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Lupinacci M.A. - Una ferita all'origine. Capitolo 1 (2013)

L’esperienza del soffrire il dolore.  Dalle  prime esperienze dolorose viste nella osservazione della relazione madre bambino verso la clinica

Maria Adelaide Lupinacci, 2013

Premessa

Lo psicoanalista è sempre naturalmente confrontato nel suo lavoro al dolore mentale del paziente, ma la sofferenza nei bambini è particolarmente conturbante, penosa, difficile da tollerare. Quella che i bambini portano nell’analisi cimenta l’analista in molti modi ed in vario grado (Lucattini, Lupinacci 2012).

Il dolore non è purtroppo mai assente dalla vita, fin dalle origini; così non può essere assente dall’analisi.

“Una analisi deve essere dolorosa, non perché vi sia per forza qualche valore nel dolore, ma perché non si può ritenere che una analisi nella quale il dolore non venga osservato e discusso, affronti una delle ragioni centrali per il quale il paziente è là” (Bion 1963, p. 77).

Tonia Cancrini (2002) ha esplorato ad ampio raggio lo spazio mentale ed emozionale che è necessario che lo psicoanalista sia in grado di fornire al dolore del paziente nel lavoro analitico.

Tuttavia ci sono gradazioni nel dolore e differenze nella qualità del dolore: questa è una esperienza comune che ci viene dalla vita come dal lavoro psicoanalitico. Bion prosegue infatti avvertendo che il dolore può a volte essere così acuto, lacerante da essere invivibile.

Un intenso dolore…rappresenta una minaccia per l’integrazione mentale…l’accettazione da parte dell’analista che esiste la possibilità di un deterioramento della capacità di soffrire può contribuire ad evitare errori che potrebbero portare al disastro. Se il problema non è preso in considerazione e trattato (delt with) la capacità del paziente di mantenere la situazione statica può cedere ed essere sostituita da una esperienza di dolore così intenso da condurre ad un crollo psicotico[1](Bion 1963, pp. 61-62).

L’origine del dolore nella vita psichica: il neonato fra angoscia e dolore

Il dolore è della perdita, affermava Freud in Inibizione Sintomo ed Angoscia[2]. Tuttavia per la vulnerabilità alla perdita, per l’acutezza fino alla invivibilità del dolore e il deterioramento della capacità di soffrirlo dobbiamo risalire alle prime fasi dello sviluppo, alle primissime esperienze di vita come ad un deposito ineludibile nella personalità.

E’ in genere poco ricordata una interessante integrazione al proprio pensiero che Melanie Klein aveva fatto in un lavoro del ’48. In questo lavoro parla della sofferenza per la perdita dell’oggetto primario anche come oggetto parziale (corsivo mio), quindi anche solo per una parte del corpo della madre, una delle sue funzioni.

Oggi collego l’origine dell’angoscia depressiva al rapporto con l’oggetto parziale. Questa modifica del mio precedente punto di vista è frutto di una più approfondita indagine sui primissimi stadi dell’Io e di un più preciso discernimento dei gradi di sviluppo affettivo del lattante (Klein 1948, p. 445).

Forse già dal ’48 la Klein traeva questo “maggiore discernimento” da osservazioni proprie e di altri sui lattanti, che descriverà poi più compiutamente (Klein 1952). Il neonato non ha solo bisogni fisiologici. Ha il pre-sentimento, in base ai suoi stessi bisogni, dell’esistenza di un oggetto buono che risponda al suo bisogno di nutrimento, al desiderio di vicinanza e calore, che gli si accosti con tenerezza ed amore; di un tale oggetto soffre l’assenza o la perdita. Precocemente “l’anima celata del neonato viene capita dalla Klein” (Vallino, Macciò 2004). Da allora l’osservazione psicoanaliticamente orientata secondo il metodo di Ester Bick (1964), l’esperienza clinica e gli studi dell’Infant Research hanno confermato queste intuizioni.

Ma lo stato di impotenza, fragilità e non integrazione del Sé infantile alla nascita rende il neonato soggetto ad angosce molto primitive che in parte precedono il senso di persecuzione dell’oggetto cattivo che si nega. La Bick aveva compreso molto profondamente queste prime angosce. Ella ricorda che nel neonato le componenti della personalità non sono ancora differenziate dalle parti del corpo e prosegue:

Partiamo dall’ipotesi che le componenti della personalità nella loro forma più primitiva, non abbiano capacità coesiva e debbano pertanto essere tenute insieme, in una esperienza totalmente passiva, tramite la pelle che funziona come confine. Ma questa funzione interna di contenimento delle componenti del Sé dipende inizialmente dalla introiezione di un oggetto esterno che si dimostri capace di adempiere a tale funzione (Bick 1968, p. 90)

Anche Winnicott (1958) aveva sottolineato il sostegno, particolarmente fisico (holding), di cui il neonato ha bisogno per sviluppare in sicurezza il sentimento di esistere

Il fatto che la madre funzioni da pelle psicofisica protettiva ed unificante contro l’angoscia di precipitare, frammentarsi, svuotarsi, nei confronti delle quali il neonato è inerme, che gli permette nei momenti sereni di sentirsi esistere senza sforzo, ci avvicina a comprendere l’elemento di acutezza e di lacerazione del dolore primitivo per la separazione e la perdita, la gravità delle difese messe in atto.

