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Articoli storici

Gaddini E., Note sul problema mente-corpo. 1980

 

Le cose che sto per dire potranno sembrare spesso personali. Ciò è dovuto al fatto che racchiudere in poco spazio un argomento così vasto e nello stesso tempo costantemente al centro della ricerca psicoanalitica è praticamente impossibile. Dovrò fare una sintesi che racchiuda possibilmente in alcuni punti chiave l'argomento, e ridurrò con questo le citazioni all'indispensabile. Nel fare la sintesi entrerà, evidentemente, la mia lunga esperienza psicoanalitica sul tema e, a volte, la mia posizione personale al riguardo. Ma in questo caso farò in modo che si possa distinguere ciò che è soltanto il mio contributo. Ciò che mi propongo è di tentare una descrizione, sulla base delle attuali conoscenze psicoanalitiche, delle fasi iniziali dello sviluppo differenziato della mente dal corpo, a partire dalla vita intrauterina.

La psicoanalisi considera l'attività mentale come la funzione più altamente differenziata del corpo, talmente differenziata da richiedere un suo proprio metodo di indagine, atto cioè a studiate i suoi fenomeni come sono, indipendentemente dai presupposti biologici che li sottendono. Tuttavia, la psicoanalisi considera il corpo e la mente sotto l'aspetto di un “continuum” funzionale, l'elemento chiave del quale rimane quello di un processo, nella differenziazione della funzione mentale, la cui direzione è dal corpo alla mente, ma che la psicoanalisi studia nella direzione della mente al corpo.

Nelle parole di Freud (1910)3: “Gli psicoanalisti non dimenticano mai che il mentale è basato sull'organico, ma il loro lavoro può portarli fino a quella base, e non al di là di essa”. Ciò permette alla psicoanalisi di guardare dal proprio ambito e dal proprio punto di vista a quelle discipline che si occupano del funzionamento del corpo in quanto tale, e dalle quali può trarre importanti informazioni riguardanti il “continuum” funzionale.

L’intuizione di Freud, al momento in cui abbandonò il “Progetto” (1895)2 riguardava due aspetti essenziali: il primo, che i modelli funzionali che stava cercando di descrivere in termini fisiologici potessero esistere come modelli di funzionamento mentale paralleli ai modelli fisiologici (e in questo senso da essi determinati); il secondo, che, in conseguenza, descrivere e studiare quei modelli funzionali riducendoli a termini fisiologici era un errore, e che occorreva invece mettersi in grado di descriverli e studiarli per se stessi, in termini psicologici. Questa era la sola psicologia scientifica da edificare, una psicologia che, come si vede, assommava in sé sia l'idea della mente come funzione differenziata del corpo, sia di un funzionamento mente-corpo concomitante e complesso.

Un aspetto generale del “continuum” funzionale corpo-mente, ma che può dare un'idea della sua complessità, è che il funzionamento mentale, in quanto determinato dal funzionamento corporeo, ne e anche influenzato in misura e modi diversi, e in quanto capace di influenzare il funzionamento corporeo, può anche in misura e modi diversi determinarlo. Un altro aspetto generale, che vorrei ricordare prima di addentrarci nei complessi aspetti del “continuum” funzionale corpo-mente, è che, se è vero che il cervello è contenuto nella scatola cranica, questo non si può dire della mente. Come il sistema nervoso, la mente sta dovunque nel corpo. Sarebbe però più giusto dire che nell'organismo, inteso come un “continuum” funzionale, determinati modelli di funzionamento sono presenti nel funzionamento fisico e, parallelamente, in quello mentale.

Ciò che comunque più importa di questo dato di base, dal quale Freud stesso è partito, è che sapere l'origine di un determinato funzionamento mentale consente di studiare e di capire di più dell'uso che, successivamente, ne viene fatto nella mente. Un esempio: l'“introiezione” viene descritta come il modello di funzionamento mentale parallelo a quello fisico della “incorporazione” 12 14. Sono entrambi modelli di base. Ma l'origine della “introiezione” consente lo studio del significato mentale di questo funzionamento, e dei suoi modi di svilupparsi normali e patologici, che sono del tutto indipendenti dal modello corporeo. Importa ricordare che anche lo sviluppo normale dell'introiezione “si differenzia” totalmente da quello della incorporazione. Questo ci consente di dedurre che lo stesso modello di base è un modello parallelo ma “differenziato”, rispetto a quello corporeo, e che pertanto una funzione mentale differenziata dal corpo esiste già, nel momento in cui un modello di base parallelo a un modello fisico si instaura. Ciò che non sappiamo, e che ci aspettiamo di conoscere dalle discipline che studiano il funzionamento corporeo, è in quale modo un modello funzionale fisico viene convertito in un modello parallelo psichico. Che è come dire: in quale modo il funzionamento fisico dà luogo alla funzione differenziata della mente.

Ciò che ora sappiamo, comunque, è che anche nel processo di crescita individuale, lo sviluppo della mente è un processo graduale nella direzione dal corpo alla mente, una sorta di emergenza dal corpo, che coincide con la graduale acquisizione mentale del sé corporeo. Poiché la conoscenza psicoanalitica, l'ho già accennato, non può che avanzare nella direzione inversa, dalla mente al corpo, la sua indagine è andata progredendo via via verso gli stadi più precoci dello sviluppo individuale e verso gli stadi iniziali della differenziazione mentale dal funzionamento corporeo.

Molto tempo prima di giungere all'apprendimento della realtà esterna, la mente individuale è in grado di apprendere, in un modo che direi “focale”, il funzionamento del corpo. Di questo apprendimento mentale primitivo c'è ancora molto da conoscere. Ci tornerò tra poco. Ma più ancora c'è da conoscere di un apprendimento che precede questo, e che riguarda la vita fetale. Osservazioni attendibili sul comportamento del feto nell'utero, mostrano un'attività motoria e sensoriale più precoce di quanto si potesse supporre (dalla fine del terzo mese), insieme con una sorta di apprendimento dello spazio in cui il feto attivamente si muove17. L'organismo fetale mostra di essere attivo e promozionale, anche se in una situazione spaziale che è estremamente delimitata e protetta, rispetto alla situazione post-natale. Al momento opportuno, un feto sembra contribuire attivamente a promuovere il processo della propria nascita, processo che altrimenti (per es. se il feto è morto) non interviene in modo spontaneo.

Quanto di questo apprendimento non sia soltanto fisiologico nell'organismo fetale, è una questione controversa. Ciò che a me sembra ragionevole pensare è che i primi modelli paralleli di un apprendimento mentale possano essere fondati in questo periodo intrauterino, sui modelli dell'apprendimento fisiologico, e che il processo della nascita e la situazione immediatamente post-natale promuovano un funzionamento mentale attivo, sulla base di questi primi modelli paralleli di apprendimento.

Se questo è vero, l'inizio del processo di differenziazione della mente dal corpo sarebbe da porre a un certo punto della crescita intrauterina. Vorrei osservare in proposito che l'instaurarsi di un modello parallelo non sembra possibile prima che la “memoria” di un modello fisiologico si sia stabilita. La memoria cioè, potrebbe essere un punto-chiave del passaggio dal funzionamento fisiologico a quello mentale, e in termini di sviluppo, fornire l'indicazione del tempo presumibile in cui, nella vita intrauterina, tale passaggio può avere inizio.

Comunque sia, nessuno dubita ormai che nel neonato una attività mentale sia presente e operante, anche se è in genere difficile evidenziare sue manifestazioni prima della fine del secondo mese. In questi ultimi decenni bisogna dire che la indagine psicoanalitica ha gettato molta luce sulle prime settimane della vita post-natale. Va in primo luogo considerato il fatto che tra il funzionamento organico e il funzionamento mentale esiste alla nascita un grande divario. Se fisicamente un neonato è un individuo, è perché esso è un organismo definito, separato dal corpo materno e distinto dagli altri individui. Mentalmente però, non è nulla di tutto questo.

