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Squitieri G. - La rimozione, innanzitutto (2010)

Convegno "Dissociazione, scissione, rimozione" 4-5 dicembre 2010

LA RIMOZIONE,  INNANZITUTTO

Giuseppe Squitieri

Che senso ha al  giorno d’oggi  dedicare l’intera sessione pomeridiana di un convegno a discutere della  rimozione? Che ruolo essa  mantiene oggi nella clinica che  si svolge nei nostri studi e comunque nel nostro lavoro? Si può parlare oggi di rimozione nella clinica dei casi che più spesso arrivano alla nostra osservazione? Non è la rimozione da relegare alla sola clinica delle nevrosi, come in fondo lo stesso Freud, sembrava considerare? O forse neppure a quella? In altre parole, il concetto di rimozione appartiene solo alla storia delle idee o ha una valenza vivente e ancor valida nel nostro modo di pensare clinico? Corrisponde ad una precisa teoria della cura? E d’altronde, il termine stesso  indica sempre lo stesso concetto?

E’ un’osservazione persino banale  che in quanto termine essa compaia di frequente nel linguaggio comune, e persino in quello letterario[1], usata soprattutto nell’accezione di “rimozione collettiva” (nel caso di una particolare situazione o di un particolare avvenimento che in modo o nell’altro ripugni alla coscienza sociale), e dunque con un uso che travisa  e spesso banalizza il suo significato (il concetto)  originario. O meglio, si potrebbe dire, lo riporta ad un suo significato primitivo, poi presto abbandonato . Mi riferisco al fatto che nel suo primissimo uso da parte di Freud, la rimozione inizia con un atto intenzionale: una idea inaccettabile viene rifiutata ed allontanata dalla coscienza. Ma, sapete anche questo, la rimozione incomincerà a muovere veramente i suoi passi nel momento in cui, quasi subito dopo, verrà riconosciuto come atto psichico totalmente inconscio (l’idea –chiamiamola ancora così- inaccettabile viene soppressa prima ancora che arrivi alla coscienza).

Questa è solo una delle tante vicissitudini cui il concetto di rimozione andrà incontro nello stesso pensiero di Freud.

Ricorderete il famoso passo contenuto in Inibizione, sintomo, angoscia :

“Adesso sono del parere che ritornare al vecchio concetto di difesa presenti un sicuro vantaggio, se si stabilisce bene a questo riguardo che esso deve essere la designazione generale di tutte le tecniche di cui l’Io si serve nei suoi conflitti, che possono eventualmente condurre alla nevrosi, mentre conserviamo il termine di rimozione per uno speciale di questi metodi di difesa, che l’orientamento delle nostre ricerche ci ha permesso agli inizi  di conoscere meglio degli altri” (Freud, 1925)).

Il che implicherebbe –siamo nel 1925- che per designare ciò di cui stiamo parlando lo stesso Freud abbia utilizzato inizialmente il termine di difesa, sia passato poi a quello di rimozione, per poi ritornare –nel passo che stiamo citando- al primo. Implicherebbe in ogni caso che la rimozione risulti essere univocamente una difesa.

Freud, come afferma J.B. Pontalis[2], non sempre è uno storico del suo pensiero di cui ci si debba fidare senza riserve. Se questo è vero, però  il più delle volte avviene senza gravi danni , nel senso che ciò  non ha grandi conseguenze teoriche  ed ancor meno ripercussioni tecniche. Ma non è questo il caso perché qui la questione è di tutt’altra importanza, anzi è centrale. Se l’importanza teorica fondamentale data da  Freud e Breuer (1892-95) a quanto avevano scoperto nel trattamento delle isteriche dovesse considerarsi non giustificata, la rimozione perderebbe il suo statuto  di base: quello di essere l’atto costitutivo o, come dice Pontalis, il processo correlativo dell’inconscio. L’accento si sposterebbe sulle tecniche complesse messe in opera dall’Io per gestire o risolvere il conflitto difensivo, piuttosto che sulla stretta correlazione tra rimozione ed inconscio.