Ma c’è dell’altro. France Tustin (1990) aveva aggiunto qualcosa di molto interessante quando aveva sottolineato che il neonato non è in grado di sostenere le tensioni sia piacevoli che spiacevoli, senza l’assistenza partecipe ed emotiva della madre. Ella apportava, calata nella sua esperienza di analista infantile in particolare con i bambini autistici, la lezione di Bion: la funzione della madre non è solo quella di nutrire e sostenere il suo bambino, ma quella fondamentale di accogliere, contenere ed elaborare emotivamente e mentalmente tutti i segnali che le giungono da lui (Bion 1962a). Questo vuol dire comprenderlo nei bisogni e disintossicarlo dall’angoscia, modularne l’eccessiva eccitabilità, dare un senso a quello che prova e trasmetterglielo. Vuol dire ancora sostenerlo nella sua predisposizione innata ad esplorare il mondo e comprenderlo, a vivere le emozioni e scandire il tempo. Da potenzialità innate, la vita psichica si organizza nel rapporto primario con la madre; così pure si forma la capacità di tollerare la quota di umana sofferenza, inevitabile anche con una madre sufficientemente buona. Questa è la fisiologia, se cioè le cose vanno sufficientemente bene per il bambino e sua madre. Anche Vallino e Macciò osservano che la presenza partecipe della madre, nei momenti in cui il neonato soffre l’assenza del seno, è ciò che permette il prodursi del “primo lampo di pensiero” del seno assente; il neonato allora soffre ma cerca, spera, non va in pezzi (Vallino e Macciò ibid). Si realizza ciò che Bion ipotizzava: che il pensiero, emergendo su basi emotive, contribuisca a rendere tollerabile il dolore (Bion 1962a).  

Ma se così non avviene il neonato può trovarsi in uno stato che è fra angoscia primitiva e dolore; ai confini forse di quella distinzione che Freud fa tra il dolore per la perdita dell’oggetto amato e l’angoscia per la minaccia alla persona nella sua totalità, che tale perdita porta con sé. Siamo in un’area dove si avvicina fino a confondersi il dolore per la perdita della madre fonte di esperienze, di unità, amore, nutrimento e l’angoscia della disintegrazione, dello spandersi e cadere in pezzi. Un’area dove il dolore della perdita (non contenuto e assistito) si tinge del carattere acuto e lacerante di ansie molto primitive di annientamento, mentre la struttura stessa mentale ed emotiva ed il sistema di gestione del dolore possono venire danneggiati.

Dunque: il bisogno e la capacità di rapporto affettivo del bambino fin dalla nascita, la sua fragilità e vulnerabilità, la disponibilità (o indisponibilità) di un oggetto vivente e capace di attiva sintonia per assisterlo nell’intensità del suo vissuto mi sembra siano tre fondamentali elementi in gioco quando “un intenso dolore…rappresenta una minaccia per l’integrazione mentale e quando si manifesta la possibilità di un deterioramento della capacità di soffrirlo”.

Parafrasando Bion (1962b) quando parla della paura di morire del bambino che non accolta e disintossicata diventa terrore senza nome, potremmo dire che l’assenza o il mal funzionamento dell’oggetto primario e della relazione madre-bambino trasforma l’umana sofferenza in dolore invivibile. Penso si debba anche ipotizzare che la soglia di tolleranza alla frustrazione ed alla sofferenza per la separazione abbia una variabilità individuale innata e che i neonati fin dalla nascita non siano simili fra loro per vitalità e forza. Ogni primo vagito è diverso dagli altri. Tanto più è allora necessaria una presenza amorevole costante. Ma non è questo il tema di questo capitolo né del presente volume.

Se nella relazione con la madre anche la sofferenza può diventare tollerabile, gravi o ripetuti traumi precoci nella relazione primaria procurano dolori invivibili e insieme distruggono quella relazione del bambino con la madre, fatta anche di piacere, di tenera emotività, di sintonia, di fiducia all’interno della quale il piccolo può, fin dalla nascita, gradualmente costruirsi una fisiologica tolleranza alla frustrazione ed alla perdita insieme all’esperienza di piacere vitale e di sicurezza. Ế la madre come compagno vivo, secondo la bella espressione di Anne Alvarez (1992). Senza una relazione con un compagno vivo diventa drammaticamente impossibile vivere qualunque emozione, anche di piacere, e godere di circostanze divenute favorevoli. Il trauma precoce, la ferita all’origine danneggia tragicamente la struttura stessa della vita emotiva.

Il problema che si pone è di un ordine duplice: 1) come si costituisce all’origine il sistema di gestione del dolore fisiologico della separazione e della perdita, quello inevitabile del vivere? 2) come si può ri-costituire (o costruire per la prima volta) nell’analisi la capacità di soffrire nei termini di una sofferenza umana, seppur acuta, e quindi anche quella di godere il piacere, in una personalità la cui vita emotiva è danneggiata all’origine?

Vorrei ora mostrare in filigrana, come fosse al microscopio, le prime esperienze dolorose e la loro storia nella relazione di una bambina di pochi giorni con la madre, attraverso le note di una Osservazione della relazione madre bambino fatta secondo il metodo della Bick (Bick 1964), e metterle in relazione con brevi flash clinici dall’analisi di bambini con gravi patologie.    

L’osservazione: Chiara

24 giorni. Una relazione personale intensa - Chiara[3] aveva a 24 giorni una relazione già molto personale ed intensa con sua madre. Durante la poppata teneva gli occhi fissi negli occhi di lei ed era, come vedremo più avanti, molto sensibile al suo sguardo ed alla sua attenzione durante la poppata. Ciò che la teneva al seno non era solo fame, ma evidentemente un bisogno relazionale ed un piacere emotivo. Ugualmente possiamo pensare che durante la poppata, che è un momento squisitamente introiettivo, la bambina mentre è al seno porti dentro di sé altre esperienze, oltre a quella delle sensazioni piacevoli che calmano la sua fame: l’esperienza e l’introiezione di un oggetto–mente buono che nutre, comprende, si offre, partecipa; lo potrà memorizzare, rievocarlo, sperarlo nei momenti di mancanza e di sofferenza.

Chiara è terzogenita; la sorella e il fratello sono alquanto maggiori di lei. La famiglia dà in generale una impressione di solidità e di ordine. La madre, una giovane donna tendenzialmente depressa, ma non estremamente disturbata, era nel complesso piuttosto adeguata. Chiara però era stata una bambina non desiderata. L’impatto fu forte quando la madre, fin dalla prima osservazione, ne parlò apertamente come se avesse essa stessa avvertito il bisogno di un contenitore per i suoi dolenti sentimenti di ambivalenza e colpa verso la bambina. Ế con dolore per i propri sentimenti di rifiuto, che racconta di avere sperato di abortire. Racconta anche di aver perso il padre quando era molto giovane e credo che nella relazione con la bambina influisse questa precoce esperienza di dolore e di perdita.

