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Riefolo G. - Ho trovato qualcosa di tuo. modi della Self Disclosure come enactment (2021)

“Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente”

(Freud, 1921)

 

Premessa.

Cercherò in questa nota di soffermarmi su una particolare e circoscritta modalità di processo di enactment, ovvero sulla dimensione intersoggettiva descritta come “Self-Disclosure”. Le sollecitazioni controtransferali e di identificazioni proiettiva che sono alla base dell’enactment sono ben note (Sandler, 1976; Jacob 1986; Boccara, Meterangelis, Riefolo, 2019; Leo, Riefolo, 2019). Alcuni autori hanno analizzato in modo esplicito la relazione fra Self-Disclosure ed enactment collegandole soprattutto alla comune radice del controtransfert (Shechter, 2002) dove potremmo sostenere che la SD attiene ad una decisione consapevole dell’analista, mentre l’Enactment, per definizione concerne una interazione non decisa e dell’ordine presimbolico che si verifica fra paziente ed analista nel campo analitico. È evidente, quindi, che la SD possa essere considerata una delle modalità di acting e, quindi, opportunità di processo di enactment[1].

Alla base di questa nota è un particolare momento di una seduta clinica su cui mi soffermo. In questa seduta, sollecitato da una potente pressione transferale del paziente di cui ero sufficientemente consapevole, mi sono trovato a decidere una Self-Disclosure che, rispetto alle mie modalità consuete di Self-expression, ho sentito essere particolarmente estrema.

I punti che cerco di evidenziare sono, sinteticamente i seguenti:

1.        SD come una delle possibili soluzioni del “Processo di Enactment”;

2.    La dinamica attraverso cui opera la SD, non si risolve solo sul generico valore creativo della partecipazione soggettiva dell’analista al processo analitico, ma si compie attraverso una precisa modalità strutturale del processo intersoggettivo: il paziente, a seguito di soluzioni dissociative, non è capace di riconoscersi la competenza per particolari posizioni affettive e, pertanto – come un bambino che impara dalla madre particolari posizioni affettive - ha bisogno della persona dell’analista per riconoscersi competente ad affetti sentiti inaccessibili. Nella SD l’analista propone al paziente di spostare il focus di osservazione del processo sulla persona dell’analista perché possa fare esperienza di ambiti affettivi preclusi traumaticamente e mai sperimentati prima. In alcuni passi dell’analisi, ogni tentativo di presentare al paziente cosa gli stia accadendo, anche usando il transfert, non ha alcun esito, mentre può avere un esito presentare al paziente come l’analista viva quella emozione e lasciare che il paziente proponga poi le sue associazioni.

Questa nota, pertanto, vuole essere una proposta di riflessione su punti che personalmente trovo ancora poco chiari soprattutto sul piano teorico. Prima della presentazione della fase clinica, che ovviamente considero centrale nella riflessione che propongo, ritengo siano necessarie alcune precisazioni di ordine teorico che per necessità proporrò in maniera sintetica rinviando eventualmente ad ulteriori specifiche trattazioni sui singoli punti che, da oltre trentanni, risultano particolarmente ampie ed approfondite per ciascun tema.

