Martedì, Aprile 23, 2024

Giovanni Meterangelis, Fusionalità e svolta relazionale. 2021

In un precedente lavoro, sul rapporto fra Psicoanalisi Relazionale e Psicoanalisi Freudiana in Italia (Moccia, Meterangelis, 2011), avevamo già sottolineato come. a nostro parere, gli scritti presenti nel Volume Fusionalità, fossero a buon diritto, da considerare all’interno di quell’area della Psicoanalisi internazionale che è stata definita Psicoanalisi Relazionale. Il Volume Fusionalità fu pubblicato nel 1990, ma i lavori, come ci dicono gli Autori nella presentazione, seguono la scansione dei Congressi SPI tenuti dal 1980 al 1988. Questa precisazione mi sembra importante perché in quegli stessi anni vengono pubblicati due libri: Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica di Greenberg e Mitchell (1983) e il Mondo interpersonale del bambino di Daniel Stern (1985).Nel primo di questi viene utilizzato, per la prima volta,  il termine Relazionale ad indicare la presenza di un nuovo paradigma in alcuni approcci psicoanalitici sostanzialmente relazionali, nel secondo viene sottolineato che il bambino alla nascita presenta già delle competenze ed entra da subito in uno scambio relazionale con gli accudenti. Qualcosa di molto simile viene teorizzato negli scritti sulla Fusionalità e, cioè, che da un punto di vista evolutivo, è presente una fase del funzionamento mentale antecedente la posizione schizoparanoidea teorizzata dalla Klein, nella quale lo sviluppo ed il mantenimento del sé avviene attraverso una condizione in cui il sé ed i suoi oggetti si trovano in un seppur parziale stato di fusione, fase nella quale il bambino  non è immerso in uno stato indifferenziato e non è imbrigliato nelle sue pulsioni. Inoltre viene affermato il primato motivazionale dell’affetto su quello pulsionale così come, in quegli anni, la ricerca sulla infanzia andava riscontrando.  Nell’Introduzione al volume gli Autori, facendo un’analisi della scarsa letteratura sull’argomento fusionalità, riconoscono all’interno di questa la presenza di forme ed aspetti del concetto nettamente distinguibili e diverse fra di loro. Esiste, altresì, ci dicono un comune denominatore, che può essere riconosciuto in una pressante richiesta, da parte del soggetto, di contenimento. Oltre a questo ci danno una definizione di fusionalità molto più dettagliata: ”Si deve inoltre sottolineare che come esiste un senso di attrazione nell’acquistare autonomia così è presente il sempre vivo desiderio della ritrovata fusionalità “essere tutt’uno con la madre”. Stato questo capace di elargire esperienze di estremo benessere e senso di realizzazione”, Concezione questa non molto dissimile da quella verificata sperimentalmente da L. Sander (1980) (cit. da Bordi 1997) nel suo studio di “monitoraggio continuo della culla” nel quale osserva le attività del neonato quando è unito alla madre e quelle di quando è separato da lei, con i rapporti tra i momenti di dualità e quelli di singolarità. Durante questa fase il bambino è in contatto sia con il fuori che con il dentro di sé. Osservazione fatta anche da Emde (1990, citato da Bonfiglio) che concorda sul fatto che “transitorie identificazioni che possono presentarsi in momenti di empatia richiedono un temporaneo senso di unità con l’altro, seguito da un senso di separatezza per poter risultare utili”.     Da un punto di vista clinico, nei vari lavori, ci viene posta all’attenzione una visione più flessibile della tecnica analitica ed una concezione della relazione paziente-analista simile a quella fra bambino e genitore. Le carenze ambientali nelle fasi precoci dello sviluppo sono ritenute largamente responsabili della patologia e dell’attivazione altrettanto precoce di transfert fusionali.  Gli eventi traumatici interferiscono con la fisiologica strutturazione della soggettivazione andando ad influenzare le due configurazioni principali che caratterizzano lo sviluppo della vita psichica e di relazione. La prima è finalizzata alla costruzione di legami con l’altro nei quali poter esprimere condivisione e riconoscimento, fondamento questo della intersoggettività, la seconda è quella che va alla costruzione di legami narcisistici, o come direbbe Kohut ad oggetto-sé, nei quali l’altro perde la sua individualità diventando un oggetto svolgente funzioni per il sé.   Le rotture del legame fusionale con l’analista, quindi, sono comprese come una ripetizione di quegli originari fallimenti evolutivi dell’ambiente primario e ritenute ampiamente responsabili dell’aggressività e distruttività del paziente. Il bisogno di fusione, nel quale l’alterità viene meno, è visto in rapporto dialettico con il desiderio, altrettanto vitale, di evolvere lungo il percorso di separazione-individuazione, che porta a costituirsi come soggetti in grado di sviluppare relazioni di riconoscimento reciproco, costruzione che pone ancor più la teoria della fusionalità all’interno di una prospettiva relazionale. Queste letture teorico cliniche portarono il gruppo a convergere, in parte, soprattutto negli ultimi scritti con le posizioni di Kohut, in quegli anni in via di completa definizione, sulla funzione evolutiva del narcisismo e sul conseguente bisogno di oggetti-sé.        