Intendiamoci, stiamo parlando dell’inconscio dinamico, la materia di cui la psicoanalisi si occupa, perché l’inconscio in quanto tale, come termine descrittivo e fenomenologico, precede –per così dire- la mente umana, o meglio si costituisce, come componente di quest’ultima, nello stesso momento in cui compare la coscienza  come suo termine antitetico. Ma qui entriamo in un campo che non è di nostra competenza e riguarda il discorso, prevalentemente bio-antropologico , e per noi ancora misterioso, delle origini.

Ciò che riguarda il nostro discorso è invece il fatto che il momento fondativo della psicoanalisi è quello in cui si può affermare che esiste un’operazione mentale “la cui essenza – sono le parole di Freud nel 1915 – consiste semplicemente  nell’espellere o nel tener lontano qualcosa dalla coscienza”. Quando cioè si definisce l’esistenza di un operazione mentale “attiva” (che naturalmente non vuol dire “cosciente”), espressione della funzione di un apparato mentale individuale. In questo senso, “la rimozione innanzitutto”[3]. Ciò che Freud definisce “rimozione” fonda la psicoanalisi come oggi noi la conosciamo.

Questa operazione mentale è comunque definibile anche in termini di  difesa: protegge infatti l’Io da qualcosa che può provocare  una perturbazione non tollerabile. L’Io (è il Freud della prima topica) si configura come un luogo da difendere e nello stesso stesso tempo è l’agente della difesa. Capiamo meglio perché vada difeso, se pensiamo che l’Io è, in questa prima accezione dell’apparato psichico , un fascio, una massa di rappresentazioni legate insieme, e deve pertanto essere tenuto al riparo da rappresentazioni inconciliabili che ne potrebbero mettere a repentaglio l’unità. Tali rappresentazioni,  nella complessa ma logicamente chiara terminologia che Freud adotta in questo caso,  sono le  rappresentanze-rappresentazioni   attraverso le quali la pulsione, che proviene dal soma ed è esterna all’apparato psichico, cerca di penetrarvi sulla via del proprio soddisfacimento.

Questo è lo stimolo che dà luogo alla rimozione. Motore dell’Io nella sua azione rimovente  è il sentimento di dispiacere che deriva dalla inconciliabilità di tali rappresentazioni con quelle già presenti nell’Io stesso.

Da questa impostazione che ho sinteticamente esposto, deriva una specifica teoria della cura: riportare sotto il controllo dell’Io i derivati rimossi della pulsione nel momento in cui l’operazione della rimozione non sia riuscita o sia riuscita con una grave limitazione  delle capacità funzionali dell’individuo.

Rimane in realtà aperto in questo contesto il problema se tutto quanto venga rimosso risulti di per sé patogeno (o comunque svantaggioso per l’apparato psichico) oppure se la rimozione svolga  anche una funzione utile in condizioni per così dire fisiologiche. In  altre parole, se la rimozione, in quanto tale, sia  una operazione mentale che determina in ogni caso una difesa patologica, oppure se sia  una normale funzione costitutiva dell’apparato mentale individuale che operi per selezionare ciò che deve o non deve diventare cosciente.

Già però all’interno della teorizzazione di Freud, si intravede un paradosso che avrà progressivamente importanti conseguenze. Se la pulsione ha come suo unico fine il proprio soddisfacimento, come è possibile che un “piacere di soddisfacimento” possa diventare dispiacere? In realtà, Freud va convincendosi progressivamente che sia la pulsione sessuale a poter provocare il dispiacere che attiva la funzione rimovente (la fame, per intenderci, non può essere rimossa) e che tale dispiacere non possa essere legato esclusivamente alla repressione sociale, e dunque ad un interdetto puramente esterno: vergogna e moralità possono contribuire alla rimozione ma solo in quanto rinforzano “una fonte indipendente che libera dispiacere nella vita sessuale” (Freud, 1887-1904).