Ma nella stessa osservazione la mamma dà sfogo anche a molta tenerezza e molto amore; finita la poppata, dice stringendo la bambina a sé: “Povera piccola, e pensare che ti ho voluto tanto male!” Dice ancora che sta comunque cercando di adattarsi alla bambina e di prendere il buono che le viene da lei e di godersela. Dà realmente l’impressione di stare cercando laboriosamente di trovare uno spazio nella sua vita e nei suoi sentimenti per la piccola, pur soffrendo molto.

La funzione contenitrice della pelle - Ma a 24 giorni Chiara non ha ancora introiettata la funzione contenitrice della pelle. Ế anzi estremamente sensibile alla dimensione dello spazio, che è una dimensione di separatezza. Dorme pacifica, graziosa e senza rughe, nella carrozzina in camera dei genitori. Il lettino preparato per lei è vuoto. Due tentativi di mettercela sono stati infruttuosi: Chiara ha pianto tutto il tempo. Il lettino è più ampio della culla, c’è troppo spazio vuoto intorno mentre è evidente il suo bisogno di essere tenuta in un luogo raccolto di cui possa percepire meglio i confini. Viene da pensare alla piccola paziente di Ester Bick, Jill che chiedeva di avere gli abiti e le scarpe strettamente allacciati (Bick 1968). Del resto anche per Chiara gli abiti erano essenziali. Per tutti i primi due mesi, quando la madre la preparava per il bagno, nel momento in cui le toglieva “l’ultima buccia” (le parole usate dalla madre) formata dalla maglietta e dalla camicina, Chiara si agitava sempre con aria smarrita, piangeva e tentava di aggrapparsi. In questi casi la madre è sempre stata intuitiva nella comprensione delle ansie della bambina ed abile e gentile nell’affrontarle. Ma per altri aspetti risultava poco in contatto, distratta, cieca.

Quando, dopo il mio arrivo, la madre comincia ad occuparsi della bambina mi colpisce il contrasto tra il modo garbato, paziente con cui sveglia Chiara ed il modo lasso con cui la tiene in braccio, semiseduta sulle ginocchia con le proprie braccia che ne circondano il corpo, ma con il proprio corpo tenuto scostato, distante da quello della piccola. Chiara quasi subito comincia ad agitarsi, corruga la fronte, dimena il corpo; cerca forse di trovarsi un appiglio e insieme allontanare concretamente qualcosa, una esperienza certamente penosa, quella della fame. Prende a lamentarsi piano. L’attesa del biberon che la nonna sta preparando (la mamma non ha latte), si prolunga. Chiara piange e si dimena sempre più forte. Non sembra un pianto rabbioso, ma qualcosa a metà fra dolorosa delusione e smarrimento. I neonati hanno del resto molti ed espressivi modi di piangere e lamentarsi. La mamma parla ed accarezza la bambina che piange con una mano, ma con il resto del corpo rimane immobile, come se non sapesse che farne di quest’altra parte di se stessa per venire incontro al bisogno della figlia. Ế una scena molto penosa da osservare. Non sembrano due persone che non possano amarsi, cercarsi; solo non si capiscono. La perdita di comprensione mentale, emotiva trova il suo corrispettivo nella perdita del contenimento fisico della madre. All’ansia di perdersi, di non farcela a star su, seduta sulle ginocchia, fuori dal grembo prenatale della madre, di non farcela ad esistere separatamente, non avendo una propria pelle, si sovrappone in un modo indistinguibile per una bambina così piccola la sensazione della mancanza del seno, del buon latte che calma la fame, della vicinanza della mamma, del suo corpo, della sua partecipazione emotiva.

Chiara si aggrappa al golf della mamma all’altezza del seno. La mamma dice con tristezza: “Non c’è niente, poverina, è una mamma di pezza”.

Quando in fine la madre le porge il biberon, Chiara per un attimo fatica a trovare il contatto con il succhiotto e ci si agita intorno. La mamma fa in modo di coordinare la testa della bambina ed il succhiotto. Chiara si attacca e succhia con grande impegno, avidamente, guardando tutto il tempo con concentrazione la mamma, la quale a sua volta guarda la piccola ed un po’ l’osservatrice. Così sembra che la poppata, con il succhiotto/capezzolo nella bocca e gli occhi negli occhi della mamma, dà finalmente a Chiara il suo punto di aggancio, il nutrimento tanto atteso e risana la situazione. Soprattutto gli occhi negli occhi sembrano formare un ideale ponte sospeso gettato sopra il rischioso abisso della separatezza.

Un mese. Un quadro meno favorevole - Una osservazione successiva mostra un quadro meno favorevole. Chiara ha appena compiuto un mese e la mamma sembra più tranquilla, ma è più distratta. C’è in visita un’amica con dei bambini. Chiara dorme nel lettino: è il primo giorno. La mamma ha deciso di mettercela e tenercela a tutti i costi, come se volesse spingerla a diventare presto grande, a separarsi, a fare da sola. Per tutto il giorno Chiara ha dormito pochissimo ed ha pianto spesso. I fratelli dovevano ogni tanto andare a rimetterle il ciuccio che lei lasciava cadere.

Il letto (ma anche la mamma) non contiene lei; lei non contiene il ciuccio. Ha bisogno di essere continuamente riportata da qualcuno, concretamente presente, a ricompattarsi, stringendo la bocca intorno al ciuccio. Dorme da appena un’ora, distesa a pugni chiusi e braccia rialzate. La luce accesa dalla madre le fa socchiudere gli occhi ed accennare qualche smorfia di pianto. La mamma la chiama e la prende su per la poppata più sbrigativamente dell’altra volta. Chiara apre gli occhi, ma è presente solo in parte. Senza troppo stimolarla la madre le dà il biberon. Chiara succhia volentieri seguitando a dormire. Mentre Chiara succhia, la mamma si mette a chiacchierare con l’amica; sembra un po’ distaccata rispetto alla poppata. Chiara corrispondentemente si distrae: diventa più addormentata e smette di succhiare. La mamma si interrompe e la guarda; appena la mamma la guarda, Chiara riprende a succhiare. I suoi occhi sono ora ben aperti e guardano decisamente la mamma. La mamma riprende a conversare con l’amica e distoglie lo sguardo. E’ via cioè da Chiara non solo con gli occhi, ma con la mente e gli interessi. Chiara a sua volta richiude un poco gli occhi, succhia sempre più lentamente. Il biberon è abbandonato nelle mani della mamma distratta; Chiara non tiene il succhiotto né il latte. La mamma le toglie di bocca il biberon dove ancora un po’ di latte è rimasto. Chiara, ad occhi chiusi, ciondola con la testa sul braccio della mamma. Sembra che si dissolva nel sonno.

