbe di diventare troppo intrusiva: di qui la sua decisione di “sospendere” l’interpretazione del transfert. L’analista come figura “terza” per Gutton. L’analista, per Bonaminio, come oggetto intermedio nello spazio potenziale. Un analista che sia presente, che “apra”, che eviti formulazioni troppo sature, che sgombri il campo da rassicuranti gabbie teoriche. In questa direzione va anche l’affermazione di Gutton, secondo il quale “L’analista non ha il compito di proporre una versione dei fatti. (…) Diamo piuttosto l’occasione all’adolescente di effettuare da sé la scoperta” (2000, p. 208). Posizione che entra facilmente in risonanza con le riflessioni che Bonaminio, in altra sede, ha rivolto alla questione del non interpretare, posizione analitica volta a facilitare la ricerca del paziente di una intimità con se stesso.

Chi conosce anche altri testi dei nostri due autori può veder affiorare un’altra caratteristica fondamentale della posizione dell’analista, su cui richiamavano l’attenzione P. Heimann e Masud Khan: per il paziente non è importante, bensì è vitale che l’analista sia autentico e spontaneo, né oracolare né peraltro selvaggio, ma in contatto con le proprie associazioni ed emozioni. Il piacere di associare liberamente, l’importanza di un pensiero senza meta e la necessità – scrive Gutton – di rimettere in moto, nell’adolescente, la possibilità di pensare, ostruita da una frizione tra infantile e pubertario. E quanto è vitale per l’adolescente in particolare il fatto di poter incontrare la nostra spontaneità, concetto difficile, irto di trappole e di malintesi, come quello di autenticità, eppure entrambi presenti come questioni che segnano il nostro lavoro con l’adolescente.

“A spizzichi e bocconi – scrive Bonaminio – è possibile ricostruire” la fantasia masturbatoria; è occorso un lungo periodo di tempo per “ricostruirla insieme”. Un po’ tu, un po’ io, sembra essere ciò che è accaduto, ed è qualcosa di simile a ciò che descrive Gutton: “Il piccolo particolare attraverso il quale il discorso dell’adolescente incita alla narrazione è precisamente ciò che il discorso non riesce a fare emergere con le sue parole; gli offriamo le nostre per arrivare a dirlo” (2000, p. 239). Siamo nel regno dello squiggle. Non nel senso di una tecnica pianificata del disegno, ovviamente, ma in quanto posizione mentale dell’analista. Sicuramente qualcosa di più e di diverso dall’interazione tra libere associazioni e interpretazioni.

D’emblée, senza attendere, scrive Gutton, senza esitazione, mi viene da aggiungere, la seduta viene presentata come un’area di gioco. Un’area che trasuda piacere – lo stesso piacere creativo che doveva provare Winnicott nell’impegnarsi e nell’impegnare i suoi bambini e i suoi adolescenti negli squiggle. Trasuda piacere anche nell’incontrare il transfert prima del transfert, o perfino il transfert intergenerazionale: uno spazio analitico che la sensibilità clinica di Bonaminio allestisce nel cortile del suo studio, quando crea/trova già lì, già dati, eppure tutti da articolare, da sentire e da scoprire, diversi livelli della relazione transferale-controtransferale. Da un lato ripenso alla Tustin e a Winnicott, cioè alle loro riflessioni sui pazienti che non sono in grado di giocare e che hanno bisogno di costruire la capacità di giocare; dall’altro lato, leggendo e ascoltando il lavoro fatto in seduta dai due relatori, colpisce quanto potente possa essere, clinicamente, la presenza nell’analista di una tale fiducia nelle possibilità creative dello scambio analitico. Anzi: colpisce la fede, nell’accezione bioniana, nella realtà e nelle potenzialità terapeutiche del proprio inconscio. Osvaldo e la paziente A. mostrano bene il lavoro di associazione libera che i loro rispettivi analisti hanno reso loro possibile: sono stati coinvolti e impegnati nel lavoro di costruzione di una rete associativa. La meta è il viaggio, poiché non c’è una vera verità da scoprire; la meta è, per Gutton, riscoprire il piacere del pensare, del sentire, dello sperimentare il rapporto con se stessi attraverso l’altro. “Lo psicoanalista … associa al fine di conferire alle associazioni del paziente un seguito che altrimenti non verrebbe”, e, seppure Bonaminio non abbia formulato una affermazione analoga, ogni suo movimento con Osvaldo esprime una posizione clinica che ha lo scopo di mantenere viva la rete e la produzione intersoggettiva dei pensieri e della relazione transferale. Una rete di associazioni che permetta al paziente di sentire il desiderio di esplorare la propria mente. Una “transazione associativa tranquilla”, la definisce Gutton, che renda possibile il lavoro dell’elaborazione. Per entrambi i relatori è in gioco, mi sembra, la costruzione di un luogo sicuro da cui l’adolescente può partire per l’esplorazione del suo mondo interno e, anche, di un luogo dove potersi ritirare e trovare rifugio.