Più esattamente, bisognerebbe dire che la funzione mentale è presente alla nascita come funzione differenziata, e, alla stessa stregua di altre funzioni corporee, il suo sviluppo e il suo affinamento sono attivati dai repentini mutamenti che il processo della nascita comporta, sia nel funzionamento fisiologico interno che nell'ambiente fisico circostante. Mentre però l'organismo può contare, alla nascita, sul grado raggiunto dai suo apprendimento fisiologico, e fornire entro certi limiti pronte “risposte” fisiologiche, adeguate alle “richieste” che i mutamenti comportano, esso non può contare altrettanto sul grado raggiunto alla nascita di apprendimento mentale del proprio funzionamento fisiologico. Sotto questo rispetto, è come se i modelli paralleli di tale funzionamento tendessero a permane-re inalterati, rispetto allo sconvolgimento che la nascita ha imposto al funzionamento fisiologico intrauterino.

In realtà, le cose non stanno proprio così. Ciò che è più probabile è che il divario alla nascita sia soprattutto tra il grado di apprendimento fisiologico e il grado di apprendimento mentale del funzionamento fisiologico. Una ragione di ciò sta nel fatto che l'apprendimento fisiologico, durante la crescita, precorre necessariamente l'apprendimento mentale, il quale, come dirò meglio tra poco, è primariamente un apprendimento del funzionamento fisiologico. Fino a quando la situazione fetale permane, si può considerare questa sorta di sequenza come una espressione originaria del “continuum” funzionale corpo-mente, e si può in conseguenza ammettere che tale sequenza possa dar luogo a un apprendimento mentale di base, che precede la nascita.

Di fatto, ho descritto prima la situazione intrauterina come una situazione spaziale estremamente delimitata e protetta, rispetto a quella post-natale, e ho riferito di osservazioni che fanno pensare a una sorta di apprendimento dello spazio in cui il feto attivamente si muove. Si può dire che il limite, il confine che il feto fisiologicamente apprende, è anche il confine di sé. Se non temessi qui di riferirmi già troppo al mentale, potrei dire che fin dall'origine il sé corporeo si estende a uno spazio circoscritto, il cui limite è anche il limite di sé.

Vorrei invece mostrare che nella situazione intrauterina, certi comportamenti del feto sono configurabili come l'espressione di un apprendimento fisiologico dell'organismo fetale, il “limite” spaziale del quale — in mancanza di una consapevolezza mentale di sé — non può che essere quello del sacco amniotico che lo avvolge, consolidato dalla parete uterina. Se questi modelli funzionali fisiologici danno luogo via via, con lo stabilirsi della “memoria” e della sua mediazione, a modelli funzionali paralleli, ne consegue che questi modelli costituiscono primariamente la base dell'apprendimento mentale di un funzionamento fisiologico contenuto in un limite definito. Possiamo considerare questo come l'apprendimento di base esistente alla nascita. Siamo ben lontani, evidentemente, dalla possibilità di una prima immagine mentale del sé, con uno spazio interno racchiuso in un confine che lo separa da uno spazio esterno sconfinato, ma una caratteristica dell'apprendimento mentale, è, fin dall'origine, un uso mentale della memoria, che acquista rilievo col processo della nascita.

In conseguenza di questo processo — che, seguendo le vedute psicoanalitiche recenti, possiamo iscrivere a un certo punto dello sviluppo individuale come una svolta decisiva (la “impressionante cesura”, l'ha definita Freud (1925)4, determinante comunque per lo sviluppo successivo — una serie di improvvisi e importanti mutamenti intervengono in modo visibile nel funzionamento fisiologico dell'organismo e nell'ambiente circostante, e in modo del tutto invisibile nel funzionamento mentale. Basterà ricordare tra quelli visibili il pianto, la nutrizione, la respirazione, le escrezioni, e più all'interno il regime circolatorio, quello secretorio, i processi digestivi. Alla periferia, la perdita del confine limitante del funzionamento corporeo, l'aria invece del liquido amniotico, la diversità e la discontinuità del contatto fisico con un ambiente non costantemente definito.

Per ciò che riguarda la funzione mentale alla nascita, tutto ciò non può diventare in modo altrettanto rapido apprendimento mentale. A parte il fatto che, come ho già accennato, questo è precorso dall'apprendimento fisiologico che, nella situazione intrauterina, è molto più avanzato, l'instaurarsi di modelli di apprendimento mentali paralleli a quelli del funzionamento fisiologico richiede inoltre la mediazione della memoria. Nella situazione intrauterina, grazie alla costanza dei fattori ambientali, alla delimitazione fisica del funzionamento fisiologico e alla protezione entro la quale il processo si svolgerà, lo sviluppo dei “continuum” funzionale era massimamente facilitato. Soprattutto, la funzione mentale appena “in fieri” non era in alcun modo sottoposto a pressioni ambientali.

Ciò che voglio intendere è che il divario alla nascita, tra un massimo di possibilità funzionali fisiologiche e molto più ridotte possibilità mentali emerge, per così dire, in modo critico al momento della nascita, ma corrisponde semplicemente alla condizione immediatamente pre-natale del “continuum” funzionale. Il funzionamento mentale non ha a questo punto alcuna possibilità di influenzare, e meno ancora di determinare, il funzionamento fisiologico, al quale è invece completamente soggetto. Questo fatto, di nessun rilievo nella situazione intrauterina, è ora della massima importanza, e induce a riflettere sul ruolo che il funzionamento mentale ha nell'economia funzionale dell'organismo. Per intanto, ciò che si può dire è che la nascita promuove un forte incremento del processo di differenziazione della funzione mentale, il quale si accompagna di necessità a una intensificazione dell'apprendimento mentale del funzionamento fisiologico. Ciò vuoi dire che importanti mutamenti intervengono con la nascita anche nel funzionamento mentale, ma che l'assoggettamento pre-natale della mente al corpo continuerà ancora, fino a quando la nuova direzione intrapresa non comincerà a dare visibili risultati, vale a dire non prima della fine del secondo mese di vita post-natale.

“L'esperienza ha dimostrato che, nello studio della mente umana, è più difficile individuare e studiare direttamente ciò che è normale, e perciò meno evidente, che studiare l'evidenza della psicopatologia e muovere da questa verso la norma”6. Nello scrivere a suo tempo queste parole (1969) mi riferivo ad aspetti psicopatologici della vita adulta, dai quali si potevano ricavare elementi del funzionamento mentale normale dei primi tempi della vita; ma anche a una sindrome psicofisica precocissima e non molto nota come tale, la ruminazoine infantile o “mericismo”8 6, che interviene non prima della fine del secondo mese di vita, e che permette di capire l'intensa e silenziosa attività che la mente infantile compie di norma nelle prime otto settimane.

Devo rimandare chi volesse sapere maggiori dettagli a quel lavoro 6. Io mi sono permesso di ricordarlo, prima di tutto perché quella sindrome dimostra che l'apprendimento mentale del funzionamento fisiologico è giunto, già all'inizio del terzo mese, al punto da poter non solo attivamente e autonomamente riprodurre, nell'organismo, il modello funzionale della nutrizione (l'atto nutritivo), ma da riprodurlo alterato in modo (la cosiddetta “ruminazione”) da poterlo usare per controllare efficacemente una risposta fisiopatologica grave (vomito reiterato da brusco e precoce divezzamento), che potrebbe portare l'organismo infantile alla morte. Una volta intesa nella sua genesi, si può capire come la sindrome del mericismo, a lungo considerata costituzionale ed espressione di ritardo mentale, o perfino come una “regressione filogenetica”(!)8, e giustamente descritta dai pediatri come una sindrome patologica, sia però primariamente una sindrome psicofisica difensiva, che, tende a fare sì che l'organismo sopravviva. Il ritardo mentale, in questa luce, diventa l'effetto e non la causa della ruminazione.