Self disclosure, Self- Expression, Self-Revelation

Il concetto di SD è inevitabilmente connesso a quello di controtransfert e di Enactment. È antica e ampia la parabola teorica che porta dal “problema tecnico” del controtransfert (Freud, 1911, 1912) fino al suo uso per una maggiore comprensione dell’inconscio del paziente (Racker, 1968). Il controtransfert con Racker, 1968, diviene un importante dispositivo per la sintonizzazione inconscia fra paziente ed analista con la possibilità che l’analista possa conoscere le sollecitazioni complementari o concordanti attivate dal paziente come descrizioni delle modalità di relazione simmetrica (complementare) o sintonica (concordante) che il paziente propone del proprio funzionamento inconscio[2]. Nelle attuali posizioni della psicoanalisi intersoggettiva il controtransfert lascia sempre più spazio alla partecipazione attiva dell’analista inevitabilmente coinvolto in una co-costruzione del processo analitico (Orange, Stolorow, Atwood, 1998; Orange, Stolorow, Atwood, 1998) fino alle posizioni di Renik (1995) per il quale non ha senso parlare di controtransfert essendo prevalente e centrale nella risposta dell’analista la propria soggettività rispetto alle sollecitazioni inconsce del paziente. Recentemente il tema del movimento transfert-controtransfert diventa sempre più complesso e si interseca proprio con ambiti che concernono l’enactment. Vi è, infatti “una crescente consapevolezza nella comunità psicoanalitica di come alcuni aspetti del controtransfert offrano un’opportunità di conoscenza emotiva diretta… e, in modo ancor più interessante possono… trasmettere molte informazioni relative ai loro schemi impliciti e dissociati” (Ginot, 2015, 119). Il concetto di “implicito” (Boston G. 2010) come le nuove concezioni dell’inconscio (Riefolo, 2019) che ne allargano gli ambiti soprattutto espandendo il campo dell’inconscio non-rimosso, ridimensionano comunque il concetto di controtransfert relegandolo nell’ambito “one person psychology” a differenza della CRI e degli enactment che dicono di una “two person psychology” (Aron, 1990; Boston G., 2010). Si mette l’accento sul “campo intersoggettivo” costituito dalle intersezioni delle Conoscenze Relazionali Implicite di terapeuta e paziente. Questo campo si estende al di là del campo del transfert- controtransfert per includere l’impegno personale autentico e il “modo di stare con” di ciascuna persona” (Boston, 2010, 27). In quanto impliciti alcuni schemi sono dissociati non nel senso di rimossi, ma nel senso di organizzati a livelli più regrediti di funzionamento: mantengono un funzionamento a livello implicito o “automatico” (Janet, 1889; Ginot, 2015). Nel campo analitico essi rimangono sospesi e in attesa di qualche evento che faccia procedere il sistema in senso di maggiore complessità.

Per quanto concerne in modo specifico la dimensione di SD, da oltre 30 anni, è tramontata la visione dell’analista “schermo opaco” essendo “indubbio, ovviamente, che l’assoluto anonimato dell’analista sia un mito” (Rosembaum, 1997,). Jay Greenberg (1991) suggerisce una posizione intermedia, a mio parere più complessa e dinamica, proponendo la neutralità come “una oscillazione continua nel paziente dell’esperienza di un analista come presenza sicura e al tempo stesso, pericolosa” (p.217). Il tema del disvelamento soggettivo dell’analista, parallelamente alle posizioni soprattutto intersoggettive della psicoanalisi, ha assunto sempre più importanza nel processo analitico[3] inevitabilmente introducendo una diversa sensibilità dell’analista che sostiene una posizione terapeutica basata sul processo, piuttosto che sul contenuto (Slavin, Kriegman, 1998, 278; Bromberg, 2006, 141). Un primo problema non solo di tecnica, ma anche di ordine etico, ovviamente concerne “le precauzioni generali riguardo la SD al fine di assicurarsi che l’esperienza del paziente rimanga centrale e che il coinvolgimento dell’analista non diventi eccessivo e, quindi, traumatico per il paziente” (Lehrer, 1994, 511). Si pone molto presto il tema di differenziare vari livelli di SD. Una prima differenza e stata posta fra Self- Expression (Teicholz, 2001) Self- Revelation e SD.     