Quando Gutton si interroga su ciò che è stato “dimenticato”, indica nella traccia pubertaria attuale ma nascosta, ciò da cui si sviluppa il racconto dell’analista: una prima forma di costruzione attiene alla “creazione di un senso fino allora assente”; qui interviene l’arte del dire in un altro modo, la “traduzione di un registro fino ad allora inaccessibile, ma già lì”. Tale racconto, prosegue, “prenderebbe il posto di un sogno che deve avvenire e non ha avuto luogo. … Il pubertario è la traccia che produce il sogno con un materiale infantile”. Se torniamo all’esergo del suo lavoro, incontriamo R. Barthes che scrive: “Oscilliamo continuamente tra l’oggetto e la sua demistificazione, incapaci di rendere la sua totalità: perché se penetriamo l’oggetto, lo liberiamo ma lo distruggiamo; e se gli lasciamo il suo peso, lo rispettiamo ma lo restituiamo ancora mistificato. (…) E tuttavia è questo che dobbiamo cercare: una riconciliazione del reale e degli uomini, della descrizione e della spiegazione, dell’oggetto e del sapere” (1957). E’ un passaggio importante, poiché Gutton è riuscito a superare la contrapposizione tra spiegazione e descrizione e a compiere quella feconda oscillazione descritta da R. Barthes: qui sta la forza della sua proposta tecnica relativa alla costruzione e all’elaborazione, elaborazione che è innanzitutto lavoro psichico dell’analista con l’adolescente. Ma, d’altro canto, è solo questione di mistificazione? Di un pubertario che viene mistificato e squalificato? C’è dell’altro? Be’, direi che c’è l’altro, inteso, certo, come corpo pubere del ragazzo, estraneo perturbante e temuto; e c’è l’altro inteso come oggetto dotato di corpo, di desiderio e di inconscio.

Entrambi i loro pazienti presentano e portano, in forme diverse, la propria corporeità in seduta: A. con le patatine e lo yogurt, ferendosi e tormentandosi l’avambraccio, rendendo concrete le parole che in seduta portano i tagli quotidiani che si procura sul braccio; Osvaldo “scaricando” spezzoni, parlando a mitraglietta e descrivendo, a metà strada tra una fantasia e un’allucinazione tattile, la concreta sensazione di avere una vagina, un buco da cui esce un calore e un liquido. Il suo sguardo penetrante e indagatore ispeziona il corpo dell’analista, aprendosi un varco nella sua mente e nel suo corpo: uno sguardo-fallo che crea non solo una alterazione dello schema corporeo, ma induce qualcosa a metà strada tra una fantasia e una allucinazione tattile: “percepisco – scrive Bonaminio – all’altezza del mio fianco destro, una sorta di escrescenza o al contrario un buco, una voragine”. La paziente di Gutton, con una grave anoressia e forme di automutilazione, inizia la seduta parlando della sua ossessione per i flan; l’analista le chiede il permesso di associare e le propone “flanquer”, scaraventare; lo scambio prosegue, con giochi di parole e affetti intensi e, proseguendo nelle proprie associazioni, a un certo punto della seduta l’analista le propone “flanc”, fianco, e con la mano indica il proprio fianco.

Benvenuta sia la clinica, che ci parla, e benvenute siano le coincidenze, che ci offrono l’opportunità di interrogarci, attraversando la nostra lingua, se una delle posture mentali che l’analista deve assumere con un adolescente, non sia proprio quella di “prestare il fianco” al paziente, cioè di esporsi facilmente alle critiche, agli attacchi... Ma non è quello che facciamo sempre con tutti i pazienti? Accettiamo di essere uno schermo per le proiezioni transferali e, a volte, come fa Bonaminio con Osvaldo, riusciamo a tollerare le identificazioni proiettive del paziente. Ma forse qui è in gioco qualcosa di più, qualcosa che implica la tenuta della nostra identità e della flessibilità dei nostri confini. Qualcosa su cui tornerò alla fine.