Sotto questo aspetto difensivo, lo studio del mericismo conferma l'osservazione fatta da Greenacre, che “lo sviluppo delle misure difensive dell'organismo umano sembra procedere in modo ontogenetico, da reazioni precoci dirette o riflesse, di natura puramente fisica, che operano contro l'ambiente, alla struttura complessa di risposte psicofisiche” 13.

Ma la sindrome psicofisica infantile del mericismo consente di fare altre considerazioni attinenti al tema di questo lavoro.

Ho accennato sopra alla necessità di riflettere sul ruolo della funzione mentale nell'economia funzionale dell'organismo. Dal poco detto finora si può, credo, riconoscere il fatto che, dopo la nascita, il funzionamento fisiologico, sollecitato perentoriamente a modificare i consueti modelli funzionali, ed esposto ad un ambiente che non è più il confine preciso e stabile della propria funzionalità, si trova in una condizione di estrema vulnerabilità. Virtualmente, l'ambiente post-natale dovrebbe essere in grado, per il neonato, di continuare a fare esistere quel confine stabile che ha perduto con la nascita. Nulla era infatti più “facilitante” (nel senso di Winnicott, ma il concetto originario è di Greenacre)18 della situazione intrauterina, che in quanto conteneva definiva, consentendo così un massimo di funzionalità come un dato di fatto. Di qui il “bisogno” primario del neonato di un ambiente-confine, di una definizione di sé dentro la quale semplicemente e spontaneamente funzionare. La mancanza di questa funzionalità libera e sicura sta alla base dell'altro “bisogno” primario, che Winnicott ha chiamato “holding”. La impossibilità, nei primi mesi di vita, di stare nella posizione seduta e di reggere il capo, ne è come l'espressione concreta (fisiologica).

L'organismo infantile non può tuttavia che contare sul proprio apprendimento fisiologico e, da quando la mente ha cominciato ad esistere e a svilupparsi, sull'apprendimento mentale del proprio funzionamento fisiologico. Per la mente infantile, tutto ciò con cui l'organismo viene a contatto sensorialmente, e in primo luogo per via tattile, non sta per l'ambiente, ma per il limite da sé. La percezione primitiva, nel suo modello biologico, è fisicamente imitativa, e consiste in una modificazione del corpo in relazione allo stimolo. Ciò che viene percepito è la modificazione del proprio corpo, ed è anche ciò che entra nell'apprendimento fisiologico. Il modello mentale della imitazione primitiva, parallelo di questo modello biologico (“imitare per percepire”) è “imitare per essere” 6, e serve all'organismo infantile per “essere” ciò di cui manca. Intendo dire che per lungo tempo, fino a quando il bambino non è in grado di distinguere un “oggetto” a cui affidarsi nel mondo esterno, distinto e separato da sé, la mente infantile è intesa a sopperire autonomamente ai “bisogni” dell'organismo (per “bisogno” intendo qui l'esperienza mentale di qualcosa che viene fisicamente a mancare).

Il bambino mericista “imita”, in questo senso primitivo, l'esperienza alimentare venuta a mancare, “alimentandosi da sé” fino a riprodurre l'esperienza fisica della pienezza 6.

La sindrome psicofisica “focalizza” in questo caso come una lente di ingrandimento l'esperienza del corpo che è venuta ad un certo punto a mancare, ma che è stata mantenuta nella memoria. Il quadro patologico clinico deriva dalla necessità di riattivare questa memoria non soltanto nella mente ma nel funzionamento corporeo. Si potrebbe forse avanzare l'ipotesI che la necessità, nel mericismo, di riattivare attraverso la mente la memoria del funzionamento corporeo, insorga come situazione di emergenza, dopo che i circuiti della memoria fisiologica, severamente alterati nel loro abituale funzionamento dalla perniciosa risposta diretta del vomito reiterato, non sono più in grado di ristabilire per via biologica il funzionamento corporeo normale.

Tutto questo potrebbe portare a descrivere il processo di apprendimento mentale del proprio apprendimento fisiologico come l'apprendimento mentale di una prima realtà, che è il proprio corpo col suo funzionamento e i suoi comportamenti fisiologici. Questo tipo di descrizione non mi sembra consigliabile, perché può facilmente portare all'errore di considerare la mente soltanto come soggetto e il corpo soltanto come oggetto. Da un punto di vista ontogenetico è forse più corretto dire che corpo e mente sono l'organismo, il cui apprendimento fisiologico a un certo punto, attraverso la differenziazione della funzione mentale, giunge ad essere appreso da se stesso, e in questo modo ad essere gradualmente organizzato in un “sé” mentale, e a farsi una immagine mentale del sé corporeo.

Ho già accennato più volte al ruolo presumibile di primaria importanza della memoria, in questo processo. È forse ora il momento di considerare che l'apprendimento fisiologico, per essere tale, non può prescindere da una memoria del funzionamento corporeo, la quale però non ha bisogno, per questa sua funzione, di acquisire una qualità mentale. Voglio dire cioè che attraverso la memoria del funzionamento fisico si possono organizzare i modelli funzionali corporei, nonché una evoluzione dello stesso funzionamento e di certi comportamenti, sempre restando nell'ambito dei circuiti biologici. A questa pre-esistente e continua memoria del fisiologico attinge evidentemente il primo apprendimento mentale, ma con modalità sue proprie, che sono precipue del differenziamento funzionale e che vanno perciò come tali descritte.

Nel momento stesso che un determinato funzionamento fisiologico è appreso mentalmente, esso ha anche un “senso” in termini mentali. La sua “qualità” mentale consiste primariamente nell'avere un senso che fisiologicamente non ha. Un senso che non è attinente alla realtà oggettiva di quel funzionamento, e che perciò non può avere che un carattere magico. La stessa operazione dell'apprendimento non può essere vissuta dalla mente, in questa fase della differenziazione funzionale, se non in termini magici. Così, quel determinato funzionamento fisiologico che descriviamo come mentalmente appreso, non è per la mente primitiva appreso, ma da essa stessa prodotto. Nel mericismo, come si è visto, il funzionamento mentale primitivo giunge effettivamente a riprodurre nel corpo ma con caratteristiche mentali il funzionamento fisiologico mentalmente appreso. Normalmente, non c'è bisogno di arrivare a tanto. Se la mancanza (o l'assenza o la perdita) non è tale da determinare risposte corporee dirette, o comunque prima che ciò possa accadere, è sufficiente la riattivazione mnemica nella mente per attestare la sua “realtà” attuale. Nelle parole di Freud: “Originariamente, la semplice esistenza di una presentazione [nella mente] garantiva della realtà di ciò che era presentato” (l925)5.

La memoria al servizio della mente non è continua e incessante, come la memoria fisiologica, e non ha bisogno, di norma, dei circuiti biologici riflessi che mettono la memoria al servizio del corpo. La caratteristica dell'apprendimento mentale, in questa fase primitiva, è quella della sua “focalità”, vale a dire che esso è specificamente circoscritto a un determinato funzionamento biologico, a volte semplicemente a un dettaglio. Ciò che viene appreso e che rimane nella memoria è perciò necessariamente un frammento, rispetto al flusso incessante del funzionamento corporeo, ma è un frammento che è anche una sintesi, in sé compiuta, e che ha così acquisito un “senso” mentale specifico, in aggiunta a quello di essere un magico prodotto della mente. È una esperienza di sé che diventa, nella mente, “creata” da sé.