Per quanto concerne la Self-Expression, una prima posizione è sostenuta da Hoffman (1992) il quale suggerisce la posizione di “parlare al paziente in una modalità più liberamente self-expressive. Ciò sarebbe in contrasto con modalità più impersonali” (p.301)). Ad esempio l’analista potrebbe intervenire congratulandosi col paziente, invece di dire “lei dovrebbe essere molto orgoglioso di sé”. In una modalità che ritengo intermedia fra self-expression, SD ed enactment, sempre Hoffman suggerisce l’importanza di accettare di discutere col paziente aspetti conflittuali ed eventuali dubbi relativi ad alcune interazioni accadute nel percorso analitico. Tali scambi espliciti “spesso aiutano i pazienti, in particolari fasi, ad entrare in una esplorazione collaborativa di vari pattern relazionali…, sia agiti che potenziali” (p.300). Un tentativo di definire possibili differenze fra Self-Expression e SD “in contrasto con l’attribuzione troppo estensiva dei termini di soggettività e intersoggettività” (Teicholz, 2001, 10) viene proposta da Judith Guss Teicholz: “Self-expression concerne la comunicazione affettiva spontanea dell’analista, nel qui-ed-ora della situazione analitica, sia verbale che non verbale; essa comporta alcune manifestazioni dirette – pensieri, parole, sonorità vocali, espressioni facciali, cambiamenti posturali o gestuali – di calore, interesse, umore, gioia, sorpresa, tristezza, disgusto, rabbia ed altri stati affettivi complessi. Poiché la sintonizzazione e la risonanza coinvolgono gli affetti dell’analista quanto quelli del paziente, anche queste modalità interattive possono essere viste come modalità di self-expression dell’analista e, comunque contenute, esse possono essere dovute al desiderio dell’analista di “incontrare” il paziente. Il termine SD riguarda la comunicazione da parte dell’analista di informazioni al paziente sia all’interno che all’esterno della relazione terapeutica. Nella misura in cui la SD può anche includere una maggiore o minore componente affettiva, essa può comportare vari livelli di self-espression. Sia la self-expression che la SD possono essere comunicazioni inattese o intenzionali da parte dell’analista” (p.10-11).

Una differenziazione fra Self-revelation e SD viene proposta da Levenson (1996): “Self-revelation e SD comportano alcune differenze. To reveal significa permettere che sia conosciuto ciò che fino ad ora era nascosto (un atto passivo). To expose significa rendere pubblico qualcosa di riprovevole… e to disclose significa mettere in atto (to act), rendere noto un evento che è stato considerato ma, per valide ragioni, è stato tenuto nascosto (coperto)…. Self-revelation (scoprimento) sarebbe riferito a quegli aspetti del terapeuta che sono inavvertitamente o deliberatamente permessi essere conosciuti dal paziente. SD sarebbe quando il terapeuta decide di mostrarli (o raccontarli) al paziente” (Levenson, 1996, 238).

Fra le posizioni più recenti rispetto alla SD a cui faccio riferimento, propongo la posizione di Bromberg (2006) che propone la SD non come una opzione, ma come una posizione etica, potremmo dire, un dovere clinico, dell’analista chiamato a restituire al paziente ciò che il paziente nella relazione con l’analista, attraverso ricomposizioni dissociative sia difensive che creative, ha potuto realizzare come configurazioni nuove, mai esistite prima, della propria esperienza[4]. L’analista, secondo Bromberg è chiamato a co-costruire con il paziente nuove configurazioni di esperienze che emergono da connessioni di Stati Multipli del Sé che la relazione analitica – soprattutto attraverso enactment – rende possibili. Infine, per quanto concerne il delicato aspetto dei livelli etici della SD, Bromberg, a mio parere, ha le idee molto chiare: “la SD è un’intrusione solo se il modello analitico è quello del voler cambiare il paziente, altrimenti è la condivisione della propria esperienza per la negoziazione intersoggettiva (2006, 139).