Green notò, a proposito del libro degli squiggle, che la parola che compariva con maggiore frequenza era “sogno”, indice di una forma di parentela e di comunanza tra lo squiggle, il sognare, l’attività creatrice e l’esperienza del Sé. Con la sua paziente, Gutton mi sembra non si limiti a prestare le proprie parole: immagina, decondensa, sposta, elabora, mostra il fianco. Con Osvaldo, Bonaminio “presta il fianco”, si rende permeabile e si lascia usare: il suo psiche-soma, non la sua mente, entra qui in gioco per sopportare, sostenere e contenere questo “fatto” estraneo. A partire da qui, possono cominciare a esistere inizi di simbolizzazione, embrioni di funzioni di pensiero. Ma non nello scambio verbale tra paziente e analista, bensì all’interno del registro concreto proprio dei pazienti gravi e degli adolescenti gravi (o forse degli adolescenti tout-court?). Non sarebbe infatti del tutto appropriato sostenere che Osvaldo racconta una scena edipica quando arriva trafelato in seduta e, con il fiato sospeso, dice “L’ho fregata”: egli crea concretamente nella stanza di analisi una sorta di tragedia edipica in tre atti, una scena moderna poiché una parte dell’uditorio, l’analista, è chiamato a prendervi attivamente parte come accadeva nel teatro sperimentale degli anni ‘70. E’ a partire da questa scena complessa che può articolarsi uno scambio estremamente significativo che culmina nella vampata di calore che, ipotizza Bonaminio, probabilmente indica la comparsa di una fantasia di sodomizzazione in relazione alle parole che l’analista gli rivolge: “senti che io sono dentro di te”. E’ l’agito di questa personale tragedia edipica che ha trasformato l’analista e lo spinge, o forse meglio, gli permette di ritrovarsi “attraversato” lui da fantasie perverse su Osvaldo. E’ qui che può nascere la possibilità dell’analista di ospitare fantasie perverse sul paziente. O dovremmo forse ipotizzare che in quel momento l’analista ha sognato e dato corpo alle fantasie perverse del padre sul proprio figlio?

Qui si realizza un processo nel quale il paziente non è in grado di utilizzare un pensiero onirico della veglia; può portare un funzionamento concreto, elementi grezzi, parole-cose, equazioni simboliche; ed è l’analista che, in un certo senso, “sogna” per lui (mi riferisco alle teorizzazioni di Bion, Winnicott, Bollas, Ogden sul pensiero onirico e sull’attività sognante nello stato di veglia) e per lui svolge un lavoro di trasformazione onirica volto non soltanto a deconcretizzare, ma anche a condividere e a costruire un inizio di apparato per sentire e per pensare.

In questo senso c’è un’ulteriore svolta epistemologica che va fatta lavorare ed evolvere: se riconosco all’inconscio dell’oggetto un peso e un effetto che incide sullo sviluppo dell’adolescente, come demistificare le eccedenze dei genitori? “l’adolescenza – scrivono Bonaminio e Di Renzo –, in quanto luogo e tempo privilegiato della ri-emergenza della configurazione edipica e del transgenerazionale, ci porta in contatto con il critico equilibrio tra realtà e fantasia, azione e pensiero, acting e sogno, acting-out come sogno non sognato e sogno come acting-out trasformato”. I genitori di Osvaldo erano in terapia dall’analista anziano. Quando non riusciamo o non possiamo o peggio ancora ci illudiamo di poter fare da soli, senza che i genitori vengano seguiti, cosa ce ne facciamo di quelle eccedenze? Tecnicamente, come ci facciamo carico, quando i genitori non vengono seguiti, dei fantasmi che tracimano sul figlio? Delle loro depressioni, delle loro angosce, a volte della loro follia? Insomma, la frase di Osvaldo “queste angosce non sono le mie” è un invito forte rivolto al nostro fare e al nostro pensare in seduta.