Ciò diventa più comprensibile se si tiene conto, in primo luogo, che la memoria mentale è focale perché lo è primariamente l'apprendimento mentale; e in secondo luogo, che a questa focalità contribuisce in modo essenziale il carattere ritmico e ripetuto del funzionamento fisiologico in relazione con l'ambiente, e il suo relativo apprendimento. La memoria fisiologica registra in continuazione questi funzionamenti ritmicamente ripetuti. L'apprendimento mentale riguarda però lo specifico del funzionamento, incluso il suo ripetersi, e non le sue ripetizioni. Ciò vale anche per la memoria mentale. Poiché il funzionamento appreso diventa “creazione” della mente, ogni sua ripetizione alimenta e rinforza nella mente la sua magica onnipotenza creativa. La mente primitiva non è in grado di distinguere, per questa ragione, la ripetizione effettiva di una esperienza dalla sua riattivazione mentale ottenuta mediante la memoria. Riattivare l'esperienza depositata nella memoria equivale infatti, per la mente primitiva, a “crearla” attualmente con la propria onnipotenza magica. Anche la memoria cioè è usata in modo magico.

Ogni apprendimento focale del funzionamento in relazione con l'ambiente diventa in questo modo la creazione di una esperienza di sé. Per questa ragione, ogni sua ripetizione, sia essa reale o riattivata nella memoria, contribuisce a un processo creativo di sé, di essenziale importanza in questa prima fase post-natale dello sviluppo mentale. È merito di Winnicott di avere per primo evidenziato questo processo creativo di sé nei primissimi tempi della vita 18, e l'importanza che questa “illusione” ha nella prima formazione mentale del sé, quando nella realtà il bambino non è ancora, mentalmente, un individuo, e dipende in modo assoluto e totale dall'ambiente che ha cura di lui. Winnicott ha anche mostrato quanto l'ambiente (la madre) contribuisca di norma con le sue cure a custodire e ad alimentare nel bambino la sua “illusione”, e quanto psicopatogeno possa essere, per la mente infantile, il venir meno, da parte dell'ambiente, a questo compito di base.

La prima formazione mentale del sé va dunque considerata come la formazione di base dello sviluppo differenziato della mente. Il suo processo formativo è caratterizzato dall'aggregarsi di esperienze frammentarie sensoriali (tattili, olfattive, ecc.) del funzionamento di sé in relazione con l'ambiente. La percezione in questo stadio funziona secondo il modello descritto sopra della imitazione primitiva (“imitare per essere”) 6, che si traduce nella semplice e diretta inclusione della relazione con l'ambiente nella esperienza di sé. Queste esperienze sono frammentarie in quanto sono primariamente focali.

Esse cioè non sono casuali, ma riferite a determinati funzionamenti ripetitivi che hanno acquisito un senso mentale. La loro ripetitività, così come la loro riattivazione mnemonica, sono magicamente sperimentate come la possibilità di ricreare ogni volta l'esperienza di se. Winnicott si è giustamente riferito a questa fase iniziale dello sviluppo della mente come allo stadio della “non-integrazione” 21

La “non-integrazione” non va confusa con la “disintegrazione”21 fenomeno regressivo che presuppone una avvenuta integrazione, vale a dire uno stadio più avanzato. In questa fase infatti mi sembra più proprio l'uso del termine “assimilazione”, per indicare nella relazione con l'ambiente un fenomeno funzionale che, a differenza della integrazione, non implica alcun riconoscimento della realtà oggettiva. Jn questo senso, anche la realtà oggettiva del proprio corpo e del suo funzionamento, come finora si è visto, viene originariamente ignorata. La mente primitiva tende a fare concretamente proprio (ad “assimilare” al sé) (*) ciò che altrimenti sarebbe da riconoscere in modo oggettivo. Questo fenomeno a sua volta non va confuso con la “negazione”, meccanismo mentale di difesa che, per quanto precoce (lo è certo più della rimozione), implica una difesa attiva contro l'avvenuto riconoscimento oggettivo di una realtà, e pertanto uno stadio più avanzato dello sviluppo della mente.

(*) L'“estensione” del sé è il rovescio di questo funzionamento, con lo stesso intento.

Queste distinzioni sono importanti sul piano clinico, non meno che su quello tecnico. Nel suo cammino “verso il corpo”, l'indagine psicoanalitica è giunta infatti a conoscere la disintegrazione e la negazione molto tempo prima della non-integrazione e della assimilazione-estensione. Allo stesso modo, la ricerca sulle origini del rapporto con l'oggetto ha preceduto di molto le conoscenze attuali sulla più remota relazione con l'ambiente in funzione del sé e sulla formazione mentale del sé. Lo stesso concetto del sé ha avuto bisogno di tempo per giungere dalle prime formulazioni in termini di teoria psicoanalitica strutturale (Hartmann, 1950)15 e dallo studio compiuto nella stessa chiave da Jacobson 16, alle conoscenze attuali sulla sua formazione nel periodo che immediatamente segue alla nascita e che dobbiamo soprattutto alle ricerche compiute da Winnicott. Un originale e inatteso contributo è stato recato da Bion1, mediante lo studio psicoanalitico dei gruppi. Mi propongo di esaminare questo contributo in una prossima occasione.

Ho cercato di dimostrare come questo stadio della non-integrazione si sia andato costituendo, dalla nascita in poi, fino al punto da poter essere considerato uno stadio, vale a dire una prima organizzazione funzionale della mente. A una estrema vulnerabilità dell'organismo in questo periodo, la cui dipendenza dall'ambiente è totale ed assoluta, e a una massiccia prevalenza, all'interno dell'organismo, del funzionamento corporeo, fa riscontro un funzionamento mentale magico e onnipotente, che non fa praticamente sorgere la necessità di un riconoscimento oggettivo della realtà, di cui la mente non è ancora capace, e che è inteso a “creare” una organizzazione mentale di base, magicamente autosufficiente e affrancata dalla prevalenza del funzionamento corporeo.

Una parte di questo corpo è, nella realtà, parte del corpo materno, ma nel funzionamento mentale in relazione con l'ambiente è parte della esperienza di sé. Dal momento infatti in cui, alla nascita, il limite stabile e costante della membrana amniotica, rinforzata dalla parete uterina, è venuto a mancare, ciò che è diventato costante è invece la mancanza di un limite stabile e sicuro, paragonabile a quello perduto. Questa mancanza è uno dei più forti stimoli al funzionamento mentale primitivo, che tende magicamente a ricostituire e poi a riattivare, ripetitivamente, l'esperienza di un limite definito di sé. Le sensazioni tattili che il bambino nutrito al seno prova, soprattutto sulla zona periorale ed orale, e nelle mani, pronte a stringersi sul seno o su qualunque altra cosa a cominciare dagli indumenti nei pressi del seno — venga a contatto con la zona palmare, diventano perciò una delle prime esperienze frammentarie (focali) tesaurizzate dalla mente primitiva.

Molto più tardi, nella invenzione autonoma di un oggetto transizionale (in media dai sette ai dodici mesi) la mente riattiva e attualizza queste esperienze originarie, in cui la focalizzazione verteva su qualche dettaglio tattile, con una straordinaria precisione e una grande specificità. È stato così possibile mostrare che, quando l'oggetto transizionale è di stoffa, la scelta del tessuto corrisponde con tale precisione alle sensazioni tattili provate al seno nel contatto con gli indumenti materni o relativi alle prime cure, che si può fondatamente arguire se il bambino è nato in una stagione fredda (quando la madre usava indumenti di lana) o in una stagione calda (indumenti materni o delle prime cure di lino, seta o nylon) 9.

Mette conto di notare che, nel periodo in cui la mente infantile “inventa” un oggetto transizionale, essa si trova confrontata con la prima grave perdita dopo la nascita, la perdita definitiva del contatto fisico con il corpo materno come parte e confine di sé. Le somiglianze con la nascita come distacco fisiologico dal corpo materno sono evidenti. È comunque un fatto dì grande rilievo, a questo punto dello sviluppo mentale, che l'oggetto transizionale nuovo e transitorio confine e parte del sé non sia una parte del corpo proprio o materno, non distinguibile dal proprio, ma un oggetto inanimato, le cui qualità tattili rievocano la prima esperienza di un confine, dopo la perdita di quello pre-natale.