E. Ginot (2015) ribadendo una posizione di Aron (1996) che sottolinea l’importanza che “la relazione terapeutica sia paritetica, ma asimmetrica”, propone come, nel rischio di possibili ritraumatizzazioni che possono accadere nel percorso terapeutico, la self-disclosure e l’enactment siano il superamento riflessivo della ritraumatizzazione. Tali ritraumatizzazioni si ripresentano nel campo analitico, prima che come riproposizioni transferali, come riattualizzazioni di schemi relazionali automatici (inconsci) comunque attivi, organizzati secondo le CRI. La partecipazione affettiva e di reciprocità (Benjamin, 2017) dell’analista è necessaria perché il paziente possa conoscere una diversa modalità di poter sperimentare – questa volta in modo possibile, doloroso, ma non traumatico - esperienze altrimenti congelate ed inaccessibili alla riflessione. Infatti: l’analista “nonostante i suoi timori rivelò al paziente la propria esitazione e lo invitò a riflettere su ciò che questa potesse significare. Dopo qualche tempo, affrontando apertamente gli effetti che potevano avere l’uno sull’altro, il paziente, ora emotivamente coinvolto, iniziò pian piano a essere curioso rispetto al proprio dolore dissociato, ai traumi passati, alle difese inevitabilmente messe in atto contro di essi. Il terapeuta, d’altra parte, imparò molte cose su se stesso” (Ginot, 2015, 212).

Jessica Benjamin, recentemente propone la SD in modo più allargato riferendola alla posizione di riconoscimento attivo e coraggioso da parte dell’analista di “accettazione dell’incertezza, dell’umiltà e della compassione, che costituiscono la base di una visione democratica ed egualitaria del processo psicoanalitico” (p.58) ovvero di una posizione centrale del processo analitico che definisce “terzo morale”. Ha perplessità sul concetto di SD “un concetto che si è sviluppato in modo reattivo per contrastare le teorie sull’anonimato” (id.). Personalmente non penso ci sia niente di reattivo, ma ritengo che la SD sia nella linea della posizione che vede la soggettività dell’analista come un fattore inalienabile del processo analitico. Ritengo importante una posizione della Benjamin rispetto all’uso della SD: “gran parte di ciò che viene frainteso come disclosure è più da considerare propriamente in termini della sua funzione, ossia riconoscere il contributo dell’analista (generalmente percepito dal paziente) al processo intersoggettivo, favorendo così un sistema diadico basato sull’assunzione di responsabilità, piuttosto che sulla sua rinnegazione o elusione sotto la parvenza della neutralità” (Id.)[5].

Acting, processo di Enactment e Self-Disclosure.

L’Enactment per definizione, prende origine dagli acting di analista e paziente ed è considerato come “episodio relazionale, a reciproca induzione che si evidenzia attraverso il comportamento” (Filippini, Ponsi, 1993, 513)[6]. Personalmente riconosco che l’enactment rappresenti una posizione e una competenza specifica dell’analista nel momento in cui riesce a riflettere e a leggere gli acting propri e del paziente come contributo inconscio al processo analitico. La posizione di enactment coglie le potenzialità processuali fertili implicite nell’acting rappresentando l’azione all’interno di un processo continuo dove l’acting-out è uno dei tanti tasselli relazionali da cui prende avvio un processo più ampio che definisco “Processo di Enactment[7].

Per “Processo di enactment”, quindi, considero la dimensione che coinvolge paziente ed analista nella collisione delle reciproche soggettività (Bromberg, 2006; Mitchell, 1988) che si realizzano all’interno delle rispettive “Conoscenze Relazionali Implicite”, finché l’analista non riesce a recuperare una posizione terza e, attraverso una interpretazione, a produrre una sintesi di quanto sta accadendo nel campo relazionale. Pertanto, proporrei di parlare di acting-out e di Processo di Enactment ponendoli in continuità dinamica. Nella misura in cui un acting-out non determina perturbazioni del campo, rimane un agito e non si determina alcuna “messa in scena” dell’agito, ma semplicemente una frattura o indifferenza del campo.