Gutton propone una complementarità e una posizione intermedia tra l’enfasi sull’esperienza vissuta di ferencziana memoria, e quella sul freudiano ricordare: “dire a proposito delle esperienze riferite”. Con gli adolescenti che fanno attacchi al corpo, i rischi che si corrono – prosegue – sono un’eccessiva intellettualizzazione o un intervento troppo ricco di processi primari. “La regola fondamentale è che la parola sostituisce l’agire, anche se la sofferenza di questi adolescenti risiede nella difficoltà di esprimere quanto sentono”, scrive Gutton, indicando due rischi contrapposti: ad un estremo, i vissuti pubertari invadono la psiche del soggetto, e il discorso, quando si avvicina al corpo, funziona traumaticamente avviando ripetizioni automatiche; all’altro estremo è rintracciabile un’astrazione non accompagnata da sublimazione, gli affetti scompaiono, il discorso è mera cronaca.

Se tra i compiti dell’adolescente riconosciamo anche quelli di riuscire a sentirsi reale, di evitare una falsa soluzione, di riuscire a fare esperienza di ciò che accade nel suo mondo interno e nella realtà esterna, senza che abbia luogo né una fuga nell’agire, né una fuga nel diniego e nell’idealizzazione, allora con l’adolescente, più che con qualsiasi altro tipo di paziente, l’interpretazione deve nascere da un’esperienza emotiva reale che l’analista deve permettersi di vivere. In questo senso è vitale che il transfert del paziente perturbi l’analista. L’interpretazione allora potrà assumere, per il paziente, il valore di un evento psicologico reale e di una nuova esperienza psichica. Essa in questo modo può sostenere il paziente, può fornirgli il senso della realtà del proprio psichismo, può contattare aree segregate del Sé. In questo senso l’adolescente, come dice Winnicott, non ha bisogno di essere spiegato, ma ha bisogno di scoprire e sperimentare se stesso in uno spazio intermedio reso possibile dallo psiche-soma dell’analista, dal suo ascolto, dal suo apparato concettuale, dal suo lasciarsi modificare dal transfert dell’adolescente. In questo modo interpretare il qui e ora nella relazione analitica può diventare vivo e significativo.

Con il racconto e con le associazioni dell’analista alle parole del paziente, il lavoro di elaborazione, se non ho frainteso troppo Gutton, permette all’adolescente di sublimare e di trovare un nuovo modo e un nuovo piacere nel pensare e nel pensarsi. Nelle patologie più gravi, “il sogno manca, la traccia pubertaria produce fenomeni dell’ordine dell’incubo”. Il transfert in questo caso non è uno spazio transizionale, non c’è sublimazione, solo equazioni simboliche: siamo nel “non pensato” del pubertario. “E’ l’analista, allora – afferma Gutton –, che deve immaginare l’inimmaginabile”. “Le nostre parole servono ad esprimere ciò che l’adolescente non sperimenta e non ha sperimentato”. Un’ulteriore linea processuale, così onnipresente nel lavoro con gli adolescenti, è quella del transfert concreto, dell’assenza di area intermedia, è dunque quella dell’agire, che permette al paziente di portare in seduta ciò che non è rappresentato. Il primo registro ci chiede una profonda mobilità del controtransfert, inteso, nell’accezione di Gutton, come transfert dell’analista sull’adolescente, e sui processi dell’adolescenza in corso. Il secondo registro, rintracciabile nel lavoro di Bonaminio, ci vede presi di mira come contenitore di ciò che eccede: qui entrano in gioco le funzioni del sostenere e del contenere, e le identificazioni proiettive come comunicazioni da intendere e bonificare.

Non mi interessa una discussione teorica su quale sia il livello che detiene il primato della patogenicità, se il sessuale pubertario o ciò che avrebbe dovuto essere costruito nella primissima infanzia e non lo è stato. Vorrei restare sull’esperienza delle due situazioni cliniche, e mi chiedo se la turbolenza che spesso ci scuote in seduta, nella seduta con alcuni pazienti adulti quando si prendono il rischio di avvicinare e di lasciare che avviciniamo il loro funzionamento psicotico, e nella seduta con gli adolescenti più o meno gravi, non sia la condensazione e l’intrecciarsi di questi due registri. Questa condensazione esprime, come in Osvaldo, l’impossibilità di avere a che fare con il genitale nella riattivazione della situazione edipica, ed esprime contemporaneamente le faglie lasciate aperte dalle identificazioni alienanti con i fattori ego-alieni. Il crollo in adolescenza incontra un’organizzazione già violata, costruita intorno all’essere niente: se si è un niente – scrive Winnicott – allora non si viene distrutti dal “qualcosa” pazzo (1969, 404). E’ questo che a mio avviso rende necessario l’agito di Osvaldo della scena edipica in seduta, e la possibilità che fosse l’analista a subire una trasformazione per poter sentire-sognare le fantasie perverse.