Lo stadio della non-integrazione ha il suo inizio in quelle prime esperienze tattili, si organizza via via nel modo che si è visto, e tende a giungere ad un grado di organizzazione tale da consentire a un certo punto al sé mentale l'esperienza del distacco definitivo dall'ambiente- corpo materno. Implicito in questa possibilità c'è un grado di affrancamento dal proprio funzionamento corporeo, che consente al funzionamento mentale un primo riconoscimento oggettivo del proprio corpo. Questo passo, in un processo che in qualche modo ripete da vicino, a livello mentale, quello della nascita, è forse il più arduo e fatale nell'intero processo di differenziazione della mente individuale. Il primo riconoscimento oggettivo della propria separazione sconvolge, di fatto, il funzionamento magico e onnipotente primitivo, e ne produce un repentino crollo. Il distacco equivale così alla perdita per sempre del sé onnipotente, e il riconoscimento della propria separatezza equivale al riconoscimento della estrema fragilità e vulnerabilità di un sé, che appare come mutilato, rispetto all'esperienza di sé magica. Nell'espressione di Bion, è la “catastrofe”.

Non entrerò qui nel merito di tutto quello che, a seconda di come si giunge a questo punto, può derivare, in termini di psicopatologia, allo sviluppo successivo della mente. Ritengo più pertinente al problema mente-corpo non perdere di vista la psicopatologia constatabile in questo primo periodo dello sviluppo, la quale non può che esprimersi attraverso il corpo. La psicoanalisi ha appreso da abbastanza tempo che, almeno per tutto il primo anno di vita (meglio sarebbe dire i primi 18 mesi) un disturbo nella mente si traduce in quadri somatici che sono in realtà psico-fisici; ma non ha ancora posto, io credo, sufficiente attenzione al fatto che vi sono in questo periodo malattie cosiddette psicosomatiche, che sono, per così dire, datate. Esse cioè non intervengono mai prima di un determinato tempo dalla nascita. Ritengo preferibile mantenere per questa sorta di “malattie” il termine di sindromi psico-fisiche. Mi sono già soffermato sulla sindrome del mericismo, facendo notare tra l'altro che non interviene mai prima delle otto settimane di vita. Non mi risulta che vi sia una sindrome psico-fisica più precoce di questa. Anche se non si può considerare comune, poiché ha a che fare con una successione di eventi del tutto particolari, tra cui un distacco imposto in modo troppo improvviso e troppo anticipato, rispetto al processo di differenziazione della mente, essa sta ad indicare che la sofferenza principale, in quel periodo, è connessa con l'interruzione troppo precoce dell'esperienza alimentare (*), Mi sembra di poter dire che, in genere le sindromi psico-fisiche dei primi diciotto mesi (e forse anche successivamente, fino a quando uno sviluppo è in corso) si riferiscono a una patologia della mente relativa al distacco e alla separatezza. In conseguenza, esse si manifestano in determinati momenti del primo sviluppo in cui il problema emerge pressante, ed esprimono — in una sorta di linguaggio concreto, pre-verbale e pre-simbolico, quale è quello di un alterato funzionamento corporeo — un contenuto mentale difensivo, specifico del momento dello sviluppo mentale in cui il problema emerge.

(*) Un'esperienza anticipata, rispetto al corso naturale del processo di maturazione, è potenzialmente traumatica.

Una sindrome che non interviene se non intorno al sesto mese di vita (rare volte poco prima) è la dermatite atopica. In questo periodo — in cui, se la relazione con l'ambiente rientra nell'ambito della media sufficiente, si giunge, dal settimo mese in poi, all'invenzione di un oggetto transizionale — si può invece, mentre il distacco e la separazione dei sè sono in atto, esprimere sotto forma di patologia somatica la difficoltà o la impossibilità mentale di procedere sulla linea dello sviluppo. In questo caso non vi sarà traccia, nei mesi successivi, di oggetto transizionale 9, e la patologia manifestata riguarderà la pelle. Se si tiene conto di ciò che sopra ho esposto, riguardo all'importanza delle prime esperienze tattili alla nascita, e della loro riattivazione mentale nell'invenzione dell'oggetto transizionale, si può capire come nell'oggetto transizionale si faccia una elaborazione mentale evolutiva della perdita definitiva del contatto fisico, mentre la difesa della dermatite rende manifesto che il confine della propria pelle (del sé separato) non è in grado di “tenere” e di proteggere ciò che contiene (di fatto, la cura fisica della dermatite garantisce un contatto continuo) 10 11.

In una delle ultime sedute di analisi, una paziente, alla quale già da un paio d'anni, nel corso del trattamento, era completamente scomparsa — all'età di circa 37 anni — la sua dermatite atopica diffusa al collo, al tronco e agli arti superiori, e durata ininterrottamente dal sesto mese di vita in poi (più volte, nei periodi più acuti, aveva dovuto essere ospedalizzata), riferì due ricordi, che solo allora, per la prima volta, le tornarono in mente. Un ricordo riguardava una sensazione, che prima dell'analisi le capitava di provare con grande terrore: la sensazione fisica di potere, da un momento all'altro, andare letteralmente in pezzi. L'altro era il ricordo di un sogno “strano”, che aveva avuto a 18 anni, alla morte della madre, e che l'aveva profondamente impressionata. Nel sogno, lei era un pianeta nello spazio buio sconfinato. A una certa distanza, vedeva un altro pianeta che velocemente si allontanava. Lei lo seguiva con gli occhi, terrorizzata, sapendo che, quando sarebbe scomparso, lei sarebbe andata in pezzi disperdendosi nello spazio.

Il sogno mostrava che la morte della madre aveva riattivato, nella mente della paziente, il modo in cui aveva vissuto, all'epoca della insorgenza della dermatite, il primo distacco da sua madre. Il ricordo delle sensazioni di andare in pezzi rimandava alla relazione patologica di allora con la madre, e mostrava come la paziente non avesse mai ammesso, fino all'analisi, di poter superare il rischio di quel distacco. La sua dermatite sempre presente e bisognosa di cure ne era stata la testimonianza concreta. L'aver riferito soltanto alla fine dell'analisi quei due ricordi sempre omessi, mostrava che non c'era più ragione di nutrire quei timori. La riserva mantenuta con la sua omissione poteva ora essere sciolta. Ora la sua pelle “teneva”, e il distacco dall'analista poteva compiersi senza pericolo.

La sindrome psicofisica importante successiva alla dermatite atopica si manifesterà non prima della fine del primo anno di vita, di solito nei primi mesi del secondo anno, e sarà quella dell'asma bronchiale. Lo spazio qui concesso non mi consente di entrare nel merito di questa sindrome, se non per segnalarla nell'ambito delle sindromi “datate”, e per far notare la fondamentale diversità del quadro clinico, ‘al quale io credo che contribuiscano due nuovi aspetti del distacco e della separatezza: l'iniziale apprendimento a camminare, che contribuisce soprattutto alla nuova emergenza pressante del problema del distacco, e il contemporaneo iniziale apprendimento del linguaggio, che soprattutto contribuisce alla organizzazione difensiva della sindrome psico-fisica. Di quest'ultima mi limiterò a dire che la connessione funzionale del parlare con il respirare viene a mio avviso usata dalla mente infantile per riattivare — ma, al solito, in modo alterato (nel linguaggio concreto del corpo) una delle prime connessioni funzionali di cui la mente ha fatto esperienza, che è quella del succhiare e deglutire al seno in concomitanza con il respirare. Poco più tardi infatti, ma nello stesso secondo anno di vita, là dove la sindrome dell'asma non si è instaurata, può instaurarsi la sindrome della balbuzie.

Nella grave balbuzie di un paziente di 28 anni, in cui la difficoltà del funzionamento concomitante dei parlare e del respirare era estremamente penoso, la complicazione di un tic significativo, quello di succhiare la propria lingua, riportava continuamente la difficoltà di respirare e parlare a quella di respirare e succhiare. Questo paziente, che non aveva mai svolto alcuna attività sessuale, era un feticista del piede e della scarpa, e la sera, prima di dormire, usava provare piacere nell'aspirare l'odore dei propri piedi.