La teoria della rimozione è complessa, anche nei  suoi rapporti sia con la teoria della sessualità infantile sia con quella della fantasia, e non è possibile né utile affrontarla qui nei dettagli.

Ho però l’impressione che il genere di paradosso cui facevo or ora riferimento non sia l’ultima delle ragioni[4]  che spingono progressivamente Freud sulla strada di una revisione della teoria delle pulsioni, e cioè ad una notevole complessificazione del quadro descrittivo dell’apparato psichico. L’introduzione prima del narcisismo, poi della pulsione di morte rende possibile dar ragione di una complessa serie di fenomeni psichici legati all’esperienza di dispiacere, o meglio di ciò che ora può chiamarsi sofferenza e dolore, perchè non riguarda più solo, o più tanto, “rappresentazioni” quanto atti e comportamenti (su versanti diversi il  transfert, la coazione a ripetere, la reazione terapeutica negativa) in cui si traducono ora le spinte pulsionali.

Esiste infatti una sostanziale differenza tra la prima e la seconda teoria delle pulsioni: nella prima le pulsioni sono esterne all’apparato psichico; vi accedono, come abbiamo detto, attraverso le  proprie rappresentanze-rappresentazioni e su di queste (ospiti a volte non graditi) si opera il lavoro della censura, e quindi la rimozione. Nella seconda, esse appartengono all’Es, e sono dunque collocate all’interno dell’apparato psichico, ove si esprimono attraverso spinte (o “mozioni”) pulsionali[5]. Questa costituisce una novità sostanziale perché in questo modo il quadro di riferimento di come l’apparato psichico tratti queste spinte si sposta dalla loro selezione in quanto portatrici di piacere o dispiacere (non si parla più di rappresentazioni) alla loro elaborazione e trasformazione in elementi utilizzabili dall’apparato psichico stesso. Il problema si sposta in altre parole verso un criterio non di esclusione di ciò che provoca dispiacere, bensì  di “trasformazione” di tali spinte in elementi mentali utilizzabili (per la crescita della personalità, potremmo dire, anticipando i termini). Utilizzando un altro tipo di vocabolario, potremmo dire che l’apparato psichico non è più aggredito dall’esterno da qualcosa che gli è estraneo, ma deve piuttosto gestire all’interno qualcosa che gli appartiene e che può essere, a seconda dell’uso che se ne possa fare, sia fonte di gratificazione e di sviluppo sia fonte di difficoltà e di frustrazione. (Anzi, come dirà più chiaramente Bion, il suo sviluppo dipenderà dalla sua capacità di affrontare la frustrazione).

Naturalmente non si tratta solo di questo, e le modifiche apportate da Freud con la seconda topica e la seconda teoria delle pulsioni avranno una vasta  serie di conseguenze che sono alla base degli sviluppi della psicoanalisi contemporanea. Basti pensare a come la pulsione di vita implichi, nella sua funzione di mantenimento della vita stessa, un elemento di legame con un oggetto che non è più solo o tanto mezzo di soddisfacimento pulsionale ma componente di una relazione che ha in primo luogo funzione generativa. O a come la teoria dell’identificazione apra le porte a nuovi criteri di comprensione delle relazioni primitive e della genesi della personalità.

Che fine fa in questo percorso la rimozione? Apparentemente perde valore man mano che si progredisce da una teoria delle pulsioni ad una teoria del pensiero e da una teoria strettamente intrapsichica ad una teoria relazionale. E lo stesso avviene anche  a partire dal momento in cui, da un punto di vista clinico,   nuovi strumenti permettono di affrontare patologie più gravi e complesse delle nevrosi da difesa.  Freud stesso  classificherà la rimozione come una delle cinque modalità di difesa che descrive nella parte finale di Inibizione, sintomo ed angoscia. Ma, se la sua importanza declina come strumento clinico di indagine, essa rimane invariata sul piano concettuale perché il criterio di fondo di ogni teoria psicoanalitica rimarrà quella di una costituzione dell’apparato psichico fondata da un punto di vista dinamico  su una separazione, operata attivamente, tra conscio ed inconscio: di questa operazione separativa la rimozione rimane l’archetipo.