Così il nostro compito si articola lungo diverse dimensioni: decostruire “le barriere infantili che provocano i misconoscimenti del pubertario”; costruire, attraverso i processi di sublimazione, un avvicinamento tra infantile e pubertario, “rendendo familiare il pubertario”; decostruire, spesso, le identificazioni alienanti; costruire/ri-costruire un Io che possa permettersi di “avere esperienze ed esserne influenzato – scrive Winnicott –, mantenendo comunque l'integrità personale, l'individualità, l'esistenza” (1988, p. 88; il corsivo è mio).

Personalmente credo che l’agire non abbia una mera funzione evacuatrice, e nemmeno sia mera comunicazione: esso è una richiesta di simbolizzazione. Qui l’agire ci richiede una diversa accezione di controtransfert, poiché entra in gioco una forza che si fa turbolenza per trasformare l’analista, per sperimentare la sua sopravvivenza, per toccare con mano il suo stare sveglio, stare vivo, stare bene. E’ qui che ha un senso il nostro “prestare il fianco”. E, in un rapporto dialettico con il bisogno dell’adolescente di vederci sopravvivere, vorrei ricordare che per Winnicott nella fantasia inconscia “della crescita nella pubertà e nell’adolescenza, c’è la morte di qualcuno”. Così, nella psicoterapia dell’adolescente “vi sarà morte e trionfo personale in relazione al processo di maturazione e all’acquisizione dello stato adulto” (1968, pp. 165-6). Vita e morte, simboliche e reali al tempo stesso.

Nei passaggi più complessi del nostro pensiero e della nostra esperienza clinica ci viene spesso in soccorso la grande letteratura. Il richiamo iniziale di Gutton all’affermazione di Winnicott secondo il quale l’adolescente si rifiuta di essere compreso e ha bisogno di essere riconosciuto nella sua solitudine, mi ha immediatamente richiamato alla memoria il capolavoro di Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso, mirabile storia di intrecci di storie.

Qui l’autore narra le gesta di Marcel Appenzzell, giovane antropologo, che negli anni ’30 decise di condividere la vita di una tribù di Sumatra per motivi di studio. Partì da solo, portando con sé un bagaglio irrisorio, privo di armi e degli strumenti dell’epoca, e composto di doni tradizionali. Con una guida si spinse alla ricerca di un popolo fantasma, i Kubu, che significa “coloro che si difendono”, o anche “i figli dell’interno”, e vivevano nella regioni più inospitale dell’isola. Leggende narravano che i Kubu fossero stati un tempo i padroni dell’isola, prima che, vinti dagli invasori, avessero dovuto cercare l’ultimo rifugio nel cuore della giungla. Dopo tre settimane di cammino raggiunse un villaggio abbandonato e, lasciando alla sua guida bagaglio e canoa, si spinse da solo nella foresta. Si persero le sue tracce per quasi sei anni e, quando fu ritrovato, a 600 km di distanza dall’inizio del suo viaggio, pesava 29 kg, aveva perso l’uso della parola ed era incapace di nutrirsi.