La sindrome infantile della balbuzie può, com'è noto, scomparire dopo un certo tempo spontaneamente e mai più ricomparire, vale a dire che la difficoltà maturativa di cui era espressione è stata in qualche modo padroneggiata dalla mente. Altre volte, al contrario, può continuare ininterrotta per il resto della vita. Ma può anche accadere che, scomparsa spontaneamente dopo la sua prima insorgenza, ricompaia nel quinto anno o poco dopo. In questo caso, essa è destinata di solito a rimanere per sempre. È ciò che era accaduto al paziente sopra riferito.

Infine, l'altra componente della emergenza pressante del distacco e della separatezza al principio del secondo anno di vita, quella cioè del cominciare a camminare, può trovare essa stessa espressione concreta nel ritardo più o meno prolungato all'inizio della deambulazione. I primi passi, oltre che sancire in modo concreto il distacco e la separatezza, costituiscono anche il primo confronto del sé autonomo con lo spazio esterno sconfinante. Ho potuto constatare in un caso che la successiva organizzazione di una grave agorafobia era radicata nella patologia mentale infantile relativa a questo primo confronto con lo spazio esterno.

Ciò che qui mi preme comunque di sottolineare è che, all'inizio del secondo anno di vita, respirare, parlare e camminare giungono a trovarsi mentalmente in una complessa relazione reciproca, che può esprimersi nei suoi aspetti patologici in sindromi psicofisiche di diversa apparenza, il cui “senso” mette capo alla riattivazione mentale di esperienze più primitive, e precisamente a quella del respirare e succhiare al seno, e a quella del primo distacco e della conseguente separatezza, e di uno spazio esterno sconfinato.

Un esempio impressionante di come respirare, parlare e camminare possano tra loro scambiarsi, confermando così la loro relazione reciproca e il loro “senso” mentale, ho potuto trovare in un caso in supervisione. All'inizio dell'analisi, il paziente presentava una seria balbuzie. Rapidamente, entrò in un delirio psicotico, durante il quale la balbuzie scomparve. Uscito dopo qualche mese dal delirio (sempre durante il trattamento), la balbuzie non ricomparve, ma il paziente entrò in uno stato di grave angoscia di perdita di sé, che presto limitò in suoi movimenti. Nelle sue parole: “Situazione terrificante… ho paura. Ho la fobia del camminare. Sì è spostato lì il sintomo del balbettare”. Il paziente giunse a interrompere le sedute, per la sua impossibilità assoluta di camminare (muoversi autonomamente nello spazio) (*).

(*) Oltre che in questa impossibilità fisica, l'angoscia di perdita del sé era espressa da questo paziente in modo concreto come “uscirsi dagli occhi, proprio uscirsi dagli occhi, vedere il mio corpo fuori di me”, oppure: “Mi sento senza corpo”.

La psicopatologia materna è il fattore determinante di queste sindromi psico-fisiche infantili, ma in questa eziologia materna ci sono naturalmente casi determinati da situazioni oggettive, come una malattia materna che costringe alla separazione o, peggio, la perdita per sempre della madre. Un altro fattore apparentemente oggettivo, non infrequente, è una nuova gravidanza della madre quando il bambino è ancora nel primo anno di vita, o peggio nei primi sei o sette mesi.

Il caso più augurabile, naturalmente, è quello in cui la madre, essendo stata in grado, a suo tempo, di elaborare in senso evolutivo la esperienza cruciale del suo distacco, possa ora consentire al bambino di staccarsi da lei e proseguire, con lei “accanto”, sulla strada del suo sviluppo autonomo. L'invenzione di un oggetto transizionale e/o l'intervento di fenomeni transizionali, sono da considerare come un passo indicativo su questa strada, ma non è detto che diano per garantiti i passi successivi.

Quelle che possiamo considerare come le primissime espressioni della psicopatologia individuale insorgono dunque insieme col problema del distacco, di cui segnano le tappe fondamentali (*). Il distacco esige, nella mente infantile, il passaggio da uno stadio funzionale a un altro, e precisamente dallo stadio della non-integrazione a quello della effettiva autonomia. Ciò ripete da vicino il passaggio dal funzionamento fetale a quello neonatale. In termini di funzionamento fisiologico, non è pensabile che un neonato possa ritornare al funzionamento fetale, ma nella letteratura psicoanalitica non mancano sogni riferiti, dai quali si può arguire che il tema della reinfetazione faccia parte della mente primitiva. Quello che però qui mi preme di sottolineare è che l'esperienza inevitabile della catastrofe può a volte spingere il sé autonomo, fragile e depauperato, a restaurare e a potenziare il funzionamento magico della assimilazione al sé e della estensione dei sé, caratteristico della non-integrazione, e che questo funzionamento, ora non più meramente esistente, ma organizzato attivamente come difesa, può estendersi a tutto il mondo esterno, e permanere come funzionamento di base individuale anche nella vita adulta.

(*) Sarebbe interessante conoscere in quale relazione le sindromi psicofisiche insorte nell'infanzia si trovano tra loro nello stesso individuo. Mi viene in mente un paziente asmatico dal suo secondo anno di vita, e tenuto dalla madre per questa ragione sempre in casa e quasi sempre a letto fino all'età di cinque anni, quando gli nacque un fratello. Questo paziente era anche — da sempre, nella sua memoria affetto da colite spastica e da dermatite atopica.

Non mi riferisco con questo al fatto, noto ad ogni psicoanalista, che ogni stadio organizzato dello sviluppo mentale, anche se sopravanzato dallo sviluppo successivo, non cessi mai di continuare in parte nel suo funzionamento (nei limiti di una media considerata come norma), ma al fatto, pieno di conseguenze, che un intero stadio funzionale mentale, il primo nello sviluppo post-natale, in luogo di scadere venga restaurato, e attivamente promosso ad organizzazione di difesa, con l'intento prioritario e categorico di assicurare la sopravvivenza del sé distaccato, altrimenti minacciato di perdersi per sempre. È importante notare che, quando riesce, questa è forse la prima difesa mentale che non viene espressa attraverso il corpo. In modo magico e onnipotente, essa funziona a scapito dell'intero sviluppo del rapporto oggettuale.

Questa organizzazione è in grado infatti di mantenere il funzionamento di base originario, anche quando tutto muta nell'ambiente circostante, rispetto alla situazione infantile. Soprattutto mantiene le sue specifiche caratteristiche spaziali, quelle cioè di uno spazio popolato dalle esperienze frammentarie di sé (in relazione con l'ambiente), dove ciascuna parte può stare per il tutto e il tutto per la parte, e dove il sé è parte dell'ambiente e l'ambiente è parte del sé. Il funzionamento per assimilazione-estensione porta il confine del sé continuamente — in senso oggettivo — al di là di sé, per cui lo spazio ha un limite continuamente mutevole e indefinito e manca, in conseguenza, di una forma definita. Il bisogno oggettivo dell'altro — chiunque esso sia — rimane perciò costante e inderogabile come quello originario, ma siccome l'altro vale in quanto limite funzionale di sé, e mai come “altro da sé” oggettivamente riconosciuto, neppure il bisogno è mai come tale riconosciuto (In analisi questo può essere molto frustrante per l'analista).

In questo spazio senza forma tutto è attuale e tutto è perpetuo. Qualunque cambiamento nel funzionamento è impensabile. Poiché questa organizzazione difensiva è stata messa dal sé separato al servizio della sopravvivenza, essa serve innanzitutto a impedire il riconoscimento oggettivo del distacco avvenuto e della inconsistenza del sé separato. (Il cambiamento, anche nella vita adulta, può mantenere così per sempre il significato di possibile catastrofe).

In conseguenza, i processi integrativi sono impediti e la dimensione del tempo rimane assente.