La bambina appare disturbata nel suo rapporto con la madre: il cambiamento di letto e la madre distratta sembrano essere per lei esperienze di perdita. Anche se riesce sufficientemente a nutrirsi, non c’è il recupero di una buona relazione risanatrice con la madre, come nell’altra osservazione. Più che il bisogno fisiologico del nutrimento, il momento cruciale per Chiara di cui ella ha “fame” è l’attenzione, lo sguardo, gli occhi della mamma. Se lasciata troppo a lungo a se stessa, esistere in uno stato di separatezza diventa insopportabile, il dolore invivibile. Dove la madre non ha occhi per la bambina, provare sentimenti è un rischio tale che in pratica non può farlo. Direi di più: non ce la fa proprio a tenersi insieme e sparisce nel sonno. In questo modo non prova più emozioni: né di piacere e neanche di dolore.

40 giorni. Il dolore, Il recupero - La mamma è fuori e nei giorni passati è stata più assente del solito per preparare un concorso. La nonna mi porta da Chiara. Al mio arrivo la piccola è nel lettino e sembra in uno stato di non integrazione. Non riesce a dormire, agita le braccia in movimenti scoordinati; rigurgita, non tiene il latte. I lineamenti del viso sono alterati e scomposti, non più così armoniosi come il primo giorno; appare meno carina e meno tonda. Si direbbe al confine fra disintegrazione e dolore, un dolore che a questi livelli sembra si esprima direttamente nel corpo. Ma non solo. La bambina comincia a lamentarsi debolmente, poi sempre più forte e questa volta su due toni; il secondo, più drammatico, sembra venirle proprio dal profondo. Colpisce questo lamento su due toni, dei quali il secondo soprattutto, quello più cupo e drammatico, fa pensare ad un profondo dolore che viene dal profondo delle viscere; qualcosa come il prototipo del dolore mentale. Come se traumaticamente Chiara scoprisse che c’è uno spazio troppo grande, una distanza incolmabile tra sé e la madre, le sue braccia e il seno-biberon.

Scrive Bick:

Il bisogno di un oggetto contenente, nello stato di non integrazione in cui si trova inizialmente il bambino, sembra spingere alla frenetica ricerca (corsivo mio) di un oggetto –una luce, una voce, un odore o un altro oggetto sensibile – capace di attirare l’attenzione e di essere quindi sperimentato, almeno momentaneamente, come qualcosa che tiene insieme le componenti della personalità (Bick 1968, p.91)

Per Chiara la “ricerca frenetica” non ha avuto esito, e la bambina prorompe in urla. Ế però “in cerca”, non ha rinunciato, né si rivolge contro se stessa graffiandosi o stropicciandosi come talvolta i bambini fanno. Più volte la nonna deve tornare per ridarle il ciuccio e pulirla, finché decide di riportarla nella carrozzina dicendo con empatia, quasi ad identificarsi con lei: “Qui nel letto grande mi sento un po’ spersa”. Chiara in questa situazione più raccolta non piange più, ma continua ad essere irrequieta; apre e chiude gli occhi, fa dei deboli “ah, ah”. Ogni tanto però si ferma tranquilla fissando l’angolo superiore della carrozzina. Dopo l’intervento facilitante della nonna, sembra avere trovato un punto di appiglio visivo nell’angolo superiore della carrozzina[4]. Sotto la pressione dell’angoscia ed in questo momento di frattura e di scoordinamento fra sé e la mamma, frattura del rapporto che non funziona quindi più da pelle psichica contenitrice, sembrerebbe che Chiara nella sua frenetica ricerca, scopra (o riscopra) che lo spazio esterno è popolato da oggetti; non è il vuoto totale. C’è la nonna, ci sono le pareti raccolte della carrozzina. Così cerca di aggrapparsi con lo sguardo, come fa con il viso della mamma nell’allattamento. Forse si è formato un senso di fiducia, di aspettativa che la nonna (o la mamma) ritorni. Forse c’è un proto-pensiero della nonna (o della mamma) assente. Forse è un primo abbozzo di rappresentazione simbolica: le linee dell’angolo della culla rappresentano per lei la nonna (o la mamma) che si affaccia. Possiamo spingerci fino a supporre che stia così attivando un abbozzo di fantasia nata dalla spinta del suo bisogno (Isaaks 1952)? Comunque sia, sembra si tratti di qualcosa che l’aiuta nella sofferenza della separazione e nell’attesa.

Questo tuttavia è uno stato di cose che la piccolina non può conservare a lungo con le sue sole forze. L’elemento temporale infatti è un’altra variabile che interviene intrecciata all’elemento spaziale costituito dal contenimento (Lupinacci 2012).

Finalmente arriva la mamma che ha l’aria stanca ed è carica di pacchi; constata la situazione, parla della irrequietezza di Chiara che da due giorni ha qualcosa che non va. Parla di arrossamenti al viso e di occhi gonfi. La mamma si libera rapidamente dei pacchi e prende Chiara in braccio con decisione. Questa decisione, questa fermezza della mamma, mentre le parla dolcemente e la bacia, hanno un effetto istantaneo. Ora Chiara è una pallina rotonda in braccio alla mamma. Ha il viso raccolto, concentrato; resta immobile, con le braccia appoggiate al suo collo: sembra che l’abbracci! La mamma dice qualcosa che sottolinea la beatitudine di Chiara ora. Ed in effetti il cambiamento è impressionante. Anche la mamma, che era tornata stanca ed un po’ affannata da fuori, con i pacchi che le pendevano dalle braccia, come se fossero pezzi di sé che non riuscisse a tenere insieme, sembra raccogliersi intorno alla figlia, rasserenata. E le due sono per un po’ proprio unite insieme. La mamma schiocca qualche bacio (due - tre) sulla guancia di Chiara. Chiara fa l’identico rumore, due - tre volte, con la bocca intorno al succhiotto. La coincidenza è così evidente che la mamma ed io non possiamo fare a meno di notarlo e sorridiamo colpite.

