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Vacchini F. - Deficit di accudimento, trasmissione intergenerazionale e microtrauma (2011)

11 marzo 2011

Deficit di accudimento, trasmissione intergenerazionale e microtrauma

Fabio Vacchini

Desidero portare con questo lavoro un contributo clinico alla concezione della teoria e della clinica psicoanalitica che rispetto a quelle freudiana classica e kleiniana, basate sul conflitto pulsionale e sul conflitto tra istanze psichiche, privilegia nella etiopatogenesi dei disturbi psicopatologici l’importanza dell’ambiente e dei deficit di accudimento che il soggetto ha subito nel corso del suo sviluppo.

Riguardo all’origine ed alla evoluzione di questa concezione ricorderò soltanto brevemente l’importanza che Freud agli albori della psicoanalisi, tra il 1895 e il 1897, con la formulazione della teoria della seduzione assegnò all’ambiente ed al potere traumatico di questo quale causa determinante del disturbo nevrotico e come dal 1897, con la famosa lettera a Fliess del 21 settembre, essendosi reso conto che i racconti che gli facevano i suoi pazienti relativi a ricordi di seduzioni subite durante l’infanzia in molti casi non erano altro che il frutto della loro fantasia, abbandonò questa ipotesi come spiegazione etiopatogenetica della nevrosi, scartò l’importanza del ruolo dell’ambiente e delle esperienze traumatiche realmente vissute e si rivolse all’interno dell’individuo assegnando preminente importanza alla fantasia ed alle spinte che sorgevano spontaneamente in lui elaborando il concetto di pulsione.

Da allora divenne consuetudine considerare questo momento come “passo decisivo nell’avvento della teoria psicoanalitica e nell’accentuazione dei concetti di fantasma inconscio, realtà psichica, sessualità infantile spontanea, ecc.”           ( Laplanche e Pontalis 1967).

L’evoluzione che si ebbe dopo Freud, nella generazione di psicoanalisti a lui successiva, fece registrare da un lato lo svilupparsi di una corrente ortodossa costituita da analisti che restarono rigidamente fedeli alla teorizzazione freudiana nella sua forma originaria e dall’altro di una corrente di analisti che pur partendo dalle teorizzazioni di Freud svilupparono nel corso del loro lavoro teorie personali sostituendo spesso ai concetti freudiani nuovi concetti propri anche fondamentalmente diversi.

A questa seconda corrente appartiene Melanie Klein la quale partì con l’intento iniziale di convalidare ed ampliare le concezioni freudiane attraverso l’osservazione diretta e il lavoro clinico con i bambini ma, pur conservando      un’attenzione esclusiva al ruolo della fantasia inconscia e delle pulsioni innate, arrivò a delineare una concezione della mente notevolmente diversa da quella di Freud.

Alla stessa corrente appartiene quel nutrito gruppo di psicoanalisti che, con sviluppi tra loro differenti, presentarono la caratteristica comune di tornare, in  direzione opposta a quella seguita da Freud nello sviluppo della sua teorizzazione,  al punto di partenza da cui lui aveva preso le mosse.

Tutti questi psicoanalisti infatti sottolinearono di nuovo l’importanza dell’esperienza e dell’effetto traumatizzante dell’ambiente nella etiopatogenesi del  disturbo psichico e cominciarono a prestare attenzione ai problemi dello sviluppo normale del bambino ed all’influenza su questo dell’ambiente, in particolare della madre, e delle prime relazioni. (1 )

I rappresentanti più importanti di questo gruppo furono negli Stati Uniti Hartmann, Mahler, Jacobson esponenti della tradizione della psicologia dell’Io, Sullivan fondatore della psicoanalisi interpersonale e Kohut fondatore della psicologia del Sé ed in Europa Spitz ed i rappresentanti del cosiddetto gruppo di mezzo della Società Britannica, Fairbairn, Winnicott, Bowlby, Guntrip e Balint  che elaborarono quelle che divennero note come teorie delle relazioni oggettuali.

Con questi autori si giunse anche ad una ridefinizione del concetto di “trauma” che da singolo evento infantile catastrofico passò ad essere concepito come una continuativa incapacità degli accudenti di soddisfare i bisogni psicologici del bambino nel corso del suo sviluppo.