“Di quello che era accaduto durante quei 71 mesi, Marcel Appenzzell non aveva riportato niente, non un oggetto né un documento né una nota, e rifiutò praticamente di parlare, adducendo la necessità di difendere fino al giorno della sua prima conferenza l’integrità dei ricordi, delle impressioni e delle analisi. Si prese sei mesi per riordinarli. All’inizio lavorava in fretta, con piacere, quasi con fervore. Ma presto cominciò a ciondolare, a esitare a cancellare. […] A pochi giorni dalla prima conferenza […] il giovane etnologo bruciò tutto quello che aveva scritto, mise qualcosa in valigia e se ne andò […] Un quadernetto parzialmente riempito di note spesso incomprensibili era scampato al fuoco. […] Dopo parecchi giorni di cammino, Appenzzell aveva finalmente scoperto un villaggio Kubu […] S’era fatto avanti, li aveva salutati […] aveva deposto accanto a ciascuno di loro un sacchetto di tè o di tabacco in segno di offerta. Ma quelli non risposero, non chinarono il capo né toccarono i doni. […] Appenzzell trascorse vari giorni nel villaggio senza riuscire a mettersi in conttatto con i suoi laconici abitanti […] nessun Kubu – nemmeno i bambini – prese mai uno di quei sacchetti che a sera i temporali quotidiani avevano già reso inservibili. […] La mattina del quarto giorno, quando Appenzzell si svegliò, il villaggio era stato abbandonato. Le capanne erano vuote. Tutta la popolazione del villaggio, uomini, donne, bambini, cani e perfino i vecchi che in genere non si muovevano dalle stuoie, se n’era andata, portandosi via le loro scarse provviste. Appenzzell impiegò più di due mesi a ritrovarli. Questa volta avevano alzato frettolosamente le capanne sulle rive di un’acqua stagnante infestata dalle zanzare. Anche adesso i Kubu non parlarono né risposero di più. […] L’indomani mattina, il villaggio era nuovamente abbandonato. Per quasi cinque anni Appenzzell si ostinò a inseguirli. Appena riusciva a ritrovarne le tracce, quelli fuggivano ancora, addentrandosi sempre più a fondo in zone sempre più inabitabili per ricostruirvi villaggi sempre più precari. Per molto tempo, Appenzzell interrogò se stesso sulla funzione di quei comportamenti migratori. […] Che fosse un rito religioso, una prova iniziatica, un comportamento magico legato alla nascita o alla morte? […] Pure, la verità, l’evidente e crudele verità venne finalmente in luce […]:

‘Per quanto irritanti siano i disinganni cui si espone colui che si dedica anima e corpo alla professione di etnografo per poter avere così una visione concreta della natura profonda dell’Uomo […] la peggiore difficoltà ch’io abbia dovuto affrontare non è certo stata di quest’ordine: avevo voluto raggiungere la punta estrema della selvatichezza; non ero forse stato esaudito, presso quegli amabili indigeni che nessuno aveva visto prima di me, che nessuno, è probabile, avrebbe mai più rivisto dopo? Alla fine di un’esaltante ricerca, eccoli finalmente, i miei selvaggi, li avevo, e chiedevo solo di essere uno di loro, di condividerne i giorni, gli stenti, i riti! Ma ahimè, loro, non volevano me, né intendevano insegnarmi i loro costumi, le loro credenze, un poco di sé! Non sapevano che farsene dei doni che gli posavo accanto, dell’aiuto che pensavo di potergli dare! Che farsene di me.’” (Perec, 1978, 119-22)

Non intendo questo racconto come una metafora della psicoterapia con l’adolescente, ovviamente, ma come una possibilità di raffigurarci qualcosa di molto potente che muove l’adolescente nella sua terapia e, quindi, ci muove controtransferalmente. Interrogarsi sulla tecnica significa a mio avviso anche confrontarsi con queste due forze motrici del funzionamento adolescenziale: cioè la morte dell’oggetto e possibilmente la sua sopravvivenza. L’antropologo non fu in grado di spiegare la tribù Kubu, e a malapena poté descriverla. Però riuscì a riconoscere la loro solitudine, si prestò a un confronto, si lasciò uccidere simbolicamente, e riuscì a sopravvivere a tale uccisione, perché di nuovo partì, dopo essersi ripreso, alla volta di Rangoon, in Birmania. Non ci è dato sapere cosa ne trasse la tribù Kubu, cioè “coloro che si difendono”, o “i figli dell’interno”, da questo incontro. Ognuno di noi, se ne avrà voglia, potrà sognarlo a modo proprio.

Gutton P. (2000), Psicoterapia e adolescenza, Borla, Roma.

Gutton P. (2010), “Perlaborer dans la cure”, Adolescence, 28 : 747-780.

Perec G. (1978), La vita istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano.

Winnicott (1968), “L’immaturità dell’adolescente”, in Dal luogo delle origini, Cortina, Milano.

Winnicott (1969), “La follia della madre che appare nel materiale clinico come fattore alieno all’Io”, in Esplorazioni psicoanalitiche, Cortina, Milano.

Winnicott (1988), Sulla natura umana, Cortina, Milano.

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