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Solano L. - Chiamale se vuoi ... Estensioni (2016)

Luigi Solano[1]  

  

Al di là dei sintomi: verso una valutazione della persona basata sui livelli di integrazione e di realizzazione

"Io dico spesso che le persone sane di mente non uccidono. Ma è solo un'opinione personale"

"Forse non proprio ortodossa?"

"No".

(George Simenon, 1953)

La ritrovata validità delle teorie psicologiche - l'obsolescenza del DSM

Dopo un lungo periodo di squalifica reciproca, da una trentina di anni le diverse scuole psicologiche/psicoterapiche (psicoanalisi, scienze cognitive, cognitivismo clinico, approccio sistemico-relazionale, neuroscienze, psicologia evolutiva) mostrano oggi un'ampia convergenza teorica, magari non dichiarata ufficialmente e coperta dall’impiego di terminologie diverse. Nessuno ad esempio pone più in discussione l’esistenza di processi inconsci e di un “mondo interno”; dall'altro versante, nessuno sottovaluta l’importanza delle relazioni attuali dell’individuo.

Rimangono fuori da questa convergenza soltanto la psichiatria organicista e il comportamentismo più radicale.

Assistiamo parallelamente a una piena rispondenza, salvo rarissime eccezioni, dei dati della clinica, in particolare psicoanalitica, con quelli derivanti dalla ricerca empirica (Westen, 1998; Bornstein, 2005; Solano, 2005; 2013; Lingiardi e Ponsi, 2013). La psicologia nel suo insieme mostra di aver raggiunto un livello di scientificità che, se non può essere paragonato a quello di scienze della natura come la fisica classica (ambizione che a mio avviso andrebbe quanto prima archiviata definitivamente), permette verifiche empiriche ben maggiori di quelle possibili in discipline che godono di ampio rispetto sociale, quali l’economia o la storia, e paragonabili a quello delle scienze naturali nei loro sviluppi più recenti (fisica quantistica, teorie del caos), le cui affermazioni possono essere solo probabilistiche.

La psicologia in generale, e la psicoanalisi in particolare[2], hanno fornito dalla fine del 1800 un'ampia gamma di criteri, strumenti e modalità per valutare le caratteristiche di una persona. Se riteniamo di aver raggiunto il livello di scienza, appare sempre più giustificato utilizzare i nostri strumenti valutativi anche nella comunicazione "ufficiale", piuttosto che continuare ad adottare in molti casi una classificazione in gran parte basata sul criterio della presenza/assenza di sintomi, come il Diagnostic and Statistical Manual (DSM) nelle sue varie versioni: una classificazione basata sostanzialmente sull'accordo tra una serie di "esperti"[3] (tant'è vero che cambia ad ogni edizione), che prescinde dalla soggettività della persona (Borgna, 2014), dalle sue caratteristiche più generali (risorse, livello di realizzazione), dal suo mondo relazionale[4], dal significato che hanno i sintomi stessi per quella persona; che getta a mare 120 anni di scienza psicologica, ivi compreso tutto il bagaglio psicometrico. Tutto questo trovava giustificazione in una ricerca di "ateoreticità", motivata da una supposta "babele" di teorie psicologiche discordanti l'una dall'altra e prive di fondamenti scientifici. Come ho argomentato sopra, questo presupposto è sempre meno valido.

Non c’è qui spazio per affrontare il problema del perdurare di una diagnosi categoriale, che in quanto tale pone una netta demarcazione, di sapore razzista (Nielsen, 2004, p.37), tra “sani” e “malati”, ignorando il costante riscontro di dinamiche sia nevrotiche che psicotiche in tutti gli individui[5]. Il tema che intendo approfondire è quello della totale insufficienza di una diagnostica basata soltanto sulla presenza/assenza di sintomi psichiatrici, come spesso viene utilizzata non solo dalla psichiatria, ma anche dal "senso comune".

"Sembrava tanto una brava persona"

Un primo ambito in cui una diagnosi psichiatrica basata sui sintomi mostra al massimo la sua insufficienza è nelle improvvise manifestazioni di violenza estrema, in genere in ambito familiare. “Sembrava tanto una brava persona” è il ritornello che quasi invariabilmente ascoltiamo da parenti, amici, conoscenti del colpevole dopo efferati fatti di sangue in ambito familiare. Leggiamo ad esempio cosa dice il parroco di un paese a proposito di un uomo che ha appena confessato di aver sgozzato la moglie e due figli piccoli con un coltello da cucina (La Repubblica, 20-6-2014): "Ecco, provi a trovare una persona, anche una sola, che dica: c'era da aspettarselo. Nessuno, glielo assicuro. Su Carlo, chiunque avrebbe messo la mano sul fuoco. Educato, attento, delicatissimo coi figli, suoi e degli altri".  

Devo ammettere che fino a qualche tempo fa (da una posizione un po' altezzosa) tendevo a considerare questo tipo di testimonianze come provenienti da personaggi rozzi, da commedia all'italiana, per nulla in grado di cogliere la realtà del prossimo, al di là delle più banali apparenze; tendevo a pensare che se uno esperto della psiche, anche di capacità non eccelse, avesse avuto modo di incontrare quella persona prima dei fatti, si sarebbe facilmente accorto che c’era qualcosa che non andava.

Se ci riflettiamo però, i bravi compaesani di Carlo sono invece in buona e ampia compagnia: anche dopo fatti di questo genere buona parte della psichiatria e dell'opinione pubblica inizia a discutere se questa persona fosse folle o meno e delega questa valutazione ad un esame psichiatrico, che appunto si baserà sul riscontro o meno di sintomi evidenti. Come se quest'ultimo tipo di valutazione potesse possedere un valore probante maggiore di un gesto che in un'altra ottica potremmo considerare l'espressione prototipica della follìa, non certo bisognosa di ulteriori dimostrazioni, né confutabile da altre valutazioni.