Adesso Chiara, in braccio alla mamma, tende a chiudere gli occhi con decisione e si addormenta. Nel sonno sorride ed è un sonno molto diverso da quello della seconda osservazione.

Tre mesi. Qualcosa cambia: dolore, rabbia, difese. Il recupero - Il progressivo allontanamento della madre, iniziato circa in coincidenza del compimento del primo mese di Chiara, continua. Quando ha tre mesi la bambina viene per due giorni trasferita con i fratelli a casa della nonna per permettere di studiare alla mamma, che sembra regolarsi con lei allo stesso modo che con i fratelli maggiori. In quei due giorni non l’ha mai vista. L’osservatrice assiste al primo incontro della madre con la bambina dopo la separazione. La mamma si avvicina a Chiara che è sveglia nella carrozzina: le parla, la bacia affettuosamente, la tira su prendendola in braccio. Chiara non la segue e si volta invece a guardare le luci del lampadario. La cosa è così evidente che viene notata e commentata, con aria di scherno e di trionfo sulla madre, dalla figlia maggiore di tredici anni. Si avvicina la nonna (la persona che era stata più vicina alla bambina in quei giorni) e parla a Chiara scherzando con lei; Chiara si volge prontamente alla nonna, la guarda con occhi e viso espressivi, la segue con lo sguardo.  

Si potrebbe ipotizzare che i bambini così piccoli dimenticano facilmente, che Chiara ha forse dimenticato sua madre. Ma Chiara è una bambina socievole, che si interessa se qualcuno si rivolge a lei amichevolmente e sorride facilmente. Il suo non è un mancato riconoscimento: la mamma è volutamente ignorata. La bambina che nelle osservazioni precedenti era apparsa così inerme ed esposta, passivamente e quasi fisicamente esposta alla sofferenza per la separazione dalla madre (i tratti del viso scomposti, i movimenti scoordinati, la pelle e gli occhi arrossati), sembra che ora cominci a strutturare delle difese contro la dolorosa percezione della perdita. Scinde la madre in una madre cattiva, che l’ha abbandonata e che lei può attivamente ignorare, e in una mamma buona rappresentata dalla nonna che si è presa cura di lei con cui può conservare un rapporto affettuoso di sorrisi e sguardi. Il dolore è diventato rifiuto; ad un sentimento troppo penoso per la mamma persa se ne è sostituito un altro, mentre il senso di perdita è trasferito alla (proiettato nella) mamma quando Chiara si distoglie da lei.

Ci vuole parecchio perché Chiara si riconcili con sua madre. La madre le dà tempo; la piccola comincia a seguirla ed anche a sorriderle. Ma lo stato di tensione emotiva alla quale è stata sottoposta (dal ritorno stesso della madre, un evento piacevole) forse non si è del tutto esaurito. Notando che la osservo, Chiara fa anche a me un sorriso enorme e poiché le rispondo, raddoppia i sorrisi, si dimena, sgambetta eccitata. Sembra una reazione un po’ esagerata: come se la bambina si rivolgesse anche a modalità un po’ seduttive di eccitazione, sgambettamenti, sorrisi seducenti per assicurarsi simpatia ed attenzione anche di qualchedun altro oltre alla mamma. Tutta questa euforia di Chiara deve sembrare un po’ esagerata anche alla mamma, che infatti la raccoglie vicino a sé con un ampio movimento delle braccia e del corpo, tranquillizzandola. Chiara mette ora un pugno in bocca e con l’altra mano cerca il golf della mamma, la collana, ci gioca, gioca con le dita della mamma. Sembra quasi che, dopo alcuni preliminari difensivi, una mano stia progressivamente riprendendo contatto con il corpo di sua madre pezzo per pezzo, prima alla lontana, poi più da vicino (il golf, la collana, le dita); mentre con l’altra mano chiusa a pugno infilata in bocca forma un arco dal corpo della mamma alla sua bocca, come per riprendersi dentro e ricostruire dentro di sé, incorporandola tutta pezzo a pezzo, la mamma persa. A questo punto la bambina sembra potere passare a modalità meno concrete, meno puramente fisiche di rapporto.

Comincia, fra mamma e figlia, un dialogo di mimica labiale, poi di vocalizzi, di “eeh”, di “nghee” dall’una all’altra. Chiara guarda ora intensamente la mamma e con la mano cerca sempre verso il seno. Sembra che, superato dolore e rifiuto, ripreso contatto e recuperato concretamente il corpo della madre, la bambina possa a questo punto stabilire modalità di relazione (il vocalizzare, il guardare) che implicano comunque una certa distanza, una separatezza. Ciascuna è nella propria pelle; tuttavia una relazione è possibile che non è solo fisica, basata sulla esperienza di ritrovamento, costruzione e ricostruzione introiettiva della madre all’interno di sé, alla quale potere tornare ogni volta che una esperienza di perdita si dovesse ripresentare.

Due sono le protagoniste di questa piccola, espressiva vicenda ricca di sfumature emotive. La mamma che realmente ritorna, disposta ad aspettare che la bambina si riprenda dopo la separazione di due giorni; la mamma con la sua fermezza nell’assorbire, contenere e disintossicare il rifiuto iniziale della neonata e lo scherno dell’adolescente, la sua sensibilità nel modulare le reazioni della piccola impedendole di disperdersi nell’eccitazione delle risate e degli sgambetti, riportandola ad una situazione di intimità e di contatto con se stessa. In effetti era come se l’avesse riportata al punto, e il punto era che bisognava realizzare che c’era stata una separazione, ma che la distanza fisica poteva, entro limiti, essere colmata da una relazione emotiva amorevole.