Ciò che avviene nella svolta degli anni Venti  è comunque che la psicoanalisi passa da uno statuto essenzialmente intrapsichico ad un assetto che apre la strada alla dimensione relazionale e nello stesso tempo assume l’attività psichica come un costante working through , una costante elaborazione degli elementi che vi confluiscono dall’esterno e dall’interno.

Disegnare questo funzionamento diventa allora molto più complesso perché gli stessi meccanismi psichici, le stesse modalità di funzionamento dell’apparato dipendono da caratteri in gran parte acquisiti nell’ambito della relazione primitiva con l’altro.

Le modalità di funzionamento dell’apparato psichico non saranno più descrivibili in sé ma piuttosto in funzione della correlazione con le modalità di relazione primitiva del soggetto, in primo luogo l’identificazione primaria, che ne condizioneranno i caratteri.

L’attenzione in questo senso andrà spostandosi vieppiù dalla messa a fuoco  delle difese al  modo di costituzione stesso dell’apparato.

Non a caso la teoria del pensiero di Bion prende le mosse dal Progetto (1895), cioè dall’opera più ambiziosa, anche se abbandonata, di Freud nel tentativo di descrivere il funzionamento globale (fisiologico) dell’apparato mentale. Il concetto di “barriera di contatto” di Bion (1962b)  è mutuato dall’analogo concetto di  Freud, sostituito poi da Freud  stesso con quello di un’altra barriera, quella  della rimozione appunto.  Nel pensiero di Bion, però, essa si  trasforma da omologo di una sinapsi  neuronale agente in una sola direzione in una membrana  selettivamente permeabile in ambedue le direzioni, e cioè tra conscio ed inconscio ed in senso contrario, atta perciò a preservare l’integrità  ed il funzionamento autonomo di ambedue i campi ed uno scambio selettivo tra di essi.

Per Freud il compito della rimozione rimane fino all’ultimo quello di difendere la coscienza (poi l’Io) contro l’inconscio (in seguito l’Es) ma non il contrario. Bion tramite la “visione binoculare” e la “prospettiva reversibile” fa sì che la rimozione possa funzionare nei due sensi e che tra i due campi si possa svolgere un’interazione selettiva (Grotstein, 2007, pag. 78).

Permettetemi di seguire ancora la teorizzazione di Bion perché mi sembra quella che meglio permette di comprendere l’evoluzione  del concetto di rimozione nella psicoanalisi contemporanea, il suo passaggio cioè  dall’essere uno strumento psichico puramente difensivo, ancorchè fondativo dell’inconscio, e dunque della psicoanalisi, ad una modalità di funzionamento tipico ed essenziale dell’apparato psichico nella  sua normale opera di metabolizzazione della realtà.

Nell’ambito della teoria del contenitore-contenuto, per Bion il compito del contenitore (inizialmente quello materno, poi la funzione corrispondente del soggetto) non è solo quello di tradurre la comunicazione emotiva, modificandone il volume o la valenza emozionale per renderla tollerabile ed utilizzabile, ma anche quella di trattenerne (withold), per così dire, una parte, anche indefinitamente. Lo si capisce meglio se lo si riferisce alla relazione madre-bambino: la madre riceve le proiezioni del bambino ed assegna loro il significato che quegli non è capace di assegnare (prima di riconsegnargliele, le trasforma in emozioni che il bambino, una volta bonificate,  può provare ) ma trattiene quanto il bambino non è in grado di tollerare. Questo atto costituisce l’antecedente della rimozione (Grotstein, 2007, pag. 209) e precostituisce a sua volta il ritorno del rimosso che avverrà al momento del costituirsi della posizione depressiva, quando le ansie persecutorie potranno essere almeno in parte riaccolte dal bambino per poter essere a loro volta elaborate a tempo debito anche in questa sede (la mente infantile) e contribuire quindi anch’esse allo sviluppo delle capacità di pensare.