Un altro punto che vorrei sottolineare è che, probabilmente a seguito delle classiche concezioni psicoanalitiche sull’azione, l’enactment viene considerato un livello regredito di relazione che, si auspica, dovrebbe prima o poi evolvere verso un livello più simbolizzato di comunicazione. Lo si accetta come “una dimensione costante di tutti gli eventi del trattamento” (Renik, 2006, 89) sostenendosi sul dato di fatto che “essendo gli analisti fallibili, gli enactment sono destinati a verificarsi” (ivi, p. 88). Non concordo pienamente con questa posizione che, alla fine, risulta comunque di “accettazione necessaria” dell’enactment, mentre proporrei l’enactment come un registro comunicativo, necessario, parallelo, e specifico, della comunicazione dell’analista con il suo paziente che sostiene i livelli di particolare intimità della relazione. Il problema, a mio parere, non è se gli enactment siano dovuti a fallimenti o ad errori: questo è il dispositivo attraverso cui si verificano, ma non ne è l’essenza. Invece l’essenza dell’enactment è, a mio parere, di rappresentare un’ulteriore dimensione della relazione. Essa esiste sempre e, in relazione al modello adottato, può essere utilizzata, contrastata o ignorata. È la dimensione agita e concreta della relazione e questa non esiste solo perché fallisce la dimensione simbolica o verbale, ma esiste sempre come altro livello di comunicazione. Potremmo dire che senza la dimensione dell’enactment la relazione non sarebbe più perfetta, ma più povera ed asettica. La dimensione in cui si verificano gli enactment dice delle caratteristiche soggettive ed umane dell’analista.

La self-disclosure, quando è utile, sostanzialmente deve comunicare questo, mentre non serve o potrebbe anche essere violenta se descrive il funzionamento di un soggetto separato da un altro. Voglio suggerire come il campo analitico sia infinitamente, e inevitabilmente, denso di posizioni soggettive dell’analista che il paziente contatta nella sua comunicazione che solo in minima parte è verbale[8]. Il problema che l’analista si trova immediatamente ad affrontare non è, a mio parere, quale modello implicito o esplicito adottare, ma quanta complessità riesca a tollerare e sia capace di usare. Ritengo che, alla fine, i modelli teorici si differenzino soprattutto in relazione alla complessità intrinseca che riescono a contenere e a permettere. L’enactment è un processo mentale che, al pari di altri dispositivi (funzione alfa di Bion; Processo Referenziale di Bucci; Mentalizzazione secondo Modell o secondo Fonagy, Dissociazione secondo Bromberg, ecc) continuamente trasforma fatti concreti in rappresentazioni mentali interattive. Non si tratta di un incidente, ma di un dispositivo di strutturazione mentale che potrà essere utilizzato dai vari modelli della psicoanalisi, ovviamente, relazionale.

L’agito controtransferale che, a mio parere, è alla base della SD che attiva il processo di enactment (Shechter, 2002) occorre riconoscerlo, di solito dopo che ha avuto luogo. Si tratta di riflettere in modo approfondito sui differenti motivi della partecipazione di entrambi, dare un senso alla sua rappresentazione sulla scena analitica ed avere la stessa onestà intellettuale che è richiesta al paziente per svilupparne consapevolezza ed eventualmente scegliere di esprimere la self disclosure minima necessaria per ristabilire la funzione analitica (Monari, 2019, 41). In questa linea, ritengo che una discreta SD dell’analista, concordante e sintonica con le tensioni inconsce del paziente, riconosciuta attraverso la capacità dell’analista di usare la propria partecipazione soggettiva come processo di enactment sia utile al processo analitico (e quindi per la vita del paziente).

Proposta.

Propongo un passaggio significativo di una seduta in un trattamento analitico “a bassa frequenza”. L’importanza di questa seduta è che per la prima volta mi sono trovato ad espormi molto personalmente con una paziente. C’ho riflettuto molto anche perché la risposta della paziente è sicuramente positiva non solo nel contenuto, ma soprattutto nel suo contributo a mantenere una processualità creativa.