I casi clinici presentati nei vari lavori, al di là della loro specifica sintomatologia, presentano aspetti comuni caratterizzati, prevalentemente, da sentimenti ed azioni impulsive e distruttive, e da una struttura di personalità dominata da una tendenza a richiedere all’altro riconoscimenti a loro bisogni affettivi ed, al contempo, a presentare un timore terrorizzante dell’intrusività e della manipolazione. Questa modalità relazionale li spinge al rifiuto o al ritiro dalle stesse relazioni, e, il più delle volte, se sono in terapia alla rottura del trattamento.

Dell’altro sistema di memoria, quello meno arcaico, grazie ai contributi fornitici dall’infant research e dalle neuroscienze, siamo ora in grado, più che nel passato, di formulare ipotesi attendibili sul rapporto esistente fra questo e la formazione delle   rappresentazioni o narrazioni sul sé, e sulle abilità che il bambino ha di andare verso una loro complessa costruzione. Poiché i moduli della memoria non si sviluppano simultaneamente ma in modo sequenziale, dai zero mesi ai tre anni di vita, avremo prima la formazione della memoria implicita ed in seguito lo sviluppo delle memorie episodica e semantica, memorie queste che non sono totalmente confinate al periodo della assenza della capacità riflessiva, e pertanto con l’uso del linguaggio diventano verbali. Se le esperienze traumatiche sono vissute quando queste due forme di memorie sono già sviluppate o in fase di sviluppo, determineranno oltre che un disaccoppiamento della coscienza anche la costruzione   di narrazioni del sé che avranno la funzione di dare un senso a quelle stesse esperienze. Queste narrazioni, quindi, sono registrate in memorie più precoci rispetto a quella autobiografica e trarranno la loro radice emotiva dalla qualità di queste esperienze ed, inoltre, in considerazione della loro plasticità potranno subire processi di trasformazione e riorganizzazione anche grazie al continuo e mutevole evolversi di negoziazioni all’interno della relazione sé-altro. Quindi  il sé del bambino, già a tre quattro mesi, é in grado di fare esperienze sia di natura evolutiva che traumatica. Queste ultime, se ripetute,  si andranno ad inscrivere non sottoforma di eventi, ma sottoforma di una “conoscenza”  di caratteristiche negative del sé: una “forma di narrazione abortita non costituita di episodi di una storia personale ma, piuttosto, di “fatti” che la persona deve imparare a proposito di Sé” (Mears 2000).Non si deve dimenticare che il bambino in questa fase ha una limitata capacità di dare un senso o un significato agli stati emotivi che sperimenta, non è in grado, ad esempio, di identificare nel genitore la fonte del traumatismo. Pertanto ciò che accade è che sposta su di sé l’origine degli eventi dolorosi attribuendosene la responsabilità. Il genitore che è la fonte di questa disregolazione non può portare aiuto e conforto, tutto questo porta a sviluppare narrazioni caratterizzate da frammentazione (Bromberg 2006).   In conseguenza di ciò, il bambino, trae conclusioni distorte sul proprio valore, rimanendo, di solito, inconsapevole dell’origine di queste attribuzioni negative. Queste si presentano come: ”non aver diritto ad una esistenza, fatto di feci, urina, gettato nella spazzatura, un mostro”(Pallier). Le narrazioni sul sé non le ritroviamo solo nei sogni ma possono in particolari circostanze essere coscienti e verbalizzate, comprendendo al loro interno, nel tentativo di organizzare l’esperienza, tracce di ricordi autobiografici, che comunque   rimangono al di fuori della portata della influenza riparatrice dell’autoconsapevolezza riflessiva.