Vorrei sottolineare che questa non è solo e non tanto la descrizione del funzionamento della coppia madre-bambino ma anche la descrizione della funzione contenitore-contenuto della mente normale, o meglio –sempre nella terminologia di Bion (1957)– della parte non psicotica della personalità. Quest’ultima utilizza  la rimozione così come la parte psicotica della personalità è legata all’uso della scissione massiva e della identificazione proiettiva evacuativa.

E’ naturalmente anche un modo per descrivere il funzionamento della coppia paziente-analista in cui quest’ultimo trattiene (rimuove) una parte dei contenuti espressi o più spesso proiettati dal paziente per tutto il tempo in cui questi risultino disorganizzanti e finchè non siano resi utilizzabili dal primo attraverso il lavoro analitico.

Si comprende quindi come, in questa versione, la rimozione diventi parte di quel va-e-vieni di contenuti mentali tra due menti o tra due parti di una sola mente che permette lo sviluppo della capacità di pensare e l’ampliarsi degli spazi della mente.

Se guardate bene, questo è ciò che oggi ci permette di prenderci cura nel nostro lavoro analitico di pazienti gravi, non-nevrotici, in cui tale funzione di rimozione (e di riacquisizione) non è possibile  o non è stata resa possibile. E’ l’analista in questo caso che trattiene (rimuove, in questo senso) quei contenuti mentali che il paziente esprime, evacuandoli, ma non può tollerare e che egli, l’analista, si guarderà bene dal restituire immediatamente attraverso l’interpretazione ma terrà in sé finche lo sviluppo ulteriore delle capacità mentali del paziente non permetterà di farli ritornare di dove son venuti per essere integrati ed utilizzati anch’essi per la crescita. Suppongo che sia anche questo il senso in cui Bion (1962a) afferma, discutendo gli elementi della psicoanalisi, che il controtransfert è frutto (evidence)  della rimozione.

Si potrebbe obbiettare che ciò è quanto avviene in una normale analisi, in cui l’analista trattiene per sé l’interpretazione dei contenuti comunicati dal paziente finchè questi non sia in grado di  accoglierli. La differenza a mio parere consiste nel fatto che il paziente normalmente nevrotico è normalmente in grado di utilizzare la rimozione e comunica contenuti ( e sintomi) che sono espressione della rimozione avvenuta mentre il paziente borderline o psicotico può non possedere questa funzione (non è stato in grado di rimuovere aspetti della propria vita mentale che proprio per questo assumono un carattere distruttivo del pensiero e devono pertanto essere evacuati) che sta dunque all’analista svolgere,  accogliendo e trattenendo tali elementi  finchè non possano essere riconsegnati al paziente per essere rimossi nell’ambito di una normale funzionalità e cooperazione dei due sistemi conscio ed inconscio. Credo ancora che questo intenda Bion quando afferma che il controtransfert così inteso (evidence of repression) deve essere differenziato dalla passione, come emozione che lega due menti.

Materiale clinico

(I due brevi resoconti che costituiscono il materiale clinico vengono qui omessi per ragioni di riservatezza).

Conclusioni

Non consiglierei a nessuno, e neppure a me stesso, di seguire normalmente strade di questo genere (alludo al resoconto n.2) nel corso dei nostri trattamenti, perché “muoversi” in questo modo in ambito analitico espone a molti rischi. Alle scorciatoie, in qualche modo “agite”, è sostanzialmente meglio preferire i tempi di attesa di una condotta più convenzionale (nel  caso specifico, accogliere i probabili timori di regressione della paziente e condurre l’analisi, finchè necessario,  vis à vis).