Naturalmente è del tutto lecita e importante, specie sul piano giuridico, una domanda di altro tipo, quella sulla capacità di intendere e di volere al momento del gesto, ma mi sembra fondamentale riconoscere che i due aspetti non coincidono[6].

Dai sintomi psicopatologici alle aree dissociate

Terroristi e criminali nazisti.

Un altro ambito in cui la diagnosi psichiatrica basata sui sintomi fallisce miseramente è quello dei terroristi e criminali di guerra. Un articolo di Carol Beebe Tarantelli (2010) “The Italian Red Brigades and the structure and dynamics of terrorist groups” (peraltro di grande interesse anche per molti altri aspetti) ricorda la ripetuta mancanza di riscontro di segnali macroscopici di psicopatologia manifesta, o di un particolare livello di aggressività, non solo nei militanti delle Brigate Rosse, ma anche negli attentatori suicidi di matrice islamica (Silke, 2003) e addirittura nei criminali nazisti condannati a Norimberga: persone che avevano pianificato la costruzione e il funzionamento di campi di sterminio dove erano state uccise milioni di persone incolpevoli. Quest’ultimo dato apparve fin dall’inizio così inquietante che fu pubblicato solo con 35 anni di ritardo (Borofsky e Brand, 1980). Che senso ha un tipo di valutazione che registra nulla, o poco, in chi appare come il campione, il gold standard della psicopatologia? Si tratta di soggetti sani di mente o sono i nostri strumenti a non essere adeguati?

Anzitutto dobbiamo sgombrare il campo da una prima ingenuità; non ci troviamo di fronte ad una propensione generalizzata alla violenza, ma ad una alterata visione del mondo, in cui ciò che è più caro è fortemente minacciato da qualcuno: dagli ebrei, nel caso dei criminali nazisti, dallo “stato imperialista delle multinazionali” nel caso dei brigatisti. Chiunque di noi può diventare violento se sente minacciati i propri figli. Più che di propensione alla violenza sembra quindi piuttosto trattarsi di perdita dell’esame di realtà; ma appunto, non eravamo abituati a considerare la perdita dell’esame di realtà come il più evidente indicatore di psicopatologia? La diagnosi tradizionale fallisce perché qui non abbiamo di fronte persone grossolanamente allucinate e/o deliranti: la perdita dell’esame di realtà appare "focale", limitata ad un'area specifica e delimitata. Può quindi passare inosservata se non entra in gioco quest’area.

Certamente sono implicate dinamiche di gruppo[7]; ma ci sarà pur qualcosa anche a livello individuale che differenzia le poche migliaia di militanti che si unirono alla “lotta armata” dai milioni che in quegli anni condividevano un’ideologia di estrema sinistra, e che, al momento della scelta (che si pose concretamente per molti di loro) presero una strada diversa? Beebe Tarantelli (2010) ci ricorda il termine bioniano, preso in prestito dalla chimica, di “valenza”, a rappresentare la capacità dell’individuo a combinarsi in modo istintivo ed emozionale con altri individui (Bion,1961). Siamo di fronte a qualcosa di ben meno evidente di quello che siamo abituati a chiamare psicopatologia; qualcosa che probabilmente ha a che fare con aree della mente che all'interno di diversi costrutti teorici possiamo chiamare scisse (Freud, 1927b; Ferenczi, 1932), dissociate (Bromberg, 1998; Bucci, 2009), alessitimiche (Taylor et al., 1997; Solano, 2013, 267-318), o irrisolte (Main e Solomon, 1986), e che mandano all'esterno segnali molto flebili, se non quando la "valenza" si combina con altri "radicali liberi" presenti nell'ambiente sociale, a generare "composti" altamente esplosivi. Aree della mente che per essere esaminate necessitano di strumenti che esplorino non i contenuti - poco accessibili - ma le modalità di funzionamento: penso all'Intervista per l'Attaccamento (George et al., 1996), in grado di individuare dimensioni mentali "irrisolte", o una scarsa "coerenza" mentale; all'Intervista per l'Alessitimia (Bagby et al., 2006; Taylor et al., 2014), in grado di individuare difficoltà di contatto con l'emozione, testimonianza di disconnessioni tra i sistemi dell’organismo (Bucci, 1997, 2009); alla Scala per le Esperienze Dissociative (Bernstein e Putnam, 1986).    

Inoltre uscendo da una logica grossolanamente quantitativa possiamo ricordare che nei brigatisti o nei criminali nazisti non vennero trovati segnali macroscopici di patologia mentale, ma qualcosa venne pur trovato; si tratta quindi forse di riconoscere come in particolari contesti un segnale anche flebile[8] possa risultare indicativo di aree dissociate specifiche e delimitate, poco accessibili, che possono non dare manifestazioni esterne di sé anche per lungo tempo, fino a che l'incontro con la valenza complementare nell'ambiente, o magari anche solo un nuovo stimolo, non produce la deflagrazione[9].

Un attenta rianalisi dei protocolli Rorschach dei nazisti processati a Norimberga (Nielsen e Zizolfi, 2005), se da una parte ha confermato la scarsezza (di nuovo, non l’assenza) di segnali “psicopatologici” derivabili dalla classica interpretazione formale, ha invece riscontrato, attraverso una analisi dei contenuti squisitamente psicoanalitica e articolata con il contesto storico e biografico dei soggetti, una serie di caratteristiche molto specifiche e ben in grado di dar conto delle azioni commesse: negazione della differenza tra vita e morte, tra i sessi, tra le specie; devitalizzazione, distacco affettivo; scissione, ambiguità, copresenza di verità opposte; onnipotenza, disconoscimento (focale) della realtà; aggressività camuffata.  