Il meccanismo psichico che originariamente sta alla base del funzionamento di assimilazione-estensione, è l'imitazione primitiva. Questo meccanismo consente di “essere” ciò che altrimenti dovrebbe essere riconosciuto come “altro da sé” (come oggetto) ed è perciò destinato a un particolare sviluppo e affinamento, nello scontro con le richieste della realtà che la crescita impone. In mancanza, infatti, dei processi di identificazione, che richiedono un oggetto separato dal sé, le imitazioni giungono al livello di sostituirle, imitandole. Nello sviluppo intellettivo, esse favoriscono l'apprendimento rapido, “per contatto”, quel tipo di apprendimento che altrettanto rapidamente si perde, e che altre volte invece si accumula, come il grasso nella obesità, senza poter essere integrato. A volte queste persone sanno di “sembrare di essere” ciò che in realtà non possono essere. Dicono di avere l'impressione di “recitare”, e di non sapere “chi sono”. Di fatto, il loro continuo bisogno dell'altro per avere un senso di sé, li costringe ad essere sempre nella forma e nello spazio dell'altro, e a perdere il senso vero di sé.

Prima di stare in luogo delle identificazioni, le imitazioni stanno però in luogo delle introiezioni, meccanismo che comincia a funzionare solo quando un oggetto è riconoscibile come esterno e separato da sé. Occorre tenere a mente, in analisi, che l'organizzazione difensiva della non-integrazione non dà luogo alla possibilità di introiettare, e quindi di internalizzare in modo strutturante. Le manifestazioni cliniche di questo disturbo di base, rilevabili anche negli adolescenti e negli adulti, possono essere d'ordine prevalentemente psico-fisico o prevalentemente mentale. Nel primo caso, possono andare dal mangiare compulsivo, che obbedisce al bisogno di produrre continuamente e concretamente l'esperienza alimentare, come salvaguardia dall'esperienza del distacco catastrofico, all'alternanza di mangiare e vomitare, sostenuta dal timore che l'alimentazione si tramuti inopinatamente nella temuta “incorporazione”, fino alla anoressia mentale, dove mangiare diventa “ipso facto” incorporare, e quindi sempre e comunque l'avvisaglia di una nuova esperienza di catastrofe. Incorporare sta, come si vede, nel linguaggio concreto (pre-simbolico) del corpo, in luogo del funzionamento mentale della introiezione.

Io ho segnalato ormai da molto tempo6 questo duplice uso che la mente fa del funzionamento orale, e che a me sembra fondamentale conoscere: un uso sensoriale, per i bisogni del sé, soprattutto connessi con gli aspetti sensoriali della esperienza mentale dell'alimentazione, e in verità poco noto agli psicoanalisti (è di questo uso magico e onnipotente che ho sempre parlato fino ad ora, fino a quando cioè non siamo giunti alla esperienza imposta del distacco dal seno); e un uso oggettuale, ben noto a tutti, da quando Freud descrisse l'organizzazione orale, e dopo che la ricerca successiva ha messo in luce la dinamica orale del rapporto con l'oggetto. La mancata conoscenza di questo duplice uso dell'oralità, che corrisponde a due diversi livelli funzionali, porta all'errore, ancora oggi comune, di interpretare in termini di rapporto oggettuale sindromi psicofisiche d'ordine sensoriale come quelle ora accennate, capaci di influenzare il peso corporeo in modi a volte drammatici, dalla obesità inarrestabile alla magrezza cachettica, e che costituiscono difese ad oltranza proprio contro il riconoscimento di un oggetto e di un mondo esterno (vale a dire di un sé staccato e ritenuto incapace di sopravvivere).

Decisamente più insidiosa e più difficilmente riconoscibile in analisi, è la impossibilità mentale di introiettare che non dia luogo a manifestazioni patologiche somatiche. L'insidia sta nel fatto che il transfert è profondo e silenzioso, perché non dà luogo a conflitti di sorta. L'analista viene posto nel ruolo del seno nutritivo (non oggettuale!) a limite e confine del sé della non-integrazione, al servizio quindi della massiccia difesa magica e onnipotente organizzata dal sé per la sua perenne sopravvivenza. In luogo delle impossibili introiezioni si sviluppa allora una intensa attività imitativa, che alimenta il funzionamento della assimilazione-estensione, e trasforma il setting analitico nell'area funzionale magica e onnipotente del sé.

Queste silenziose operazioni si traducono in manifestazioni che possono trarre in errore l'analista, coinvolgendolo in modo compiacente e gratificante nel ruolo nutritivo assegnatogli, e che vanno dal rapido apprendimento imitativo e dalla assunzione su di sé degli aspetti più diversi dell'analista (il suo modo di esprimersi, le sue inflessioni nel parlare, il suo modo di pensare, e a volte anche il suo modo di vestirsi, e altri impensati dettagli) a sviluppi intellettivi a volte sorprendenti (ma scissi, e a scapito dei processi integrativi e strutturanti). La compiacenza seduttiva dei pazienti di questo genere ha una forza che è paragonabile soltanto a quella della seduzione esercitata da piccoli bambini. Ciò che non deve sfuggire è che queste imitazioni di introiezioni pongono una tremenda barriera a una effettiva internalizzazione, nel processo analitico.

Una difesa più avanzata, e di solito molto seria, su questa linea di acting-in, è quella del transfert erotico. Ne accenno qui soltanto per mettere in rilievo la sua qualità imitativa di un rapporto oggettuale reale. Esso consiste in una produzione attiva di fantasia consce a contenuto erotico, riguardanti l'analista, distinto, in fantasia, da sé, e “verificate” da sensazioni fisiche, nelle quali l'esperienza sensoriale di assimilazione viene trasformata in sensuale (erotica), e per la coscienza in sessuale. Colpisce in modo particolare, nel transfert erotico, la parte attiva e intraprendente che si trova nelle fantasie di rapporto e nel comportamento verso l'analista, un tipo di attività che non corrisponde a niente di simile nella vita reale, e che è di fatto basata sulla magia e sull'onnipotenza.

Per comprendere questa sorta di “attività”, occorre forse fare riferimento all'angoscia. Io credo che il termine che più si addice all'angoscia che segue alla paurosa esperienza della catastrofe sia quello di “angoscia di perdita del sé”. Essa insorge nel sé separato, non prima, ed è conseguente, non concomitante, con l'esperienza catastrofica. In questo senso è forse la difesa più primitiva, intesa a prevenire il ripetersi dell'esperienza terrificante; ma il grado di sofferenza mentale che ad essa si accompagna è tale da promuovere l'organizzazione di altre difese più efficienti, intese soprattutto a ridurre e a mantenere a distanza l'angoscia di perdita e dì sé, ma che ad essa fanno comunque riferimento. Più grave e drammatica è stata l'esperienza del distacco, più seria e difficilmente contenibile nella mente è l'angoscia di perdita del sé. L'organizzazione di una stabile difesa psicofisica può essere allora il solo modo di ridurre l'intensità della sofferenza nella mente. È ciò che abbiamo veduto nel caso della paziente con la dermatite atopica. L'angoscia di perdita del sé veniva ad essere in questo modo ridotta, ma il sogno del pianeta che stava per andare a pezzi nello spazio sconfinato, e la sensazione conscia di potere andare fisicamente a pezzi, testimoniavano che l'angoscia di perdita del sé aveva continuato a dominare nel funzionamento mentale della paziente.

Si può dire così che la sindrome psico-fisica sia più vicina all'angoscia di perdita del sé e alla possibilità di certi riconoscimenti oggettivi, di quanto non lo sia l'organizzazione mentale difensiva della non-integrazione. Qui non c'è posto infatti per alcun riconoscimento oggettivo, e quanto all'angoscia di perdita del sé, essa può essere così drasticamente ridotta da diventare inavvertibile. Ma il costo mentale di questa efficienza immediata è molto elevato, nella prospettiva del tempo. Nello scontro con la realtà che la crescita impone, tra questi due aspetti di base della psicopatologia, la difesa magica e onnipotente della non-integrazione si rivelerà la più vulnerabile per la stabilità mentale. Occorre tenere a mente, a questo proposito, che anche l'onnipotenza magica non è più quella del funzionamento spontaneo dello stadio della non-integrazione ma la riproduzione attiva di quel modello funzionale per i bisogni attuali della difesa. Ciò che voglio dire è che l'“attività”, in questa organizzazione, è sotto il segno della difesa onnipotente e magica e serve esclusivamente a questa.