La bambina che, ben accudita da una nonna affettuosa e di buon senso, a tre mesi ha acquistato consistenza ed integrazione sufficiente da mettere in moto meccanismi di difesa contro la sofferenza della perdita, da indurirsi in un rifiuto attivo; che poi in una situazione favorevole riesce ad utilizzare il contenimento offerto dalla madre, si ammorbidisce accettando la relazione, prende iniziative per ritrovare concretamente la mamma e ricostruirla dentro di sé. A questo punto può iniziare il dialogo vocale: una forma più evoluta di comunicazione.

Nella stanza d’analisi: Dino e Lilli

Spazio, Tempo e Dolore - Sul vissuto di dolore ai livelli primitivi di sviluppo e sulla sua tollerabilità, l’elemento temporale gioca un ruolo fondamentale insieme all’elemento spaziale all’interno della relazione. Per elemento spaziale intendo il contenimento o la perdita del contenimento, da parte dell’oggetto: per la neonata Chiara l’attenzione, lo sguardo, la saldezza della tenuta delle braccia della mamma, le dimensione della carrozzina. Esso determina la sensazione di potere esistere e sentirsi ricompattati in un luogo che è fisico e insieme psichico (la relazione con la madre). Nell’analisi l’aspetto fisico del contenimento è enormemente ridotto, soprattutto con gli adulti, ma non assente e riguarda fondamentalmente le condizioni del setting. Il luogo, la stanza d’analisi nella sua riservatezza, i giorni, l’orario, il tempo della seduta mantenuti con costanza, la presenza sicura dell’analista sono fattori fisici, concreti del contenimento che hanno un valore e una risonanza psichica. Con i bambini i fattori fisici del contenimento sono anche più evidenti. Con tutti prendono significato all’interno di una relazione emotivamente significativa che può venire esplorata e pensata. Nell’analisi infantile è un luogo fisico e mentale (la mente dell’analista e del bambino in rapporto) permeato di emozione e di significato dove si tenta di sostenere il dolore, che crea anche una delimitazione interno/esterno, io/l’altro, dentro/fuori e prima e poi.

Per elemento temporale intendo che la capacità di tollerare, senza disintegrarsi o ricorrere a difese disfunzionali, l’angoscia riguardo al “quando” (quando tornerà l’Oggetto del bisogno e del desiderio) e al “per quanto tempo” (durerà lo stato di sofferenza), dipende anche dall’acquisizione del “senso del tempo”. Tuttavia l’acquisizione di un senso soggettivo del tempo riguardo a sé stessi (il vissuto di sé nel tempo) e al mondo esterno (dell’altro in movimento, che va e torna), il “tempo che passa” anche in modo oggettivo, misurabile, dipende dalla relazione con l’oggetto primario declinato principalmente dall’elemento presenza/assenza, anche in rapporto al ripresentarsi degli stimoli psicofisici (bisogni, disagi ecc.) soggettivi. E’ l’assenza ed il ritorno dell’oggetto che scandiscono il tempo dell’essere nel mondo. Il senso del ritmo, della circolarità, della linearità vissuti a livello psichico. E’ perciò evidente che quanto più il bambino è piccolo e/o costituzionalmente fragile, tanto meno è in grado di affrontare da solo a lungo la sofferenza per la separazione e le angosce agoniche della non integrazione o della perdita di integrazione. Mentre in uno stato di contenimento una certa compattezza del Sé offre uno spazio mentale nel quale può affiorare – per giungere successivamente ad essere formulata - l’idea del tempo. Di un tempo contabile e delimitato a fronte del “senza tempo” dell’organismo immaturo, che rischia di perdersi in uno stato di vuoto infinito. Un “senza tempo” che ha un senso del tutto diverso da (ma non in contrasto a) l’assenza della dimensione asimmetrica, diacronica del tempo, propria dell’inconscio freudiano (Freud 1915). Il senso del tempo contabile, delimitato costituisce anche un limite, nel senso latino di limen; soglia delimitante sia costrittiva (limitazione) che di confine protettivo rispetto al rischio di perdersi, o che l’oggetto si perda, in uno spazio/ tempo infinito. Un limite alla presenza, ma anche all’assenza. Questo può costituirsi solo nel rapporto, nel contenimento dato dal rapporto, nello spazio emotivo e mentale della relazione primaria.

Così conta che la madre arrivi a tempo, che gli stati di angoscia primitiva non si protraggano oltre; ma anche che la madre non sia confusa col bambino, sempre la incollata a lui; che non scambi i propri tempi con quelli di lui o a lui appropriati.

L’attenzione – Bion (1963) ha riconosciuto nell’attenzione una delle tappe fondamentali per lo sviluppo emotivo e mentale e l’uso dei pensieri. Esperienze di osservazione della relazione madre neonato come quella di Chiara, mostrano l’effetto straordinario dell’attenzione concentrata, dello sguardo vivo della madre sul bambino anche piccolissimo. Lo compattano, lo tengono presente, sveglio, in contatto emotivo con l’oggetto che si prende cura di lui.  

Con Dino, un bambino autistico di 4 anni, ne ho fatto una esperienza indimenticabile. Parlavo con i genitori, nel primo incontro con loro. Dino girovagava senza meta nella stanza. I genitori mi raccontavano le loro difficoltà e preoccupazioni; io li ascoltavo e osservavo anche il bambino; alternavo qualche commento e qualche domanda a loro con, rivolta a Dino, una specie di radiocronaca dei suoi movimenti. “ Oh! questa stanza è nuova per Dino; Dino gira da per tutto; ora sta guardando sul tavolo, osserva che cosa c’è; ecco ha scoperto il cestino! ecc.”. In cerchi concentrici sempre più ravvicinati Dino si era avvicinato attirato dal mio parlare a lui, aveva scoperto uno sgabello semi nascosto vicino alla mia poltrona e si era accoccolato vicino a me. In questo tipo di bambini il bisogno e la capacità di rapporto affettivo deve essere cercata per così dire con la lanterna; a volte suscitata, enucleata addirittura. Tuttavia la risposta può essere sorprendente.