Queste caratteristiche rimandano ai termini prima utilizzati di scissione, alessitimia, dissociazione, attaccamento irrisolto; possiamo inquadrarle tutte nella dimensione sovraordinata di una grave disconnessione[10]. Possiamo ugualmente anticipare che chi riesce a produrre dei sintomi psichiatrici, che comunque danno una forma di espressione alle aree dissociate, può risultare meno “patologico”, e soprattutto meno a rischio per sé e per gli altri, di chi ospita aree dissociate “silenti”.

Il livello di integrazione/disconnessione come criterio fondamentale di salute

La proposta è quindi di considerare fondamentale in una valutazione il livello di connessione/disconnessione o dissociazione. Tale criterio può essere visto come implicito nella maggior parte dei modelli psicoanalitici del funzionamento mentale, laddove vengono considerati centrali il contatto con l’esperienza, o con l’emozione, o con il mondo interno.

Bion (1962a, b) ha elaborato una teoria di genesi del pensiero dalla progressiva elaborazione in immagini (elementi alfa) e parole di un'esperienza della realtà che inizialmente è molto grossolana, informe, intessuta di sensazioni fisiche, di emozioni confuse (elementi beta).

Winnicott, nel noto lavoro sulla “Paura del Crollo” (1974), ci parla delle difese psicotiche, che nell’insieme possiamo definire dissociative, di fronte alle angosce agoniche[11] (agonies) primitive. Ci parla di eventi che sono avvenuti, ma non sperimentati, e vengono registrati in un inconscio che contiene esperienze non integrate. Ogden, in una recente analisi (2014) del lavoro di Winnicott, definisce l’esito di questo processo (quando attuato massicciamente) una vita non vissuta. In lavori precedenti (es. 2005) ha sottolineato l'importanza nel lavoro analitico di "sognare sogni non sognati e grida interrotte".

Bromberg, (1998, 2006) riprendendo un percorso di pensiero che parte da Janet e passa per Sullivan e Mitchell, ha fortemente sottolineato la molteplicità degli stati del sé e la necessità di una loro integrazione, quindi il legame tra dissociazione, di origine traumatica, e psicopatologia.

Donnell Stern (1989) parla di “esperienza non formulata” che l'analisi può avere lo scopo di formulare.

In modo più generale Wilma Bucci (Bucci, 1997, 2009; Solano, 2010; 2013, 29-66) all’interno della sua Teoria del Codice Multiplo, definisce la salute dell’individuo, sia mentale che fisica, come basata sulla connessione tra sistema non simbolico[12] e sistemi simbolici (verbale e non-verbale)[13], tutti definiti come comprendenti in modo inseparabile aspetti “mentali” e aspetti “somatici”. E’ necessario che l’emozione non simbolica trovi rappresentazione in immagini e parole, in modo da poter essere vissuta coscientemente, elaborata, modulata, regolata[14].

Questa connessione non è né automatica né scontata, ma si realizza nel rapporto con la figura di accudimento, come in tutte le teorie psicoanalitiche più recenti a impronta relazionale (reverie di Bion, holding di Winnicott, sintonizzazione dell’Infant Research ecc.).

La patologia, mentale e anche fisica, viene vista come derivante (Bucci, 2007; 2009; 2016) da vari livelli di disconnessione tra sistemi (vicina al concetto clinico di dissociazione)[15] che realizzano anche ciò che la psicoanalisi ha chiamato meccanismi di difesa. Le connessioni possono non formarsi fin dall’inizio, per motivi traumatici[16], o comunque per un deficit nei rapporti primari, o essere interrotte in seguito, su base conflittuale (vv. attacco al legame in Bion, inibizione della funzione riflessiva in Fonagy)[17]. A livello fisiologico la disconnessione può essere individuata tra amigdala e ippocampo (memoria episodica), e tra amigdala e aree corticali.

A seguito della disconnessione si potrà avere una attivazione non-simbolica in assenza d’identificazione e di riconoscimento dell’oggetto che è la fonte dell’attivazione. Un’attivazione senza nome, o, se vogliamo, inconscia.

L’emersione diretta di questa attivazione alla coscienza, non mediata dai sistemi simbolici, potrà generare attacchi di panico o altri disturbi caratterizzati da “angoscia senza nome” (pavor nocturnus); potrà portare ad agìti altrettanto incontrollati (come negli omicidi “passionali”). Un emergere meno massiccio, più cronico, potrà portare a disturbi o malattie somatiche. Sono anche possibili soluzioni adattive, laddove l’attivazione non-simbolica (pur rimanendo priva di connessione con il significato originario) fornisce la spinta motivazionale per l’espressione artistica, per la dedizione ad una causa, ad un lavoro impegnativo, ad una religiosità matura.

I tentativi del soggetto di trovare significati (spuri) all’attivazione[18] potranno dare origine ai diversi disturbi mentali: così l’attribuzione ad un persecutore esterno darà origine a disturbi paranoidi; l'attribuzione a una malattia somatica, a ipocondria; l'attribuzione a un oggetto inanimato esterno, a fobie; l'attribuzione a una propria colpa, a depressione, ecc.