Una ragione della maggiore vulnerabilità di questa “attività” nella difesa, sta nel fatto che, nell'intento di evitare magicamente ogni esperienza di angoscia di perdita del sé, più facilmente s'incontra in modo diretto con l'esperienza del distacco. Quando tutto funziona al meglio, la difesa sta nella immediata produzione “attiva” di quella specifica situazione di distacco. In questo modo la realtà oggettiva è capovolta. In luogo di subirla, la mente ne diventa l'onnipotente artefice. È una operazione che svuota magicamente il distacco del suo contenuto catastrofico e lo assoggetta al dominio mentale. Un esempio di cui ogni psicoanalista avrà fatto esperienza, è quello del(della) paziente che, di fronte a una interruzione festiva (a volte anche il semplice e ricorrente week-end), fa in modo di mancare alla seduta precedente o a quella successiva all'interruzione.

È un esempio che riguarda un dettaglio, ma anche il dettaglio può dare già un'idea di quanto l'attività per scopi difensivi prescinda totalmente da ogni riconoscimento oggettivo (che metterebbe a contatto con l'esperienza del distacco in modo diretto e concreto, senza l'allarme preliminare, penoso ma utile, dell'angoscia di perdita del sé) e di quanto, per questa ragione, essa sia perniciosa (*). Di fatto, il suo funzionamento è così automatico e immediato, e prescinde talmente dalla realtà, che può trovarsi ad essere fatale per l'intero organismo. Quando la realtà costringesse l'abituale attività di difesa all'insufficienza — e quindi, per la difesa, all'impotenza, per effetto di situazioni reali di distacco, di perdita o di cambiamento — e il sé si trovasse perciò direttamente esposto a ciò che nella mente, a prescindere dalla oggettività appare come la catastrofe per sempre, il rischio reale diventerebbe allora estremamente grave. Il modello funzionale della attività di difesa potrebbe infatti a quel punto giungere al suo estremo paradossale, che è quello di produrre in modo perentorio e onnipotente la catastrofe (nella realtà, il suicidio) col fine magico di sopravvivere (di non soccombere ad essa). L'insorgere acuto della psicosi può obbedire allo stesso modello.

(*) L'esempio dato consente anche di rendersi conto che l'agire difensivo (acting out) è un modello funzionale che risale a quello dell'attività come difesa dal riconoscimento oggettivo.

Ho detto prima in modo generico che l'angoscia di perdita del sé è utile. Vorrei ora sottolineare che è da considerare come un fenomeno normale, che interviene a un determinato punto della crescita, non appena esiste un sè separato, e che si accompagna per un verso a un grado iniziale di riconoscimento oggettivo di un sé limitato da un confine proprio, che definisce uno spazio interno separato da uno spazio esterno, e per altro verso al senso che questa delimitazione di sé sia l'effetto di una perdita mutilante, intervenuta per effetto della catastrofe. La perdita riguarda il sé magico e onnipotente, e viene spesso rappresentata come uno svuotamento di sé (*) L'angoscia di perdita del sé è legata alla sopravvivenza, un bisogno che compare per la prima volta con la separazione. L'angoscia consente dunque un primo riconoscimento di un sé sopravvissuto alla catastrofe, ma svuotato della sua onnipotenza, e perciò bisognoso e indifeso, ed esposto al rischio di non riuscire a sopravvivere. Soprattutto, l'angoscia è relativa alla fragilità e alla inconsistenza del confine appena acquisito, e al timore che non sia in grado di tenere insieme i restanti frammenti del sé e di impedire che si disperdano nello spazio esterno sconfinato.

(*) L'uscirsi dagli occhi o il sentirsi senza corpo del paziente psicotico sopra riferito. Una mia paziente si rappresentò in sogno, con molta angoscia, come collabita e appiattita, all'uscita da una vasca da bagno (distaccata dal contenitore materno).

Il fatto importante che resta ancora da notare è che l'insorgenza dell'angoscia di perdita del sé introduce nei processi mentali la dimensione del tempo. A parte il fatto che, per la prima volta dopo la nascita, si può cominciare a considerare, oltre al corpo, una mente individuale, qualcosa di fondamentalmente diverso interviene nella funzione della memoria. A differenza cioè dall'uso che della memoria la mente faceva nello stadio della non-integrazione (attualizzazione magica delle esperienze frammentarie di sé) la memoria della catastrofe viene continuamente alimentata dall'angoscia di perdita del sé come “ricordo” di una esperienza che deve rimanere ricordo, di un “prima” che non deve mai diventare “ora”, ma che dovrà piuttosto instaurare un “passato”. Ciò che voglio dire è che la memoria viene per la prima volta “temporalizzata”. Questa funzione temporalizzante dell'angoscia di perdita del sé può mancare di instaurarsi nel distacco traumatico. La memoria continua allora a mantenere la sua attività attualizzante, per cui l'esperienza catastrofica può sempre accadere “ora”. Il risultato patologico è la perenne aspettativa della catastrofe (**).

(**) È questa, a mio avviso, la spiegazione dell'esperienza di Winnicott, secondo il quale “vi sono momenti… in cui un(una) paziente ha bisogno che gli(le) venga detto che il breakdown la paura del quale distrugge la sua vita, è già avvenuto”21

Fino al punto in cui l'angoscia di perdita del sé è sostenibile, e non dà luogo a difese patologiche, essa rappresenta un intenso stimolo per la formazione di difese utili a dare inizio a una organizzazione del sé nell'ambito del suo effettivo confine. Un compito essenziale, in questa direzione, sarà quello di un graduale apprendimento del proprio corpo in termini oggettivi. Questa graduale “scoperta”e riconoscimento del proprio corpo è espressa nella evoluzione delle immagini grafiche di cui un bambino si rende via via capace. Oltre-passata la fase incoordinata degli scarabocchi, la prima immagine che un bambino spontaneamente crea e disegna e un immagine tondeggiante, che io considero come la prima rappresentazione del sé mentale separato (uno spazio circoscritto da un confine, che lo separa da uno spazio esterno). Non Si può fare a meno di notare quanto questa forma si avvicini, nell'insieme, a quella sopra descritta a proposito del funzionamento fetale. La differenza fondamentale è che allora il confine non separava ma univa al corpo materno, mentre ora separa da uno spazio esterno, nel quale la madre è collocata.

Com'è noto, in quella immagine tondeggiante, il bambino disegnerà successivamente la bocca prima e poi gli occhi. Di solito, disegna poi con linee essenziali, che partono direttamente da questa immagine del capo, gli arti. Il resto si perfeziona via via. Voglio dire che questo processo di apprendimento del proprio corpo è sistematico e non più focalizzato, è un riconoscimento oggettivo e non più un dominio magico e onnipotente. Ho detto all'inizio che “lo sviluppo della mente è un processo graduale nella direzione dal corpo alla mente, una sorta di emersione dal corpo, che coincide con la graduale acquisizione mentale del sé corporeo”. Ora possiamo aggiungere che questa graduale acquisizione mentale del corpo non sarebbe possibile, se non fosse preceduta dal faticoso processo di emersione da un corpo non oggettivo, che è quello della funzionalità unita del bambino con la madre.

Lavoro presentato al Centro Psicoanalitico di Bologna, nella riunione scientifica di apertura dell'anno 1980-81 (13 settembre 1980).

Questo articolo ha il permesso di ripubblicazione da: Rivista di Psicoanalisi, 1981, 1, 3-29.

 

 

Bibliografia

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