
Presenta Lorenzo Iannotta
Discute Valentina Li Volsi
Note a cura di Anna Padula
“Del Padre ho la statura,
la dirittura morale,
della Mamma l’indole gaia
e il piacere di favoleggiare.
Ora, se gli elementi del complesso
non si possono più separare,
cos’è dunque in tutto il poveruomo
che si può definire originale?”
Goethe, “Autoritratto” (1774)
Lorenzo Iannotta, psichiatra e psicoanalista associato SPI, ha presentato una sua personale e appassionata ricerca sulla identificazione in occasione della serata scientifica del 12 giugno scorso, organizzata presso il nostro Centro e introdotta dal Segretario David Ventura. È una curiosità, quella di Iannotta, sorta durante il congresso FEP svoltosi a Firenze nel 2024 e che ancora lo accompagna, inesauribile, essendo il tema assai vasto e complesso. La complessità è quella che, non limitandosi al concetto teorico - come sempre avviene in psicoanalisi - esprime proprio nella clinica, di cui egli generosamente ci porta due vignette, le sue più variegate declinazioni. Lorenzo Iannotta prova così ad accompagnarci alla scoperta di alcuni degli innumerevoli rivoli in cui può scomporsi, tra teoria, clinica e letteratura, l’identificazione, fenomeno identitario ma anche dalle molteplici identità, come vedremo: ora meccanismo, ora concetto, ora processo.
Il breve stralcio che troviamo in esergo è tratto da “Autoritratto”, una poesia di Johann Wolfgang Goethe del 1774, citata da Ignacio Matte Blanco (1988). Cosa resterebbe, di autentico ed originale, in un individuo fatto delle parti specifiche dei propri genitori, divenute parti di sé stesso? Secondo Matte Blanco, l’esempio “magnifico e profondo” del meccanismo sotteso alle identificazioni, intese come “vicissitudini metaboliche degli oggetti introiettati”, avrebbe una matrice biologica: ogni oggetto relazionale viene sottoposto a reazioni che prima lo scompongono (catabolismo) e successivamente ne utilizzano gli elementi semplificati per costruire “nuovi” oggetti (anabolismo). E’ attraverso queste trasformazioni e gli scambi, tra esterno ed interno, che hanno luogo i processi vitali e la costituzione di una nuova identità. Identificazioni eccedenti, invece, non possono essere metabolizzate e resteranno innestate come corpi estranei indigeribili (identificazioni alienanti, si dirà durante il dibattito) che impediscono il normale sviluppo: anziché essere nutrita, la mente in tal caso verrebbe intossicata, invasa, come sottolineò anche Gianna Polacco Williams nel lavoro intitolato Paesaggi interni e corpi estranei - disordini alimentari e altre patologie (1997).
Altro riferimento letterario a cui Iannotta volge il suo sguardo è il Nobel Josè Saramago, che proprio nella prolusione al premio descrisse l’intreccio e le metamorfosi subite dai suoi personaggi, originati da persone reali della sua vita, che venivano poi trasformate dal pennello della letteratura e in ultima istanza costituivano parti edificanti della sua stessa persona. Lo scrittore si sentiva, cioè, al tempo stesso, creatore e creatura dei suoi personaggi. Nutrito delle sue stesse invenzioni, che erano fondate su esperienze reali. Ecco, dunque, una delle forme assunte dalla identificazione primaria, così come se ne legge nella definizione data da Laplanche e Pontalis (1967): “un processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma, totalmente o parzialmente, sul modello di quest’ultima”. Secondariamente, l’effetto che Saramago riconosceva ai propri personaggi inventati - quello di nutrire e trasformare il loro stesso creatore - può ben essere considerato manifestazione di una identificazione secondaria, un processo operante, per così dire, “dall’interno all’interno”. E così, attraverso l’altro, che sia esso reale o fantasticato, il soggetto si costituisce e si trasforma. Questa è la funzione strutturante dell’identificazione.
L’intervista che Nicola Lagioia nel 2016 realizzò con la misteriosa scrittrice Elena Ferrante conclude la rassegna letteraria che Iannotta generosamente ci propone. Ne “L’amica geniale” le identificazioni reciproche tra le due protagoniste, Elena e Lila, hanno un peso soverchiante. Ognuna delle persone importanti per la vita di ciascuno di noi - racconta il romanzo - finisce per lasciare a deposito, dentro di noi, una sua propria forma che, prescindendo dalla sua qualità positiva o negativa, non smette di abitarci e strutturarci, proprio come una forma di vita autonoma (la persistenza dell’oggetto interno, secondo Melanie Klein). Secondo Elena Ferrante, la visione che il suo romanzo suggerisce si sarebbe alimentata dell’esperienza di vita “affollata” vissuta fin dall’infanzia, dove le persone, stipate dentro case troppo piccole, e famiglie troppo numerose, non potevano che urtarsi reciprocamente, con intenti ora bonari, ora aggressivi. Si intuisce, dalle sue parole, l’esperienza di una fondamentale interconnessione, che Ferrante definisce garbuglio o frantumaglia, parti anche contraddittorie di cui tutti saremmo fatti, tenute insieme, talora, dagli stereotipi. E pur tuttavia, ci segnala Iannotta, nel nostro ricordare vi sarà sempre una rielaborazione, una riscrittura del nostro romanzo personale che è continuamente in divenire, così come lo sono le identificazioni, processi - come si sottolineerà in sede di dibattito - fluidi, perennemente in atto. Il tipo di identificazione ricorrente nel romanzo di Ferrante deriva dunque da una promiscuità affettiva e percettiva, un caos contagioso che ci ricorda la definizione freudiana di “frantumazione dell’Io”, condizione che si verifica quando singole identificazioni si escludono a vicenda.