In altri termini, facendo riferimento alla iniziale teoria della seduzione di Freud, il bambino non venne più concepito come traumatizzato da un evento sessuale ma dalla patologia caratteriale dei genitori. Si venne cioè a realizzare una concezione per cui “Per l’incapacità dei genitori di fornire ciò che è necessario, per l’influenza intrusiva delle difficoltà e delle ansie dei genitori il bambino viene distratto dal delicato progetto di diventare una persona. La sua attenzione viene invece deviata prematuramente verso la sopravvivenza, verso i bisogni dei genitori, verso l’adattamento al mondo esterno, che può provocare distorsioni del Sé ” ( Mitchell e Black 1995).

Agli apporti di questi autori si sono aggiunti poi negli anni successivi fino ad oggi quelli di numerosi altri che, a partire dalla tradizione dei singoli gruppi a cui appartenevano, hanno fornito importanti contributi allo sviluppo del pensiero di questa corrente.

(1 ) Va preso in considerazione come anche nell’evoluzione del pensiero della Klein che si ebbe ad opera dei suoi allievi ci fu un’apertura all’importanza determinante dell’ambiente esterno. In particolare infatti Bion (1962), con lo sviluppo che diede al concetto di identificazione proiettiva e con l’introduzione dei concetti di rêverie e di contenitore – contenuto, si rivolse alla madre ed all’importanza che questa ha per il bambino sia per una situazione di normale sviluppo sia per l’insorgenza di una condizione psicopatologica.

Tra tali contributi ritengo debba essere sottolineata la considerazione data, soprattutto ad opera di autori francesi (Baranes J.J. 1993; Faimberg H. 1993, 2002; Enriquez M.1993; Kaës R. 1993), al ruolo patogenetico della trasmissione transgenerazionale delle problematiche psicologiche la cui importanza è ora universalmente riconosciuta.

Va poi sottolineato come negli ultimi decenni le teorie di questa corrente hanno ricevuto importante validazione e supporto sperimentale dai risultati a cui sono giunte le discipline che fiancheggiano la psicoanalisi. Basterà infatti semplicemente ricordare che le neuroscienze hanno dimostrato l’esistenza di centri di risonanza empatica sia nei primati che nell’uomo assegnando una base anatomo  funzionale a questa fondamentale funzione sia per il normale sviluppo psicoaffettivo dell’individuo sia per la terapia psicoanalitica e hanno fornito conoscenze relative alla memoria procedurale che fissa le esperienze dei periodi molto precoci della vita che non arrivano né a rappresentazione né a simbolizzazione.

Le ricerche relative allo sviluppo infantile ed al funzionamento della diade madre – bambino hanno fornito una concezione del bambino come essere altamente organizzato, capace di una attiva partecipazione con l’oggetto, ben diversa da quella che se ne era avuta in passato, ed uno scambio interattivo raffinato e complesso tra lui e la madre fondamentale per il suo sviluppo e la sua maturazione con inevitabili conseguenze patologiche  nei casi in cui tale scambio non possa realizzarsi in modo sufficientemente buono a causa di disturbi della madre.

Queste ricerche sono numerose ed hanno raggiunto livelli di perfezionamento ed approfondimento notevoli. Un esempio tra tutti il lavoro di Beebe, Lachman e Jaffe (1999) “Le strutture di interazione madre – bambino e le rappresentazioni presimboliche del Sé e dell’oggetto” che può a ragione essere considerato fondamentale in questo campo.

Anche l’indagine sociologica ha sottolineato l’importanza dell’accudimento e della relazione del bambino con il proprio accudente. Questo ad esempio è dimostrato sperimentalmente da una ricerca sociologica condotta sullo sviluppo della persona (Straufe  2005) segnalata in un loro recente lavoro da Pallier e Soavi (2008) i quali mettono in evidenza che “trattasi di uno studio longitudinale che segue per trent’anni 180 bambini a rischio. Le interviste, almeno 200 ogni soggetto, cominciano dall’ultimo trimestre di gravidanza ed arrivano alle seguenti conclusioni: «Le esperienze precoci, le esperienze genitoriali, le esperienze sociali, le esperienze con i pari e le esperienze private, buone o cattive che siano sopravvivono in equilibrio dinamico fra di loro per tutta la vita.»         « Le madri che ebbero difficoltà a capire i loro bambini si trovano in  difficoltà a capire le loro stesse emozioni »” e concludono sottolineando come dai risultati di tale ricerca si può riconoscere “come molto venga rimandato al tessuto relazionale e ben poco alla responsabilità solipsistica”.