I tentativi del soggetto di sedare l’attivazione potranno portare a:

- identificazione con l’autore del trauma responsabile della disconnessione, assumendo un’identità ad esempio di terrorista, guerrafondaio, serial killer, ideologo e/o zelante esecutore di regimi criminali (es. nazista[19]);

- assunzione di sostanze, gioco d'azzardo, promiscuità sessuale, comportamenti alimentari devianti, autolesionismo, parafilie, utilizzo “tossicomanico” del lavoro (workaholics) o dell'attività fisica;

I tentativi del soggetto di evitare l’attivazione[20] porteranno a:

$1-          evitamento generalizzato di ogni esperienza che comporti rischi di attivazione, implicante la rinuncia a ogni tipo di realizzazione personale, in termini totali (es. nessun lavoro, nessuna vita di coppia, niente figli) o parziali (scarso impegno nel lavoro, vita di coppia priva di passione, scarso investimento nei figli): una impossibilità a godere della vita[21]. Il riconoscimento di questa modalità come una delle soluzioni più disadattive[22] è una delle basi del capovolgimento di un'ottica psichiatrica che basi la valutazione di salute mentale esclusivamente sulla presenza/assenza di sintomi "in positivo".

L’attivazione non-simbolica che non riesca a trovare alcun tipo di connessione simbolica - né adeguata né spuria - né forma di sedazione, né espressione adattiva, potrà causare disturbi somatici tanto più gravi tanto maggiore l’attivazione e la disconnessione. Va immediatamente rilevato però come anche questa espressione possa risultare comunque preziosa (almeno se il disturbo non è gravissimo fin dall’inizio), rispetto ad una totale mancanza di espressione. Il sintomo somatico può costituire una prima forma di comunicazione interna ed esterna, un primo tentativo di connessione rispetto alla totale assenza di segnali, segnali che permetterebbero di cercare un aiuto esterno.

In questo schema una delle situazioni meno adattive, più pericolose, appare proprio quella in cui l’attivazione non simbolica dissociata non trovi alcuna via di espressione, nemmeno quella somatica: sono queste le situazioni in cui può presentarsi all’improvviso una malattia somatica gravissima oppure una messa in atto improvvisa, incontrollata, totale, fino gesti di violenza contro gli altri o se stessi a primo impatto inattesi e incomprensibili[23]. Rispetto all’importanza di una espressione almeno somatica è stato recentemente presentato un lavoro dal titolo significativo “Do bodies need to talk?” (Kotowicz, 2013) in cui viene riferito il caso di un “corpo congelato”, che non produceva mai alcun tipo di sintomo o malattia somatica; fino all’improvviso, apparentemente inspiegabile, suicidio[24].

Il sintomo, psichico o somatico, non appare più in questo modello come l’essenza della patologia ma al contrario una valvola di sicurezza, un segnale d'allarme, una possibilità di comunicare, a se stessi e agli altri, una condizione di disagio. La situazione più sfavorevole appare invece, in presenza di una attivazione non-simbolica dissociata, la totale assenza di sintomi, frutto o di una definitiva rinuncia a vivere onde evitare qualunque rischio di attivazione, o di un equilibrio assolutamente precario con il rischio costante di violenza improvvisa o di malattia somatica gravissima fin dall’inizio.

  

Inserimento del corpo in una valutazione globale[25]

Se accettiamo le posizioni espresse finora, è necessario anche accettare che i fenomeni che si svolgono a livello somatico abbiano la loro parte in una valutazione globale della persona, e necessitino di una attribuzione di significato nel contesto della situazione relazionale presente e passata e del ciclo di vita dell’individuo. La suddivisione della salute in “mentale” e “somatica” è un artefatto introdotto dalla Medicina Positivista nella seconda metà del 1800.

Sul versante psichiatrico dal DSM-5 sono scomparsi i termini, presenti nel DSM-4, "Disturbo da somatizzazione" e "Disturbo Somatoforme" che, anche se certamente discutibili, facevano riferimento ad una genesi non organica di un sintomo somatico: nella nuova edizione si parla di Somatic Symptom Disorder, “Disturbi da Sintomi Somatici”: i sintomi somatici esistono per loro conto, e a volte possono causare disturbi psichiatrici.

Il disinteresse per il contributo psicosociale, relazionale, alla malattia somatica porta a grandi carenze nella valutazione e nel trattamento[26]. Ho riferito altrove (Solano, 2013, pp. 439-440) di una situazione emblematica di un paziente che aveva presentato 14 (quattordici) episodi di pancreatite acuta in 3 anni: lungi dal pensare che questo paziente potesse trovare utilità in un intervento psicologico, il medico curante mi inviò la moglie che presentava problemi di ansia.

Se invece desideriamo seguire con coerenza una visione unitaria corpo-mente (come espressa nel modo più compiuto che io conosca nel pensiero di Carla De Toffoli, 2014) è necessario assegnare al disturbo somatico, nel valutare lo stato di salute della persona in un'ottica globale, lo stesso valore di segnale di un sintomo psichico, nella consapevolezza che si tratta di un segnale più distante dalla coscienza dell’individuo e che quindi siamo di fronte ad un livello minore di connessione, di contatto con se stessi. Significa quindi inserire i disturbi somatici in una valutazione globale, psicosomatica.

Il livello di realizzazione(in rapporto alla fase del ciclo di vita) e di sviluppo di funzioni

Entrambe queste dimensioni, tra loro strettamente connesse, non trovano alcuno spazio in una valutazione diagnostica, quale quella del DSM, fondata sulla presenza/assenza di sintomi "positivi". Porterò un esempio clinico per mostrare a quali paradossi può portare questa scotomizzazione.

"Il figlio che tutti vorremmo avere"

Questo caso è tratto da un'esperienza di inserimento di Psicologi della Salute nello studio di Medici di Medicina Generale (Solano, 2011, 2012), che realizza un'accoglienza integrata. È quindi possibile vedere in presa diretta la differenza tra un modello medico, fondamentalmente basato sulla presenza/assenza di sintomi, e un modello psicologico che tenga conto anche e soprattutto del livello di realizzazione e di sviluppo di funzioni. Il caso è raccontato in prima persona dalla psicologa (Solano, 2011, 58-61):

E’ il mio primo giorno di lavoro nello studio. Prima dell'entrata del paziente, il medico me lo ha descritto come "il figlio che tutti vorremmo avere”. Mi ha detto anche che si tratta di una famiglia molto unita, i tre vengono sempre insieme a studio.