Questo fragile legame in un bambino così fragile e seriamente malato mostra tutta la sua vulnerabilità al turbamento della prima prolungata separazione. Per i primi giorni dopo la prima vacanza più lunga, Dino aveva ripreso a saltellare a caso nella stanza con le mani sfarfallanti, lo sguardo perso come non vedesse ne’ me ne’ i giochi nel cassetto aperto per lui. Dovevo cercare di riagganciarlo. Così avevo malgrado tutto continuato a parlargli di come si doveva sentire disorientato e perso nel tornare dopo tanto tempo; mostrando di ricordarmi io di lui, rievocando le cose che avevamo fatto insieme prima delle vacanze, parlandogli della sua sensazione di non ritrovarcisi lì con me, di non ritrovare più nulla. Era un tentativo di raccogliere le sue sensazioni, anche se penose, dare loro un senso, farlo sentire capito e contenuto; non in un vuoto senza tempo e senza senso.

Gradatamente, quasi attirato fuori dallo stato di assenza autistica dalla mia voce che intanto gli parlava, il bambino si era via, via orientato verso il cassetto dei giochi e vi aveva ritrovato con sorpresa qualcosa di suo (un dolcetto) lasciato lì prima delle vacanze. Lo sguardo fatto attento, aveva dato segni di piacere, aveva ripreso contatto con il materiale di gioco e, in sequenze significative, aveva tracciato i primi disegni. La sensazione di avere lasciato una traccia in me, nella mia mente e concretamente nel mio cassetto lo ricompattava un pochino; si allargava poi alla sensazione che ci fossero luoghi solidi (il foglio) dove potere lasciare tracce. (Lupinacci 1996). A questi livelli primitivi le cose sono sempre vissute in modo molto concreto (il biberon nella bocca, le braccia della mamma per Chiara, il dolcetto nel cassetto insieme al suono della mia voce per Dino), ma una concretezza che è permeata di significato e di emozione perché compare e va incontro al bambino nell’ambito di una relazione (con l’oggetto primario, con l’analista).    

Lilli: voltare le spalle al reale[5] - Chiara si era distolta dalla mamma, voltandole le spalle, ma poi era stata ripescata dalla paziente e vigile attesa di lei e si era lasciata ritrovare e riprendere. Alcuni bambini più fragili in condizioni più difficili si distolgono dalla realtà, le voltano le spalle; si assorbono, ma dovremmo dire si perdono, in mondi peculiari e modi di funzionamento al limite (borderline). Queste aree possono essere tenute dissociate nella personalità del bambino, che appare nell’insieme sufficientemente adeguato, e costituiscono quasi un segreto che il bambino stesso custodisce accuratamente. Ne ostacolano però lo sviluppo armonico e, pur costituendo dei “rifugi” nel senso dato da Steiner (1993) a questo termine, sono però fonte di disagio e profondo isolamento.

Lilli era una goffa ragazzina di nove anni: “un tronchetto” la descriveva la sua analista. Dei comportamenti molto peculiari l’avevano fatta segnalate dalla scuola. Parlava poco, con aria di seccata degnazione. Disegnava in modo ossessivamente meticoloso e coscienzioso. L’analista si sentiva annoiata ed oppressa e faticava a non spazientirsi per gli atteggiamenti goffi, ma piuttosto trascurati, con cui la bambina spargeva per la stanza indumenti, briciole della merenda, matite, zainetto ecc. Aveva però smesso di spazientirsi quando aveva realizzato che quei comportamenti erano il segno di una scarsa integrazione, di un non sentirsi tenuta e non potere tenere ne’ tenersi; come la bambina “sacco di patate” della Bick (1968).

Uno dei primi disegni di Lilli era stato un minuscolo fiorellino disegnato nell’angolo superiore di un gran foglio bianco; il gambo del fiorellino fuoriusciva dall’angolo, come venisse dal di fuori, da un mondo “altro” cui il foglio non apparteneva. La testa/corolla faceva capolino nel grande foglio bianco, ma l’impressione che dava era di qualcuno che ti guardasse dall’alto, appollaiato sul soffitto e, rispetto alla base del foglio, avesse una visione del nostro mondo ordinario capovolta, molto peculiare.

Apparentemente succedeva poco nelle sedute, ma l’analista cercava di comunicare con la bambina facendo commenti che descrivevano, che cercavano di cogliere un senso in quello che Lilli stava facendo; cercavano di capire e rianimarla un po’. La bambina disegnava e disegnava. Non giocava. Ogni tanto avvenivano degli episodi che lasciavano l’analista con la sensazione di inciampare contro qualcosa che le facesse improvvisamente perdere l’equilibrio: Lilli diceva che la sciarpa l’aveva lavorata la mamma; dopo un poco improvvisamente parlava della sciarpa “fatta da lei”!

Un giorno Lilli affidò la sua bella sciarpa all’analista perché la riponesse, invece di lasciarla cadere a casaccio con il resto. L’analista sentì che la bambina per la prima volta le si stava affidando, si appoggiava a lei. Lilli aveva da poco cominciato a “giocare” un gioco che lei stessa aveva inventato. A turno lei e l’analista dovevano disegnare nelle linee essenziali qualche oggetto della stanza e l’altro doveva indovinare di cosa si trattasse. L’analista notò che Lilli, che aveva cominciato a scegliere oggetti periferici e comunque più o meno neutri, poco alla volta era passata a disegnare dettagli della sedia dell’analista, del suo abbigliamento e in fine della sua persona. Una sorta di costruzione (o ricostruzione) della persona dell’analista pezzo per pezzo, che però era un segreto (doveva essere indovinato). E di fatto veniva indovinato e nominato dall’analista stessa. Cioè l’analista nell’“indovinare” ricostruiva nella propria mente la costruzione che la bambina faceva di lei. Lilli poteva costruire pezzo per pezzo l’analista e tenerla come oggetto significativo nella propria mente in quanto l’analista poteva immaginare, avere spazio nella mente per Lilli che la cercava e costruiva, proprio mentre lo faceva. Intanto l’analista seguiva Lilli sul suo terreno, disegnando anche lei cose che appartenevano alla bambina o dettagli della sua persona.

In questo stesso volume Biondo descrive la lenta, paziente ricostruzione, letteralmente pezzo a pezzo (un braccio, una gamba alla volta) che egli aveva dovuto fare del suo piccolo paziente la cui personalità era stata distorta e quasi distrutta da ripetuti tremendi traumi precoci. Anche nel caso di Biondo la ricostruzione doveva avvenire in segreto: esistere, esporsi fuori dal rifugio è sentito inizialmente come un grande rischio. Rischio di ulteriore esposizione al trauma nel caso del bambino; di disvelamento del segreto di un funzionamento borderline che volge le spalle al reale nel caso di Lilli.