Il caso che presento non appartiene ad una delle patologie più severe con cui il modello relazionale permette pure di cimentarsi; si tratta di una situazione che definirei di microtrauma rispetto a quelle di macrotrauma dei casi più gravi. Risulta però a mio giudizio interessante in quanto presenta tutti gli elementi intorno ai quali si svolge il dibattito attuale della psicoanalisi relativo a questa concezione.

Un ulteriore motivo di interesse è poi fornito dal fatto che si tratta di una rianalisi in cui il modello usato nella prima analisi è diverso da quello usato nella seconda, riconducendoci quindi alla attuale considerazione del confronto tra i diversi modelli della psicoanalisi e delle loro possibilità ed incisività terapeutiche.

Marco, avvocato penalista, sposato con una donna di due anni più giovane di lui e padre di due figli, una ragazza di ventuno anni ed un ragazzo di diciannove, cominciò l’analisi con me a cinquantatre anni per uno stato depressivo che si stava aggravando senza che lui riuscisse più a reagirvi.

Nel corso dei due colloqui che avemmo prima di iniziare l’analisi mi disse che si rendeva conto che una condizione depressiva era sempre stata alla base della sua personalità e che finora era riuscito a distanziarla gettandosi, spesso anche freneticamente, nel lavoro; negli ultimi tempi però questa modalità difensiva non era più bastata ad evitargli di prenderci contatto.

La sua depressione era correlata, a suo modo di vedere, ad un senso di insoddisfazione che permeava la sua esistenza rendendosi conto di rimanere sempre un pò a lato senza riuscire a partecipare al cuore della vita e di avere difficoltà a confrontarsi con gli altri e ad emergere assumendo iniziative personali.

Aggiunse che, a parte alcuni periodi più sereni, per lui vivere era sempre stato molto faticoso  per la sua rigidità, per l’ansia che lo prendeva di fronte  ad ogni prova da affrontare e per la costante sorda preoccupazione che gli potesse accadere qualche cosa che gli rendesse la vita ancora più difficile.

Adesso poi, superati i cinquant’anni, avvertiva con preoccupazione il tempo che passava e le occasioni che perdeva; i figli erano ormai grandi ed autonomi ed avrebbe potuto avere più tempo per sé e per la vita di coppia ma, anche se desiderava interessarsi a tante cose e divertirsi, questo non gli era consentito dalla grande quantità di lavoro e dal rigido senso del dovere che gli lasciavano pochi spazi.

Lavorava in un importante studio penalista il cui titolare era il professore con cui all’università aveva preparato la tesi e dove dopo la laurea era entrato come praticante.

Anche se la professione gli dava soddisfazioni e gli permetteva una vita agiata si sentiva scontento pensando che avrebbe potuto fare di più e di aver fallito rispetto alle aspettative con le quali era partito.

Aveva ormai acquisito una notevole competenza ma a studio si trovava ancora in una posizione di dipendente del titolare e degli avvocati più anziani e finora gli era stata negata la possibilità di diventare loro associato come desiderava per il prestigio ed i guadagni maggiori che ne avrebbe ricavato e si rendeva conto che questo poteva dipendere oltre che dalle loro resistenze anche dalla sua incapacità ad insistere ed a farsi valere.

Aggiunse poi che qualche anno prima gli si era presentata anche l’occasione di lasciare lo studio quando alcuni colleghi che stavano organizzando di aprirne uno per proprio conto gli proposero di associarsi a loro. L’idea gli piacque ma fu preso dall’ansia di non riuscire a farcela da solo nonostante una valutazione realistica lo portasse a ritenere il contrario; per qualche mese rimase altalenante in una dolorosa incertezza, poi alla fine decise di rinunciare. Mi confessò di averci in seguito ripensato spesso con rabbia e rimpianto.