Teresa

ha circa 62 anni.

(………CASO……………..)

Considerazioni.

Ritengo che la sequenza proposta si articoli su tre livelli progressivi dove la SD permette il superamento di una grave posizione di impasse che nella seduta, anche attraverso la collusione dell’analista, si proponeva come ritraumatizzante. Per larga parte della seduta l’analista cerca di salvarsi dalla condizione di Identificazione proiettiva di impotenza, attraverso l’evitamento rassicurante che, di fatto, gli impedisce di vedere ciò che accade alla paziente. Ad un certo punto la paziente introduce due vertici di osservazione – l’amica e se come Madre – incapaci di cogliere il dolore in un figlio. L’analista in un primo tempo cerca di sottolineare uno stato affettivo concordante tra un genitore e un figlio, ma la paziente risponde comunque riproponendo la dissociazione antica che dice dell’evitamento difensivo, ma anche della inaccessibilità ad uno stato affettivo probabilmente mai sperimentato prima.

A questo punto, sollecitato dall’Identificazione Proiettiva della paziente, l’analista decide di proporre una SD. Il senso di questa operazione è che l’analista non chiede più alla paziente di “occuparsi di un figlio distante” ma, recuperando inconsciamente esperienze della propria vita, si presenta alla paziente come “il figlio presente”. La risposta associativa della paziente è nella linea di riconoscere finalmente l’esistenza e la possibilità di riapertura di un dialogo fra un genitore e un figlio, riconoscendo anche la garanzia della situazione analitica che, a differenza “del professore di Storia” lei, questa volta, sente di avere.

Propongo di riflettere su una ipotesi che con Benjamin (2017) potremmo chiamare di “funzione” prima che di contenuto. La proposta che avanzo e che la Self-Disclosure non abbia senso solo perché, come abbiamo visto dalle considerazioni riportate sopra, introduce ed usi la soggettività dell’analista, ma soprattutto perché – come cerco di evidenziare in questo caso - sposta il fuoco di osservazione di entrambi sul soggetto dell’analista: il paziente propone il blocco perché cerca in Sé una esperienza che non possiede (non ha mai sperimentato o mai formulato) e, quindi ribadisce all’infinito la propria sterilità e impotenza soprattutto sul piano transferale. Nella Self-Disclosure che le propongo, io, prima che parlarle “di me”, le propongo di spostare su di me il fuoco del suo racconto ed entrambi cogliamo come su di me quella emozione che lei non ha mai sperimentato, si realizza nello scambio intersoggettivo e reciproco della seduta. L’analista non è solo chi sa interpretare, ma ha buone possibilità per costruire su di sé quella emozione.

Il tema pone una serie di quesiti “spinosi”: la mia comunicazione al paziente è sicuramente un acting e può risultare intrusiva se esclusa da un processo di enactment[9]. Inoltre, bisogna riconoscerlo, inevitabilmente si ripropone anche la tesi sempre elusa dalla teorizzazione psicoanalitica dell’ “analisi emotivo-correttiva”.