Federico è un ragazzo di 27 anni, che si presenta a studio con la madre ed il padre, entrambi di circa 50 anni. Entrati nello studio, la madre inizia con il raccontare davanti a tutti i propri problemi di salute, compresi alcuni particolari piuttosto intimi.

Descrive poi dei problemi di salute del figlio, che non ha la possibilità di aprire bocca. Si tratta di tensioni addominali, probabilmente una colite spastica. Li attribuisce a “intolleranza al latte” (come se parlasse di un neonato).

Mentre il medico visita Federico, la madre racconta che Federico è iscritto a sociologia, ed è proprio un bravo ragazzo, perchè studia sempre e sta sempre in casa, e non ha mai avuto una fidanzata.

Per tutto il tempo dell'incontro il padre non dice praticamente una parola.    

Uscita la famiglia dico al medico che trovo abbastanza preoccupante la dimensione simbiotica, di labilità di confini, che caratterizza questo nucleo familiare, e gli comunico l'ipotesi che Federico presenti un deficit di maturazione e di individuazione, una mancanza di interessi e comportamenti propri dell'età, che potrebbero sfociare nel tempo in disturbi anche gravi.

Il medico rimane molto stupito.

L'incontro, così drammatico per la psicologa, non modifica in un primo momento l'opinione del medico sulla "famiglia unita" e "il figlio che tutti vorremmo avere". Le dinamiche familiari non trovano spazio nel DSM, e non se ne parla gran che nei convegni di psichiatria dedicati al "trattamento" di qualche specifica "patologia". L'assenza di lamentele, di lacrime, di grida, di espressioni di angoscia, la situazione apparentemente di grande armonia familiare rende difficile al medico pensare che possa esserci un qualche problema meritevole di attenzione, sua e/o di uno specialista della salute mentale[27]. Si può pensare ad una patologia solo in un modello che preveda come criterio il grado di realizzazione personale.

Lo sviluppo di funzioni come criterio di valutazione e come scopo della psicoanalisi

L'importanza delle funzioni di un individuo come criterio di valutazione e come obiettivo dell’intervento clinico è implicita in una serie di teorie psicoanalitiche ormai entrate nella tradizione, come quella di Bion (sviluppo della funzione alfa e dell'apparato per pensare i pensieri), Winnicott (capacità di mantenere uno spazio potenziale, di stare da solo ecc.), Kohut (capacità di utilizzare oggetti-Sé). È stata sempre al centro della clinica dell'età evolutiva (vv. Capozzi, 2004).

Solo in tempi più recenti, però, questa tematica è stata chiaramente esplicitata[28]. Gabbard e Westen (2003) in una rassegna sull’azione terapeutica, hanno dato ampio spazio tra gli scopi della psicoanalisi allo sviluppo di funzioni, dalla capacità di riflettere su se stessi, a quella di tollerare e regolare gli affetti, di autoconsolarsi.

Nell’ambito italiano, Renzo Carli (1987), in qualche modo sulla traccia di Bion, ha indicato come obiettivo della psicoterapia psicoanalitica l’ampliamento della capacità di pensare, piuttosto che il raggiungimento di mete definite, quali la genitalità.

Antonino Ferro ha sostenuto in più occasioni che il compito dell’analista, specie nei casi più complessi, sia quello di svolgere le operazioni mentali che il paziente non è in grado di svolgere per suo conto, di modo che questa capacità venga poi gradualmente interiorizzata dal paziente[29].

Irene Ruggiero, in un recente intervento ad un Panel del Convegno Nazionale SPI del 2014, ha proposto una visione dell'adolescenza come una funzione, il cui scopo è di organizzare, inserire esperienze nuove all’interno dei modelli preesistenti di sé e delle relazioni, permettendo così ad “atteggiamenti mentali aperti e potenzialmente creativi - la curiosità, il dubbio, la capacità di lasciarsi sorprendere – di prevalere sulla ripetizione e sull’irrigidimento difensivo”. Questa funzione è necessario si attivi tipicamente nel periodo che definiamo tradizionalmente adolescenza per integrare lo sviluppo puberale, il corpo sessuato, nella precedente rappresentazione di sé, con le modifiche relazionali che ne derivano. Rimane tuttavia necessaria, potremmo dire indispensabile, per affrontare tutti i successivi cambiamenti nel ciclo di vita: l’impegno lavorativo, il matrimonio o comunque il rapporto di coppia, la nascita dei figli, eventuale separazione, menopausa, pensionamento. In questa ottica uno scopo del processo analitico diventa lo sviluppo progressivo di questa funzione.

Basilio Bonfiglio, in un lavoro presentato allo stesso Panel (2014), si è soffermato proprio sull’importanza di una funzione di connessione di cui ho parlato diffusamente in questo lavoro, da lui definita capacità di connettere i “livelli basici sensoriali ed emozionali” con rappresentazioni verbali e non verbali (immagini), come strumento per raggiungere una piena soggettivazione.

Nel Convegno del mese scorso Michael Parsons (2016) ha ripreso il concetto di Winnicott di “essere vivo” per affermare come scopo della psicoanalisi lo sviluppo di una “libertà di” oltre che di una “libertà da”; libertà ad esempio di “arricchire la struttura e aumentare la complessità della vita psichica”, anche attraverso la creazione di collegamenti tra le diverse esperienze della nostra vita.