Una parte del suo lavoro si svolgeva anche all’università dove aveva un posto da ricercatore  nell’istituto che era stato diretto dal suo professore; faceva lezioni, esami e seguiva gli studenti nelle esercitazioni e nella preparazione delle tesi.

Anche qui sentiva di non essere riuscito a realizzare le sue aspirazioni, infatti la mancanza di aiuti, l’inibizione a competere con gli altri e l’incapacità a dedicarsi autonomamente in modo creativo alla ricerca non gli avevano consentito di progredire e diventare professore come avrebbe desiderato.

Mi disse anche che aveva già fatto un’analisi iniziata a ventidue anni durante l’università per l’angoscia che provava a fare gli esami che lo aveva bloccato facendolo rimanere indietro negli studi e condizionando la sua vita tutta sterilmente polarizzata sul problema di studiare senza mai sentirsi abbastanza pronto per dare gli esami. Nel corso dell’analisi, effettuata con un analista esperto e durata otto anni, oltre all’angoscia per gli esami furono naturalmente presi in considerazione tutti gli altri suoi problemi, la condizione depressiva, la tendenza all’ossessività ed al perfezionismo, il distanziamento affettivo, la difficoltà ad aprirsi al rapporto con gli altri e la soggezione alla mentalità ed ai voleri dei genitori, di sua madre in particolare.

Mi spiegò che la linea interpretativa seguita dall’analista era stata quella di una sua posizione narcisistica regressiva, ripetuta nel transfert, di possesso della madre con l’esclusione del padre per evitare la rivalità edipica con lui e l’angoscia di castrazione e che in questo senso si era sentito spinto ad accettare il distacco dalla figura materna ed il confronto con quella del padre. Aveva avvertito però questo modo di vedere non completamente calzante con ciò che sentiva ed aveva avuto diverse discussioni con l’analista relativamente alle interpretazioni con cui non si trovava d’accordo.

Al termine dell’analisi comunque aveva considerato di avere ricevuto nel complesso un valido aiuto ed ottenuto buoni risultati; era riuscito infatti a ridurre l’angoscia per gli esami, a riprendere a studiare ed a laurearsi, si era orientato circa l’indirizzo da dare alla professione decidendo di diventare avvocato e scartando l’idea di fare il magistrato come suo padre, era entrato maggiormente in contatto con gli affetti, era diventato più sciolto e sicuro di sé, era riuscito a costruirsi alcuni rapporti di amicizia ed aveva iniziato una relazione con la ragazza che sarebbe  poi diventata sua moglie.

A metà del penultimo anno di analisi, in vista della conclusione, aveva vissuto un periodo di angosce paniche con fenomeni di depersonalizzazione interpretati dall’analista come dovuti al riattivarsi nel transfert di vissuti legati al distacco dalla madre in relazione ai livelli molto primitivi a cui era giunta l’analisi; queste manifestazioni si erano poi progressivamente attenuate fino a scomparire.

Le incertezze e l’ansia legate alla fine dell’analisi erano state affrontate e superate sia durante l’analisi stessa, con l’elaborazione che ne era stata fatta, sia dopo il termine di questa man mano che si era reso conto di farcela a procedere da solo.

Aggiunse che a causa delle difficoltà che aveva vissuto in seguito era stato costretto però a modificare il giudizio positivo su questa analisi e che ora poteva dirsi solo parzialmente soddisfatto dell’aiuto ricevutone avendo dovuto sperimentare negli anni successivi che troppo poco aveva inciso sulla sua condizione depressiva, sulla capacità di affrontare le prove più impegnative e sulla possibilità di sentirsi autonomo e di godere della vita. Mi raccontò infatti che i primi anni che seguirono la fine dell’analisi  furono positivi e felici, dopo un anno si sposò, l’anno successivo nacque la prima figlia e due anni dopo il secondogenito, aveva una buona intesa con sua moglie ed insieme si impegnavano con gioia ad accudire e far crescere i loro bambini.

Si dedicava al lavoro con grande impegno, c’era tanto da imparare, sempre nuove esperienze da fare e tutto questo era un forte stimolo per lui.  A studio collaborava con il professore e gli avvocati più anziani ed il continuo scambio con loro lo faceva crescere e rassicurare rispetto alle sue incertezze;  dava il massimo per farsi considerare ed apprezzare, molto spesso sacrificando il tempo da dedicare alla famiglia. Con i colleghi della sua età si impegnava a mantenere buone relazioni evitando o ammorbidendo  possibili attriti  ed ottenendone in risposta simpatia e rapporti amichevoli.