Proprio relativamente al corpus teorico freudiano, Iannotta ha individuato e illustrato con uno schema sintetico, ma molto efficace, alcune diverse forme di Identificazione.
Esse sono: l’Identificazione primaria, come forma di legame originario (è l’identificazione anteriore ad ogni scelta oggettuale, e si costituisce come fondamento dello sviluppo dell’Io); l’Identificazione del soggetto che desidera essere come il padre, distinta dalla scelta oggettuale del soggetto che desidera avere il padre come oggetto d’amore; le Identificazioni oggettuali patologiche dell’Io, in azione nella melanconia, quando “l’ombra dell’oggetto perduto cade sull’Io”; l’Identificazione e il Besetzung (investimento), un termine quest’ultimo che può avere un’accezione neutra (come l’occupare una sedia), positiva (come l’assumere un ruolo, in guisa di casting), oppure ostile (come una introiezione forzata); infine il relatore cita l’Identificazione per contagio, quella che si scopre quando, improvvisamente, si riconoscono tratti comuni agli altri, inizialmente non percepiti.
Un breve ma denso accenno viene poi fatto alla teoria kleiniana delle identificazioni, ai cui precursori - l’introiezione e l’incorporazione - si aggiunge, con notevoli conseguenze teoriche e cliniche, anche la proiezione.
Seguono alcune interessanti pagine di clinica, due casi dai quali si stagliano, ben definite, le identificazioni parentali che sembrano aver determinato e condizionato le identità dei pazienti in analisi e la patologia che, conseguentemente, essi hanno sviluppato.
Mentre volge alle conclusioni, Iannotta si sofferma sull’importanza di riconoscere le identificazioni che si dispiegano anche nella stanza d’analisi: esse possono ben rappresentare una bussola clinica per riconoscere processi inconsci attivi anche nella relazione con l’analista, quest’ultimo inteso non solo come oggetto di transfert ma anche e soprattutto come figura con cui fare identificazioni e disidentificazioni (Ferenczi, 1932).
La discussione
Il vertice prescelto da Valentina Li Volsi per commentare il lavoro di Iannotta è quello della relazione e dell’intersoggettivismo. Viene ad esempio osservato che, a partire dalla stessa definizione di identificazione data da Laplanche e Pontalis, il soggetto (bambino o paziente) sembra non avere alcun ruolo e che si offre a ricevere le identificazioni un po’ come se fosse una tabula rasa. In che modo, si domanda invece Li Volsi, potrebbero oggi dialogare le posizioni classiche e quelle più contemporanee, delle neuroscienze o delle teorie sull’attaccamento, nel teorizzare un processo di co-costruzione delle identità soggettive? L’Infant Research, gli studi di Bowlby e la teoria dei Modelli Operativi Interni, ad esempio, hanno fatto emergere chiaramente che il bambino non incorpora i tratti dei caregivers ma si modella e si adatta al loro funzionamento, in un modo evidentemente più attivo. Come considerare l’identificazione, dunque? Un processo primitivo e fondante l’identità oppure un processo secondario rispetto a meccanismi di regolazione interattiva impliciti? In uno studio del 2017, Amedeo Falci ripensava l’identificazione proiettiva alla luce delle ricerche sui sistemi mirror di Gallese e Rizzolatti, nel senso non di una proiezione ma di una “lettura”, emozionalmente risonante, che una mente può fare nei confronti di un’altra mente. Ecco, ancora una volta, che il soggetto che fa identificazioni appare più attivo, immerso in “un più vasto ed universale repertorio di consonanze intersoggettive”.
A questo proposito, ci ricorda Li Volsi, anche paziente ed analista andrebbero considerati come coinvolti, pur con le inevitabili asimmetrie, in un processo continuo di consonanza intersoggettiva. Ci ricorda che per Tronick, ad esempio, lo sviluppo ha una natura imprevedibile, dettata dalla forma assolutamente unica dello stare insieme in una nuova quanto mutua regolazione. Sarebbe dunque in questa unicità e irripetibilità degli incontri l’originalità che Goethe cercava di rintracciare nel poveruomo della sua composizione poetica.