Esempi di classificazione diagnostica basati sullo sviluppo di funzioni

a) è stato pubblicato nel 2006[30] il PDM, Manuale Diagnostico Psicodinamico, a cura di diverse associazioni psicoanalitiche nordamericane e internazionali. Questo manuale, diversamente dal DSM, non solo ingloba la dimensione sintomatologica in quella di disturbo di personalità (Asse P) - considerando quindi il sintomo un aspetto accessorio - ma prevede anche un Asse M, Profilo del funzionamento mentale. Questo comprende appunto una valutazione di diverse funzioni, dalla Capacità di regolazione, attenzione e apprendimento alla Capacità di Relazioni e intimità, alla Capacità di esperienza, espressione e comunicazione degli affetti.

Aspetto di non poco conto, nella classificazione relativa a bambini/adolescenti l'Asse M viene definito prioritario rispetto all'Asse relativo ai disturbi di Personalità. Con un piccolo sforzo in più si potrebbe pensare di applicare questo criterio anche agli adulti. Comunque questo Manuale, la cui classificazione è ampiamente basata su ricerche empiriche piuttosto che su un accordo tra esperti, rappresenta un totale cambiamento rispetto all'ottica del DSM e ritengo se ne possa auspicare una maggiore diffusione. Diffusione che potrebbe essere ancora maggiore se, trovando un accordo con altre organizzazioni della psicologia, venisse accettato come Manuale Diagnostico Psicologico Clinico anziché come specificamente psicodinamico. Come dicevo nel primo paragrafo, non mi sembra che oggi dovrebbero esserci ostacoli insormontabili.

b) è uscito da pochi mesi un Manuale di approcci Psicodinamici alla Psicopatologia (Handbook of psychodynamic approaches to psychopathology, Luyten et al. 2015) che, oltre all’innegabile pregio di contemplare soltanto 11 categorie diagnostiche, (contro le centinaia del DSM-5), assegna grande importanza nella classificazione al grado di sviluppo di diverse funzioni quali la capacità di mentalizzazione, di regolazione affettiva, la qualità dell’attaccamento, il controllo dell’attenzione.

Verso una visione della patologia, o piuttosto della salute (senza distinzione tra psichica e somatica) fondata sui livelli di connessione  

Propongo quindi, allo scopo di illustrare l'impostazione e non certo di articolare un sistema diagnostico compiuto, un tentativo di classificazione dei livelli di salute fondata sulla capacità di connessione tra sistemi, considerando questa come base anche di molte altre funzioni, dalla funzione riflessiva, alla regolazione affettiva, alla capacità di sognare.

È evidente che non tutte le situazioni reali rientreranno facilmente in uno dei livelli proposti, ci potranno essere situazioni intermedie ecc.

Livello 1 (Salute minima) = massima disconnessione del sistema non-simbolico dai sistemi simbolici. Il tentativo di evitare l’emergenza di una (massiccia e violenta) attivazione non-simbolica disconnessa può esprimersi come:

° Rinuncia a vivere, evitamento generalizzato di qualunque esperienza che possa attivare i contenuti dissociati (Vita Operatoria, Smadja, 2001)

° Schizofrenia con prevalenza di sintomi negativi e/o catatonici

   È assente qualunque sintomo “in positivo”. A parte forse il caso della schizofrenia, è continuamente presente il rischio di una improvvisa, massiccia emergenza di attivazione non-simbolica: suicidio, omicidio “passionale” o “privo di senso” (serial killer); comparsa improvvisa di malattie somatiche gravissime senza alcun disturbo premonitore. Una emergenza meno improvvisa può portare all’adesione ad organizzazioni terroristiche o a formazioni politiche estreme. E’ comunque presente una impossibilità a godere della vita, delle relazioni, del proprio lavoro.

Livello 2 = L’attivazione non-simbolica disconnessa si esprime soprattutto attraverso:

° patologie somatiche, prima che questo corrisponda ad un danno irreversibile

° agìti privi di pensiero, non immediatamente letali (tossicodipendenza, alcolismo, promiscuità sessuale, gioco d’azzardo, tifo violento, autolesionismo).

Livello 3 = Possibilità di esprimere l’attivazione non-simbolica disconnessa attraverso i vari sintomi psichici, che costituiscono una simbolizzazione spuria dell’attivazione non-simbolica dissociata.

Più che ai livelli precedenti si può attivare una richiesta di aiuto. Il disagio può essere più agevolmente riconosciuto dall'esterno. Il destino finale dell’individuo dipende fortemente dalla risposta sociale a questo tipo di disagio (livello di stigma, adeguatezza e tempestività dell’intervento).

Livello 4 = Possibilità di utilizzare l’attivazione non simbolica (che pur rimane priva di connessione con il significato originario) come spinta motivazionale per l’espressione artistica, per la dedizione ad una causa, ad un lavoro impegnativo, ad una religiosità matura.

Livello 5 (Salute ottimale) = contatto pieno con la propria attivazione non-simbolica, o emozionale che dir si voglia.

La presenza effettiva di una condizione di questo tipo rappresenta più un ideale di sanità che una realtà riscontrabile. Nei fatti, in qualche momento della vita, quando gli eventi superano le nostre capacità di connessione (di mentalizzazione, la nostra funzione alfa), compariranno sintomi psichici, sintomi somatici, agìti.

Il livello di connessione potrà essere valutato clinicamente e/o con gli strumenti elencati nelle parti iniziali di questo lavoro.

Conclusioni

Questo lavoro non propone in realtà alcuna modificazione sostanziale della teoria e della tecnica psicoanalitica. Propone di affermare più chiaramente, e con maggiore convinzione, quello che già siamo e facciamo: sul piano della valutazione, utilizzando concetti e strumenti nostri, e non quelli di una psichiatria accademica neokraepeliniana; sul piano del trattamento, definendo il nostro lavoro come mirante non all’eliminazione di sintomi (che sappiamo bene essere essenzialmente dei segnali d’allarme e non il problema) ma a promuovere uno sviluppo di funzioni, in particolare la capacità di connessione tra parti del sé, in qualunque modo preferiamo chiamare queste ultime, e come preferiamo definire questa operazione di promozione: destare il sognatore, sviluppare la funzione alfa, connettere i livelli basici sensoriali ed emozionali con rappresentazioni verbali e non verbali.