Nella linea della Benjamin possiamo considerare la mia SD alla paziente come un Terzo Morale che si basa sul fatto che “il paziente…dovrebbe sentirsi sollevato e sapere che l’analista è in grado di contenere la conoscenza delle proprie debolezze, e quindi abbastanza forte da scusarsi e riconoscere la propria responsabilità” (p. 60). Parallelamente la mia presentazione alla paziente usa i canoni della self-expression in quanto viene portata secondo uno stile linguistico e comunicativo in cui l’analista non evita, deliberatamente, modalità espressive molto personali[10]. In questo caso l’analista sente di potersi mostrare capace di conoscere il proprio funzionamento affettivo laddove il paziente ha compiuto una netta dissociazione. La dissociazione viene portata in seduta e riproposta nel transfert attivando una posizione controtransferale e di Identificazione Proiettiva di impotenza e, simultaneamente, una sollecitazione a mettere in atto soluzioni reattive all’impotenza. Confesso che, durante la seduta, mi erano sufficientemente chiare le sollecitazioni transferali della paziente e lo stato di pressione all’acting controtransferale cui ero esposto. La scelta di SD, per quanto io potessi saperne in quel momento, è stata una mia scelta deliberata che mi ha sollevato dalla posizione di impotenza che rischiavo di sostenere e persino alimentare – come in altre sedute – in modo reattivo verso questa paziente. La scelta di SD mi ha permesso di superare una posizione di simmetrica aggressività controtransferale verso la paziente che altre volte non era stata affatto compresa oppure risolta, ad esempio, in parte con la prescrizione farmacologica dell’antidepressivo. Devo riconoscere, inoltre che mi ha dato la possibilità di poter rappresentare (sanare?) aspetti di tenerezza verso mie figure ed esperienze genitoriali sicuramente sospese e non risolte nella mia analisi personale. Probabilmente, il fine della mia SD è di introdurre la possibilità di un Terzo Morale (Benjamin, 2017) in cui mi assumo la responsabilità, proposta come gioiosa, di un funzionamento che il paziente riporta in seduta in modo dissociato e che io, nella mia responsabilità di analista, riconosco possibile e gioioso in me. Non mi nascondo che – a certi livelli - la mia SD, possa anche avere una funzione di trionfo simmetrico sull’impotenza del paziente, ma ho deciso deliberatamente e con molta fatica la SD nel tentativo di condividere con la paziente una posizione affettiva di cui lei, fino a quel momento, nella sua vita si è resa incapace dissociativamente (in parte, quella condizione, evidentemente, riguarda anche la mia vita).

Infine, ovviamente, non si può evitare di chiedersi se non ci possa essere una modalità ‘più analitica’, ovvero più rispettosa della possibile neutralità, di comunicare la stessa emozione provata dall’analista evitando la SD, ma concordo con Bromberg (2006) che, quando rispettosa, la SD è un dovere etico dell’analista il quale restituisce al paziente qualcosa di suo. L’esito del percorso della seduta sembra dare ragione alla funzione della SD e dell’enactment dell’analista. Ovviamente non ci possono essere controprove rispetto al processo e all’esito. Per ora conviene riflettere.

“la self disclosure non è una questione di tecnica, ma di relazione”

(Bromberg, 2006, 157)

 

 

Relazione presentata al Centro di Psicoanalisi Romano in occasione della Giornata “Chi sei tu? La soggettività dell’analista e la sua partecipazione alla relazione analitica” (27 febbraio 2021)

 

 

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Slavin M.O., Kriegman D. (1998). Why the analyst needs to change: toward a theoru of conflict, negotiation and mutual influence in therapeutic process, Psychoanal. Dialogues, 8, 247-284.

Teicholz, J.G. (2001). (Chapter 2) The Many Meanings of Intersubjectivity and Their Implications for Analyst Self-Expression and Self-Disclosure. Progr. Self Psychol., 17:9-42.

Van der Kolk B. (2014). Il corpo accusa il colpo, Cortina, Milano, 2015.

Weiss E. (1970). Freud come consulente, Astrolabio, Roma 1970.

Winnicott D.W. (1949). Hate in the countertransference. Int. J. Psycho-Anal., 30, 69-75.



[1] Nel lavoro presentato nel volume “Enactment. Parola e azione in psicoanalisi” (2019) propongo gli acting-out come fatti concreti che possono verificarsi nella relazione analitica, sia da parte del paziente che dell’analista. Ma è solo la responsabilità e la posizione interpretante dell’analista a poter rendere enactment gli acting che, se non colti nella loro dimensione comunicativa inconscia, possono altrimenti rimanere concreti e quindi essere considerati come resistenza al processo analitico.