Il commento si è concentrato poi sulla parte clinica del contributo di Iannotta, del quale Li Volsi ha colto soprattutto il coinvolgimento dell’analista in seduta, le controidentificazioni proiettive in cui egli può essere preso, la potenziale collusività con aree dissociate della coppia analitica, e non ultimo l’enactment, tutte manifestazioni che, se ben utilizzate, possono ben servire la causa della trasformazione terapeutica e della regolazione diadica. Molte sono poi le domande che si è posta, sulla natura delle identificazioni costruite a partire dallo sguardo dell’altro, che possono aver condizionato in modo critico la costruzione di una specifica identità nei due pazienti, adolescenti o giovani adulti.
Il dibattito
Durante il dibattito, ricco e vivace, è stato approfondito il tema dell’identificazione e della costruzione del Sé. È stata ulteriormente rilanciata la metafora metabolica per descrivere il processo identificatorio: come una proteina non può essere assimilata direttamente senza danni, così l’esperienza relazionale, per diventare parte integrante del Sé, deve essere scomposta, elaborata e ricostruita interiormente. In questo processo, il Sé entra in dialogo con l’oggetto, trasformando ciò che è esterno in qualcosa di autenticamente proprio.
È stato poi evidenziato come il Sé non possa esistere al di fuori della rete relazionale: l’identità personale emerge dalla molteplicità di storie e relazioni interiorizzate nel tempo. È stato anche sollevato il dubbio sul concetto di co-costruzione originaria del Sé, sottolineando l’asimmetria tra madre e neonato e il ruolo dominante dell’inconscio materno nelle fasi iniziali della vita.
Altri interventi, centrati sulla parte clinica, hanno posto l’accento sulla presenza di identificazioni primitive e sulla possibilità che esse a loro volta derivino da traumi transgenerazionali, suggerendo che esperienze precocissime, “conosciute non pensate”, possano influenzare profondamente l’identità.
È stato, inoltre, ribadito quanto sia fondamentale uno spazio psichico sostenuto da un ambiente relazionale adeguato, che consenta l’elaborazione delle esperienze e la costruzione di identificazioni sane. I legami che circondano la relazione madre-bambino agiscono come mediatori e regolatori, rendendo possibile la trasformazione dell’esperienza in elementi assimilabili e integrabili.
È stato anche osservato che le identificazioni non si esauriscono nelle prime fasi dello sviluppo, ma costituiscono una processualità che attraversa l’intera vita, incluse l’adolescenza e la stessa esperienza analitica. Il processo identificatorio è perciò continuo e può anche condurre, alla fine di un percorso terapeutico, ad accogliere aspetti precedentemente rifiutati o non riconosciuti del genitore sentito lontano.
Una prospettiva costruttivista, a conclusione del dibattito, ha infine messo in discussione l’uso del termine “primitivo” per descrivere le relazioni precoci proponendo, invece, una visione raffinata e complessa del legame madre-bambino.
Bibliografia:
“Elena Ferrante sono io”: Nicola Lagioia intervista la scrittrice misteriosa. La Repubblica, 04 aprile 2016. https://www.repubblica.it/cultura/2016/04/04/news/_elena_ferrante_sono_io_nicola_lagioia_intervista_la_scrittrice_misteriosa
European Psychoanalytical Federation (2024). Psychoanalysis in Europe, Bulletin 78
Falci, A. (2017), Le implicazioni dei “sistemi mirror” e della “simulazione incarnata” nelle teorie della mente e nelle attuali concezioni teoriche e cliniche delle psicoanalisi contemporanee, in C. Busato Barbaglio, G. Meterangelis, C. Pirrongelli, L. Solano (a cura di), Anticipare il futuro: la psicoanalisi oggi, Franco Angeli.
Ferenczi, S. (1932). Confusione delle lingue tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione. In Opere, vol. 4, Milano Cortina 2002.
Goethe, J. W. (1774), Selbstbildnis, in Werke (Hamburger Ausgabe), Munchen 1982, vol.1, p.320 [trad. it. In Tutte le poesie, I, Mondadori, Milano, 1989, pp. 1345-46]
Laplanche, J. Pontalis, J.B. (1967), Enciclopedia della psicoanalisi. Bari, Laterza 1968
Matte Blanco, I. (1988). Pensare, sentire, essere. Riflessioni cliniche sull’antinomia fondamentale dell’uomo e del mondo. Torino, Einaudi, 1995
Polacco Williams, G. (1997), Paesaggi interni e corpi estranei, Trad. It Mondadori, Milano
Saramago, J. (1998). Prolusione Nobel https://www.nobelprize.org/prizes/literature/1998/saramago/lecture/
Tronick, E. (2008) Regolazione emotiva, trad. it. Raffaello Cortina editore