Credo altresì che sottolineare questo aspetto nella nostra immagine pubblica possa favorire un’accettazione sociale della psicologia molto maggiore rispetto a continuare a proporci soprattutto come trattamento di forme di disagio psichico (o peggio, di “malattie mentali”) sempre più gravi. Trattamento di cui tutti sono pronti a riconoscere l'utilità - per qualcun altro.

 

Lavoro presentato al Centro di Psicoanalisi Romano il 27 febbraio 2016

 

 

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[1]Membro Ordinario Società Psicoanalitica Italiana. Professore Straordinario nel Settore Psicologia Clinica, Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Università Sapienza di Roma.

[2] La mia posizione, sulla scia di alcuni passaggi del pensiero di Freud, è che la psicoanalisi faccia parte della psicologia, ne sia “la struttura essenziale, forse addirittura il suo fondamento” (Freud, 1927a).

[3] Sarebbe stato di grande interesse se la psichiatria organicista avesse prodotto un sistema di classificazione diagnostica fondato sulla ricerca neuroscientifica. Questo avrebbe però significato rinunciare alla pretesa di ateoreticità, che ha costituito il principale grimaldello attraverso il quale il DSM si è imposto come sistema di classificazione universale, pur essendo fortemente di parte. Inoltre, i risultati della ricerca empirica possono essere posti in discussione per motivi metodologici e confutati da ricerche successive, mentre non si può confutare una classificazione basata essenzialmente sul consenso di alcuni esperti.

[4]Nel DSM-4, ricordavano Lingiardi e Del Corno (2008), erano contenuti 3 Assi addizionali "per successivi studi": funzionamento difensivo; valutazione globale del funzionamento relazionale, valutazione del funzionamento sociale e lavorativo. Contrariamente a quanto auspicato, nulla di tutto questo è filtrato nel DSM-5.

[5] Non a caso il testo citato di Nielsen affronta il problema di una configurazione mentale atta a condurre ad una collaborazione o acquiescenza a un regime come quello nazista, che ha riguardato forse la maggioranza di un popolo in un dato periodo (13 milioni di persone votarono per Hitler), non certo una minoranza di “malati”.

[6] una persona sana di mente può non essere in un dato momento in grado di intendere e di volere perché sotto l'effetto di droghe o di alcool, per una deprivazione prolungata di sonno, per un trauma recente; d'altra parte nessuna patologia mentale, tranne forse la schizofrenia con deterioramento, altera in modo permanente e scontato la capacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni.

[7] Quali quelle descritte da Freud in Psicologia della Masse e Analisi dell’Io (1921) e da Bion in Esperienze nei gruppi (1961).

[8] Nel noto film di Orson Welles Lo Straniero, all'investigatore accorto è sufficiente una sola, breve, frase dell'indiziato per identificarlo come criminale nazista: "Freud non era tedesco, era ebreo". Il commento dell'investigatore è: "Solo un nazista potrebbe dire una frase del genere". Non si tratta quindi di quantità, ma di specificità.

[9] Nielsen, nel suo volume “L’Universo Mentale Nazista (2004) parla in proposito di aree perverse di tipo “intermittente” (p.136). “Una parte prevale temporaneamente sull’altra che è pronta a subentrare nel momento in cui le coordinate ambientali ed esistenziali lo consentano” (p.161).

[10] Anche la descrizione della personalità di Adolf Eichmann, nel noto testo La banalità del male (Arendt, 1963) rimanda ad una dimensione dissociativa. Incontriamo il passaggio, senza apparente conflitto, da un progetto di creazione di uno stato ebraico in un territorio lontano a un progetto di sterminio; incapacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni; gravi carenze di mentalizzazione, soprattutto nel senso di comprendere il punto di vista di altri, e di poterne essere influenzato; distacco dalla realtà; menzogna sistematica a se stesso; gravi lacune nella memoria. “Era come se quella vicenda fosse incisa su un nastro diverso nella sua memoria, e non c’era ragionamento, argomento, dato o idea che potesse intaccare questa registrazione” (p.86).

Sorprende che il testo venga a volte citato a sostegno della tesi che i criminali nazisti fossero persone più o meno normali, confondendo evidentemente la “banalità” o la “meschinità” con la normalità (o la sanità).

[11] Sono debitore ad Adelaide Lupinacci (2016) di questo modo di tradurre l’inglese agonies, che trovo più soddisfacente di quello comunemente utilizzato di “agonie”.

[12]Il sistema non-simbolico svolge funzioni che in diversi ambiti teorici vengono definite funzionamento corporeo, memoria del corpo, memoria procedurale, aspetti fisiologici dell’emozione. A differenza di altri costrutti (processo primario in Freud, elementi beta/protomentale in Bion, simmetrico di Matte Blanco) i processi non-simbolici non sono concepiti come caotici, non sono orientati al soddisfacimento del desiderio e non sono segregati dalla realtà ma in relazione con l’esterno,sviluppandosi in complessità e in ampiezza per tutto il corso della vita. Il sistema non simbolico coordina le azioni motorie e sensoriali anche più raffinate e può essere quindi visto come dotato di pensiero organizzato, per quanto non simbolico e non cosciente. Sul piano anatomo-fisiologico corrisponde a quello che in genere viene chiamato “corpo”, comprendendovi però anche le aree del sistema nervoso che conosciamo come connesse con gli aspetti non verbali dell’emozione, quali l’amigdala, il sistema nervoso autonomo, le aree cerebrali connesse con la mimica e il movimento involontario.