Il gioco inventato da Lilli era andato avanti per un po’ finché, dopo uno di quegli strani incidenti che sbilanciavano l’analista (aveva disegnato un libro, con tanto di editore segnato e poco dopo ne aveva parlato con naturalezza come di un quaderno), la bambina aveva cominciato a disegnare strani piccoli sgorbi. L’analista aveva detto che sembravano segni, lettere; forse di un altro alfabeto speciale? Lo erano. Lilli aveva detto di si, che era una lingua segreta, un alfabeto segreto, con regole segrete. Per esempio si leggeva alla rovescia; se l’ordine delle lettere nella parola cambiava, la lettera diventava un’altra e così via. La bambina stava così cercando di comunicare con l’analista sul suo mondo segreto e alterato; glie ne rivelava anche il linguaggio e l’alfabeto peculiare e segreto.

Ancora una volta nella relazione era avvenuta una ricomposizione emotiva; una ricomposizione ed una integrazione del Sé e dell’Oggetto che potevano fare sperare di ricondurre la bambina ad un mondo meno peculiare, più umano dove il dolore esiste, ma solo come una (fra le tante) inevitabili parti della vita.   

Conclusioni

Nell’osservazione di una neonata di 24 giorni abbiamo potuto cogliere, nell’arco delle dieci settimane successive, le prime esperienze dolorose per la perdita e la loro storia, e la qualità che il dolore per la perdita manifesta proprio per la fragilità di un bambino così piccolo. Abbiamo seguito Chiara dall’andare in pezzi passivo, dal senso di annientamento alle difese primitive (annullarsi e scomparire, aggrapparsi) fino all’indurirsi, al rifiuto attivo, con la scissione e la proiezione della sofferenza nell’altro, cioè nella madre rifiutata quando ritorna. Ế apparsa evidente la necessità che il dolore, anche quello quotidiano e inevitabile, sia assistito da un oggetto che lo comprende e lo contiene attraverso la ricostruzione del legame che la separazione ed il dolore possono avere infranto. Il legame nella relazione primaria fornisce il bambino di un contenitore fisico e mentale per esistere, ricomporsi, ritrovare e ricostruire l’oggetto. Tutto ciò lo abbiamo visto in un contesto che, anche se perturbato dal fatto che la bambina non era voluta, era sufficientemente normale e nel quale era spesso possibile recuperare e riparare la “ferita” precocemente e tempestivamente. Ma poiché questi sono elementi basici della vita emotiva alle sue origini, li ritroviamo, sia pure esasperati ed eventualmente distorti, anche nell’analisi di bambini e di adulti e sono specialmente importanti nell’analisi di soggetti, particolarmente di bambini, gravi e/o precocemente traumatizzati.

Il sistema di gestione del dolore sembra richiedere uno spazio per le emozioni, un contenitore fornito da un Io sufficientemente integrato che ha potuto stabilire dentro di sé un oggetto sufficientemente stabile con qualità e funzioni particolari. Quali? Lo abbiamo visto: un oggetto che ritorna e non abbandona troppo a lungo nel bisogno; che presta attenzione; che ci stà nel momento del dolore e non teme la contiguità con la sofferenza, così da offrirsi come punto di appiglio che ricompone la frammentazione e recettivamente accoglie la pena e la disintossica dalla invivibilità che disintegra. In questa descrizione dell’oggetto primario è inevitabile notare la sinergia di contenitore e contenuto come quella che si realizza fra seno e capezzolo, ma anche come sinergia di elementi primari parziali femminili/materni (l’attenzione recettiva, la reverie trasformativa) e maschili/paterni (lo starci, l’essere presenti con saldezza, l’offrirsi punto di appiglio). Non suona per altro inaspettato ritrovare nella delicata e fondamentale funzione di gestione del dolore gli elementi primari parziali di una coppia genitoriale sana e ben funzionante, che rappresenta infatti il luogo naturale di vita e di crescita per il bambino. Ne’ suonerà inaspettato che questi elementi in funzionamento sinergico debbano essere corredo necessario all’analista nel suo lavoro (Lupinacci 1994) particolarmente per affrontare il dolore mentale.

  

Bibliografia

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       Boringhieri, Torino, 1978.

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             4 anni, Quaderni di Psicoterapia Infantile, Nuova serie, Vol. 34, 1, 11-28.

LUPINACCI M. A. ( 2012), Riflettendo su spazio e tempo in psicoanalisi, KOINOS (in

           corso di pubblicazione)

LUCATTINI A., LUPINACCI M. A. (2012), Soffrire il dolore: il bambino e l’analista,          

       Relazione presentata al 1° Congresso internazionale I.I.P.G. sezione Gruppi di

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           Roma.



1) Traduzione mia dal testo originale (Bion Elements of Psycho-Analysis Heinemann, London, 1963)

2) “ Quando la separazione dall’oggetto genera angoscia, quando lutto, quando magari soltanto dolore?”

Dopo aver discusso il tema in cui il concetto di separazione dall’oggetto è centrale, facendo dettagliatamente riferimento alle esperienze del bambino piccolo con la madre, consapevole che il dolore è un fatto della vita e che ha inizio con l’inizio della vita, Freud conclude: ”Il dolore è dunque la reazione propria alla perdita dell’oggetto, l’angoscia la reazione al pericolo che tale perdita implica...il lutto subentra sotto l’influsso dell’esame di realtà il quale esige categoricamente che ci si debba distaccare dall’oggetto dato che esso non esiste più” (Freud 1925).

3) Si tratta evidentemente di un nome di invenzione così come lo sono i nomi dei bambini degli esempi clinici.

4) Per inciso questo sarà il prototipo di un gioco che Chiara svilupperà poi con le proprie mani ed i merletti che guarniscono il bordo della carrozzina.

5) Il caso è della Dott.ssa Monica Marchionni che ringrazio per avermi permesso di usarlo.

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