Ho ritenuto utile però proporvi questi due  brevi resoconti, che hanno in comune uno stesso aspetto fenomenologico (il rifiuto del lettino analitico) ma sulla base di dinamiche completamente differenti, per mettere in rilievo quanto ho precedentemente esposto ed il ruolo della rimozione nel costituire delle condizioni  -per così dire, preliminari- di pensabilità, assicurando una utile osmosi tra conscio ed inconscio e la possibilità  di sognare la propria esperienza mentale, come afferma Bion, di giorno come di notte. Ed in questo ambito anche la funzione dell’analista di assicurare una funzione rimuovente –per carità, solo molto di rado con azioni come quella descritta, più spesso con una utile sospensione dell’attività interpretativa relativamente a settori troppo immaturi dell’esperienza mentale dell’analizzando- quando questa è ancora da costituirsi nei nostri pazienti più gravi.

Bibliografia

Bion, W.R. (1957). Differentiation of the psychotic from the non-psychotic personalities. In : Second Thoughts. Selected Papers on Psychoanalysis. London : Heinemann, 1967

Bion, W.R.  (1962a). A theory of thinking. In: In : Second Thoughts. Selected Papers on Psychoanalysis. London : Heinemann, 1967

Bion, W.R.  (1962b). Learning from Experience. London: Heinemann (Ristampa: London, Karnac, 1984)

Freud S. (1887-1904). Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904. Torino: Bollati Boringhieri, 1986

Freud S. (1892-1895). Studi sull’isteria. In: O.S.F., 1.

Freud S. (1895). Progetto per una psicologia. In: O.S.F., 2.

Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. In. O.S.F., 7.

Freud S. (1915). La rimozione. In: O.S.F.,8.

Freud S. (1923). L’Io e l’Es. In: O.S.F., 9.

Freud S. (1925). Inibizione, sintomo, angoscia. In: O.S.F., ,10.

Green A., (2000). Le temps éclaté . Paris: Les  Editions de Minuit, 2000

Grotstein J.S. (2007). A Beam of  Intense Darkness. Wilfred Bion’s Legacy to Psychoanalysis. London: Karnac, 2007

Yehoshua A. B. (1998). Il potere terribile di una piccola colpa. Torino: Einaudi, 2000

Pontalis J.-P. (1967) Introduzione alla teoria freudiana della rimozione. Riv. Psicoanal. 2009, LV,2:375-392



[1] Vedi per questo, ad esempio, Yehoshua (2000).

[2] In un bel lavoro del 1967, ripubblicato di recente da  penser/réver  e tradotto lo scorso anno sulla Rivista di psicoanalisi  (2009).

[3] Non ho l’impressione che si possa dire lo stesso della dissociazione, che –nella sua primitiva accezione - Janet intende come “acquisita” e  che anche nei suoi sviluppi mantiene un carattere, per così dire di passività, ed è la conseguenza di qualcosa che proviene dall’esterno dell’apparato mentale e dello stesso organismo.

[4] Naturalmente ce ne sono altre: una delle principali è  il  relativo fallimento sul piano terapeutico del  primo modello di teoria della tecnica, quello sostanzialmente basato sul sogno e sulla sua interpretazione, cioè sul  passaggio puro e semplice da un’immagine visiva (quella sognata: rappresentazione di cosa) al racconto del sogno ed alla sua traduzione interpretativa (rappresentazione di parola). Il riferimento alla rappresentazione, in senso stretto, si era rivelato incapace di fornire le chiavi della patologia (Green, 2000).

[5] Esiste un salto descrittivo, se non un’apparente aporia logica, tra il saggio sulla rimozione (1915) che riassume la visione di Freud  fino a quel punto ed in cui la fonte della pulsione è rappresentata da un organo (mentre nell’Io sono contenute solo le rappresentazioni che vi corrispondono) e i lavori degli anni Venti (in particolare, Freud, 1923) in cui compaiono solo spinte pulsionali contenute nell’Es che, nell’ambito dell’apparato psichico, è in continuazione con la parte inconscia dell’Io. Il punto di passaggio è costituito probabilmente dal riconoscimento operato nell’ambito degli studi sul narcisismo che l’Io possa essere sede di pulsioni sessuali rivolte verso di sé (Freud, 1914).

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