[13] Il sistema simbolico non-verbale corrisponde alla funzione alfa di Bion o meglio ancora al “pensiero onirico della veglia” descritto da Antonino Ferro (es.2002, pp.59-69) sulla traccia di Bion; può essere anche apparentato al “pensiero per immagini” introdotto da C. ed S. Botella (2001). La sua controparte anatomo-fisiologica è costituita dall’ippocampo e dalle aree corticali visive. Il sistema simbolico verbale comprende il pensiero, il linguaggio e la memoria verbali ed è basato sulle aree corticali superiori.

[14] Concetti analoghi sono espressi nel costrutto dell’alessitimia (vv. Taylor et al., 1997, 2014; Solano, 2013, 267-318) a sua volta discendente da quello della pensée opératoire della scuola psicosomatica di Parigi (Marty et al., 1963). La Teoria del codice multiplo risulta a mio parere più completa perché introduce (come Bion) un livello simbolico non verbale (immagine) ed esplicita chiaramente il doppio aspetto, somatico e verbale, dei sistemi ipotizzati.

[15] “la mia posizione è che tali processi dissociativi siano alla base di tutti i disturbi emozionali, che sia o meno possibile identificare il trauma specifico” (Bucci, 2007)

[16] La distinzione dell’organismo in sistemi descritta da W. Bucci permette di fornire una soluzione ad una contraddizione a mio avviso contenuta nel lavoro sulla Paura del Crollo di Winnicott: come può un evento non sperimentato essere registrato nella memoria? La contraddizione può essere risolta ammettendo che l’evento venga registrato nel sistema non-simbolico (che comprende la memoria implicita e procedurale) mentre le difese psicotiche bloccano la connessione con i sistemi simbolici (memoria episodica).

[17] Oltre che da situazioni traumatiche individuali un’attivazione non-simbolica disconnessa può avere origini transgenerazionali.

[18]Il concetto di una inevitabile ricerca di significato per una attivazione non simbolica disconnessa trova risonanza in altre enunciazioni psicoanalitiche: così Freud (1926, p.248) parla di “coazione alla sintesi”; Roussillon (2015) di “coazione a integrare”.

[19] Nel lavoro di Nielsen (2004) sulla mente nazista ritroviamo moltissimi tra gli elementi descritti in questo paragrafo, dal distacco dalla propria esperienza affettiva e dal proprio sé più autentico (Winnicott, 1960) a uno “stile di vita senz’anima”, ad un linguaggio “arido, deanimato”, alla personalità ambigua (Bléger, 1967), al disconoscimento “non della realtà ma del suo significato“ (=disconnessione con i sistemi simbolici), all’identificazione all’aggressore.

[20] Si può ricordare a questo proposito il concetto di “angoscia di integrazione” di E. Gaddini

[21] Ritroviamo una descrizione molto simile in Smadja (2001) nel suo concetto di “Vie opératoire”.

[22] Possiamo avvicinare questa soluzione ai concetti di normotico (Bollas, 1987) e di normopatico (Mc Dougall, 1989).

[23] È noto come la maggior parte degli atti di violenza di questo tipo vengano commessi da persone che non avevano mai avuto contatti con operatori della salute mentale pubblici o privati.

[24] Interessanti notazioni sull’utilità del sintomo somatico vengono espresse da Smadja (2001): se da una parte il sintomo mentale "protegge il soma" (p.16), dall’altra il sintomo somatico, come espresso da Bucci e in precedenza da Winnicott (1949), appare come apertura, come ricerca di significato, ricerca di connessione, all’interno e all’esterno: "Non è sorprendente vedere come il comparire di una somatizzazione dia sollievo al paziente, come se, in assenza di oggetti psichici disponibili, gli organi e le funzioni somatiche potessero andare più che bene" (p.96).

[25] Sulla costruzione della salute e del disturbo somatico nel contesto di vita dell’individuo ho scritto diffusamente (Solano, 2013). Una sintesi si può trovare in un lavoro in via di pubblicazione sulla nostra Rivista (Solano, 2016).

[26]da Carla De Toffoli, 1989: "E' evidente che la divaricazione della conoscenza dei fenomeni somatici da quella dei fenomeni psichici, che pure ha al suo attivo il grande progresso della scienza e della tecnica medica da un lato, e la nascita della psicoanalisi dall'altro, configura un interlocutore strutturalmente mostruoso e sadico, nel momento in cui concepisce o avalla la scissione dell'uomo in due oggetti di studio separati: il corpo e la mente".

[27] Il DSM-5 prevede (ad esempio) il Disturbo Schizoide di Personalità e il Disturbo Evitante di Personalità, ma non è certo facile pensarci nel momento che i comportamenti di Federico non vengono portati come un problema.

[28] Forse non è casuale che, parallelamente a questo emergere di interesse per lo sviluppo di funzioni, sia stata messa a fuoco l’importanza della trascuratezza (neglect) genitoriale, che in diversi studi è risultata avere effetti negativi sulla prole maggiori dell’abuso in senso stretto (Music, 2011, cap.17; Clarkin et al., 2015, p.359). E’ evidente come la trascuratezza possa avere un effetto specifico sullo sviluppo di funzioni.

[29] “(il paziente) trasferisce soprattutto la «non-capacità» di alfabetizzare questi stati mentali, ci obbliga a farlo per lui………… ci obbliga a passargli il metodo per sognare di giorno (sviluppo della funzione alfa), ci porta a trasferirgli fili per tessere contenitori più stabilizzati, ampi ed elastici, ci obbliga sognando per lui, a passargli il metodo per feeling, thinking, dreaming” (Ferro, 2006).

[30] E’ quasi pronta una nuova edizione.

 

 

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