Le narrazioni negative ed intollerabili sul sé, e sul sé e l’altro, formate in questa fase dello sviluppo evolutivo all’interno di uno stato affettivo inconscio, verranno difensivamente dissociate e collocate in un inconscio non dinamicamente rimosso. Pertanto queste narrazioni possono attivarsi automaticamente e presentarsi inaspettatamente alla coscienza, di solito a causa di esperienze attuali anche di natura sensoriale, senza che né lo stimolo che le ha attivate né il ricordo venga identificato dal soggetto. Nella situazione clinica si possono attivare all’interno della relazione analitica quando questa presenta per il paziente aspetti di disregolazione, che hanno, in qualche modo, una assonanza con il trauma originario. In queste situazioni tali narrazioni rappresentano l’unica memoria ed esperienza che viene percepita come vera.

Nel lavoro su “ Il bambino mostruoso come minaccia  dell’integrità del Sé”, che ha stimolato sin dalla sua pubblicazione il mio interesse clinico per la gestione di queste rappresentazioni inconsce dell’esperienza traumatica, ed in ultima analisi questo mio contributo, la Dottoressa Pallier, molto chiaramente ci dice che una delle paure nucleari di questi pazienti è il timore del rifiuto di fronte alla presentazione della mostruosità e, quindi, il timore della riproposizione del traumatismo originario.  Inoltre ci elenca, anche, i diversi modi con cui la mostruosità, che si intuisce, per l’Autrice, essere, invece, rimossa, viene proiettata, presentandosi attraverso: “lesioni fisiche che si manifestano in coincidenza con situazioni vissute come fallimento dell’autostima, il corpo come localizzazione del mostro, l’aborto, scelte lavorative nell’ambito della gestione degli handicappati o l’assunzione di identità degradate quale il barbone, l’obeso, lo sporco, antipatico, brutto o il bimbo orfano dickensiano”.  

L’osservazione clinica porta a pensare che queste rappresentazioni intollerabili, riescano a superare la difesa dissociativa, tutte le volte che una intensa paura insorge per quelle che vengono percepite come minacce alla vulnerabilità del sé. Può essere considerata minaccia anche l’indagine analitica che prende in considerazione aspetti inconsci che sono il prodotto di esperienze traumatiche profondamente difese.  Brandchaft B. (1993), paragona le narrazioni negative del sé ad un sistema maligno che si attiverebbe non solo come risultato della paura, ma anche quando, come conseguenza del lavoro analitico, si sperimentano sentimenti positivi, sia nelle esperienze di vita che nella relazione analitica. Le narrazioni negative hanno lo scopo di boicottare qualsiasi tentativo di un possibile cambiamento. Il paziente percepisce di essere vittima di forze esterne, che non possono essere controllate che si muovono promuovendo conflitti irrisolvibili e fedeltà alle figure interiorizzate di attaccamento. Questo sistema maligno è sempre per Brandchaft dissociato rispetto alla coscienza ordinaria. Quando quest’area traumatica si presenta impedisce al normale flusso di coscienza di scorrere senza interruzioni e sconvolgimenti impedendo di recuperare le esperienze del passato, quindi, queste, vissute nel qui ed ora come disturbanti vengono collocate nel presente ma in maniera dissociata. Tali trasformazioni del flusso di coscienza sono evincibili attraverso modificazioni emotive, comportamentali o linguistiche che prefigurano il sopraggiungere o l’insediamento dello stato di coscienza traumatico.

La percezione di un imminente cambiamento e la conseguente paura, che si affaccia come conseguenza di un avvicinamento da parte dell’analista alla comprensione, attraverso il transfert, di aspetti inconsci, è stata oggetto di interesse da parte della psicoanalisi sin da quando Freud “Nell’uomo dei lupi” (1923) osservò un “qualcosa” che si opponeva al cambiamento e che veniva avvertito come un pericolo. Anche la Klein individua questa resistenza attribuendone l’attivazione all’istinto di morte e all’invidia distruttiva. Da un punto di vista intersoggettivo il processo per cui una modalità nuova di esperienza è sopravanzata da un’altra più intrusiva che si attiva automaticamente, rappresenta una riproduzione interna degli eventi traumatici che il paziente ha vissuto nel suo sviluppo evolutivo con i suoi accudenti. Questa dinamica riflette il fatto che i tentativi che il paziente, da bambino, ha fatto di organizzare la propria esperienza sono stati soffocati dagli atteggiamenti dei genitori, ciò ha determinato per lui l’impossibilità di uscire da un sistema chiuso e distruttivo. La prospettiva inconscia che prevale in questa situazione è stata quella di essere costretto a definire sé stesso attraverso i bisogni, i desideri e le paure dei suoi genitori nel passato, o di chi li rappresenta psichicamente nel presente. Questa struttura psichica limita la costruzione di nuove strutture. Queste vengono percepite come una sfida ai legami arcaici costituiti nel passato. L’indagine analitica in queste situazioni cliniche non può essere limitata alla costruzione di ciò che è assente, non può essere considerata solo una esperienza correttiva che attraverso il processo di interiorizzazione trasmutante (Kohut, 1977) fornisce quelle esperienze d’oggetto-sè non sufficientemente corrisposte. Le strutture psicologiche nucleari di questi pazienti sono irrigidite ed organizzate con quelle delle figure significative con le quali entrano in relazione, allo stesso modo con cui erano organizzate nell’infanzia con quelle dei loro genitori. Nei fatti questi pazienti continuano a definire sé stessi attraverso la valutazione della loro capacità a corrispondere nel bene o nel male alle aspettative dell’altro. L’interpretazione del cambiamento dello stato affettivo e le trasformazioni di questo con la sua automaticità, può aiutare il paziente a diventare consapevole dei processi psichici inconsci che hanno contribuito alla co-costruzione delle sue dinamiche relazionali, processi che si sono attivati al di là del suo controllo e della sua determinazione. La paura del cambiamento con la riproposizione di narrazioni negative del sé rendono il paziente ostaggio dell’altro ed incapace di operare delle scelte.