[2] Recentemente queste modalità di controtransfert sono state riprese per definire particolari modalità di enactment definiti, infatti, come concordanti o complementari (Benjamin, 2017)

[3] Uno dei primi lavori sul tema, in modo esplicito, sembrerebbe essere quello di Makman (1980).

[4] “…le pressioni che un paziente esercita nel costringere l’analista a rinunciare al suo diritto alla privacy sono determinate non semplicemente dal bisogno di conoscere l’analista, ma da un desiderio di conoscere ciò che l’analista conosce del paziente, ma che ha dissociato” (Bromberg, 2006, 153).

[5] “Durante una seduta analitica, mentre giaceva sul divano, senza vedermi, cominciò a raccontarmi un sogno. Improvvisamente si interruppe e quando gli chiesi di continuare, mi rispose: “Seguiterò a raccontarle il mio sogno quando lei smetterà di pensare al suo paziente precedente.” Effettivamente il sogno di questo paziente mi aveva ricordato un episodio della vita dell’altro e il giovane pareva aver captato telepaticamente il mio pensiero” (Weiss, 1970, 64). Weiss aveva parlato di un altro paziente a Freud che poi gli ha ricordato questo che lui (ed anche Freud) descrivono come “geloso per l’attenzione dei genitori verso gli altri fratelli”. Sta di fatto che non sappiamo cosa Weiss abbia risposto al paziente, ma possiamo immaginare vere e proprie SD di Weiss verso il precedente paziente (quello riportato più volte a Freud e risolto positivamente). Infatti Weiss dichiara con estrema semplicità: “Non mentivo quando gli dicevo che non gli preferivo altri pazienti” (p.63).

[6] “L’enactment in psicoanalisi è un processo dissociativo diadico attraverso il quale gli schemi emotivi del paziente derivati dal trauma si rendono noti e potenzialmente disponibili alla coscienza” (Bromberg, 2006, 143).

[7] “l’enactment non è solo un’azione o un avvenimento, ma un processo intersoggettivo [...] una forma specifica di relazionalità in cui ogni soggetto è negato dall’altro in modo tale da diventare, attraverso l’altro, un soggetto terzo in un processo di riconoscere ed essere riconosciuto” (Bohleber et al., 2013, 147).

[8] “[…] bisogno di cura, disapprovazione e indifferenza, sono, in larga misura veicolati dall’espressione del viso, dal tono della voce e dai movimenti fisici. Secondo ricerche recenti fino al 90% della comunicazione umana attiene al livello non verbale” (Van der Kolk, 2014, 341). “La comunicazione è un’abilità prelinguistica presente sin dalla nascita. Le forme verbali di comunicazione e intersoggettività si basano sulle forme preverbali […] questi processi sono rapidi, impercettibili, co-costruiti e generalmente inconsapevoli [..] la terapia esplica la sua azione essenzialmente in questa modalità implicita e procedurale che, anche se non può essere espressa verbalmente, nondimeno influenza profondamente il corso del trattamento” (Beebe, Lachman, 2014, 6-7).

[9] “l’uso della Self Disclosure come tecnica analitica standard promuoverà enactment in fantasie piuttosto che la loro risoluzione” (Rosembaum, 1997, 158).

[10] Peraltro devo riconoscere che questa modalità self-expressive caratterizza da sempre la mia modalità di comunicazione col paziente nella stanza di analisi e nelle relazioni con i pazienti in genere anche nel contesto dei servizi territoriali. Semmai dovrei chiedermi perché io mi trovi particolarmente a mio agio in queste modalità espressive che, sento, mi permettono una implicita partecipazione empatica verso il paziente.

Vedi anche

Chi sei tu? La soggettività dell’analista e la sua partecipazione alla relazione analitica (27 febbraio, 2021). Report di Francesca Selloni

 

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