Pertanto il setting dovrà essere improntato alla costruzione di un sentimento di sicurezza che gli potrà permettere di vivere qualunque angoscia e, al contempo, di riappropriarsi del suo senso di sé per non lasciare ad altri questo compito.    

 

 Bibliografia

 

Bonfiglio B. (2018) Fusionalità\Simbiosi. Franco Angeli, Roma 2018

Bordi S. (1997) Scritti, Raffaello Cortina Milano, 1997

Brandchaft B. (1993), Liberare lo spirito dalla sua cella, in La prospettiva intersoggettiva, Borla, Roma 1996

Bromberg P.M. (2006) Destare il sognatore Raffaello Cortina, Milano 2009

Freud S. (1923) L’uomo dei lupi OSF Vol.IX Bollati Boringhieri Torino 1966-1980

Greenberg J., Mitchell St. (1983) Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica Il Mulino, Bologna 1987

Kohut H. (1977) La guarigione del sé Boringhieri Torino, 1980

Mancia M. (2007) Sentire le parole. Archivi sonori della memoria implicita e musicalità del transfert. Bollati Boringhieri, Torino, 2004  

Mears R. (2000) Intimità ed Alienazione, Raffaello Cortina Milano, 2005

Mitrani J. (1995) Toward an understanding of unmentalized experience, Psychoanalytic quaterly, 64, pp.68-112

Moccia G. Meterangelis G. (2011) La Psicoanalisi Relazionale e la Psicoanalisi Freudiana in Italia, In La Svolta Relazionale Raffaello Cortina, Milano 2011

Pallier Lydia (1990) Il bambino mostruoso come minaccia dell’integrità del Sé Borla Roma 1990 

Sapisochin G. (2013) L’Agieren rivisitato: quando l’ascolto si trasforma in enactment in L’Annata psicoanalitica internazionale, Giovanni Fioriti 2016

Stern D. (1985) Il mondo interpersonale del bambino, Boringhieri, Torino 1989

 

 

Pubblicato in Lombardozzi A., Meterangelis G. (a cura di), Forme della Fusionalità. Attualità del concetto. FrancoAngeli, Milano, 2021

 

Vedi anche 

Lydia Pallier e Giulio Cesare Soavi. Psicoanalisi e vita (15 gennaio, 2022). Report di Mariaclotilde Colucci

https://www.francoangeli.it/Ricerca/scheda_libro.aspx?id=26871

Lombardozzi A., Meterangelis G. (a cura di) (2021), Forme della fusionalità. Attualità del concetto. Franco Angeli.

In ricordo di Giulio Cesare Soavi, di Claudio Neri (2021)

In ricordo di Lydia Pallier di C. Busato Barbaglio (2020)

Report di Ada Cristillo e Elisabetta Papuzza su “Fusionalità - Storia del concetto e sviluppi attuali (23-24 marzo 2019)

In ricordo di Giulio Cesare Soavi. Video intervista a cura di Paolo Boccara e Giuseppe Riefolo (2012)

Soavi G.C., Deficit della struttura del «sé» e nevrosi ossessiva (deficit fusionale e struttura del sé). 1993

  

Giulio Cesare Soavi: "Precisazioni sulla psicologia del tennis", 1988

 

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