Con il passare del tempo però sentì attenuarsi l’entusiasmo iniziale e subentrare il peso della routine quotidiana e cominciò ad avvertire senso di insoddisfazione, stanchezza ed oppressione per la grande quantità di lavoro ed i troppi impegni che gli venivano affidati ed ai quali non riusciva a sottrarsi. La crescita professionale poi lo portava ad assumersi maggiori responsabilità con il sorgere di ansia di fronte alla necessità di prendere decisioni autonome.

Sentì la vita farsi pesante e, nonostante le soddisfazioni che gli venivano dalla famiglia e dalla buona riuscita del lavoro, cominciò ad avvertire uno stato depressivo dal quale cercò di difendersi con una iperattività lavorativa che lo fece però sentire sempre più sacrificato e soffocato; si rese conto di essere rimasto imprigionato in un circolo vizioso dal quale era incapace di liberarsi.

Per questa ragione si era deciso a venire da me a chiedermi se era il caso di fare una nuova analisi per riuscire a venir fuori da questa situazione.

L’analisi è stata effettuata con un modello diverso da quello usato nella prima; il precedente analista seguiva infatti il classico modello pulsionale mentre il modello che io ho usato è di tipo relazionale e si rifà a quello di Kohut della psicologia del Sé (Kohut 1971, 1977, 1978, 1984) rivolto alla valutazione ed alla riparazione del deficit di accudimento che il paziente ha subito nel corso dello sviluppo con il difetto del Sé ed i disturbi psicopatologici che ne sono conseguiti.

L’analisi si è svolta con una frequenza di tre sedute settimanali ed ha avuto una durata di sette anni; il paziente vi ha partecipato sempre con impegno venendo con regolarità alle sedute, associando liberamente, portando molti sogni e materiale relativo alla sua vita attuale e passata e facendo collegamenti con ricordi di infanzia in rapporto a ciò che io gli proponevo con le interpretazioni, fornendo così conferme ed ulteriori contributi che ci hanno permesso di ampliare la comprensione.

Marco si è sentito piacevolmente sorpreso dalla diversa impostazione di questa analisi che, mi ha comunicato, gli faceva sentire pienamente compresa la sua esperienza con i genitori ed il rapporto con me come quello con un amico con cui esplorare insieme tale esperienza senza quella fastidiosa sensazione di essere criticato che tanto spesso aveva avvertito negli interventi del primo analista anche se aveva compreso essere dovuta a come critici aveva sempre sentito i  genitori nei suoi confronti. L’atmosfera accogliente e serena che avvertiva lo spingeva ad aprirsi volentieri e a raccontarmi di sé e della sua vita.

Mi ha parlato così di sua madre, tuttora vivente, descrivendola come una personalità depressiva, molto ansiosa, con un forte bisogno di controllo sugli altri che lui ha dovuto subire pesantemente. Mi ha detto di ritenere che questi problemi fossero la conseguenza dell’infanzia traumatica che lei ha avuto, infatti quando aveva due anni i genitori si separarono e quando aveva cinque anni morì sua madre, per questo, essendosi il padre rifiutato di occuparsi di lei, finì in un orfanotrofio dove rimase fino a quattordici anni quando riuscì a farsi accogliere a casa dalla nonna materna con cui visse fino a quando si sposò.

Mi ha parlato di suo padre, morto ormai da sei anni, che era un magistrato ed aveva raggiunto una importante posizione nella professione; era una persona chiusa, metodica ed ossessiva e a causa del suo carattere e dell’impegno che gli richiedeva il lavoro fu sempre molto poco presente in famiglia ed accanto a lui. Mi ha confidato come questo fatto gli procurasse molto dolore facendolo sentire diverso dagli altri bambini e come fossero una festa per lui le rare occasioni in cui gli era data la possibilità di fare qualche cosa con lui.

Mi ha raccontato che la sua nascita avvenne dopo un anno di matrimonio dei genitori che abitavano allora in un piccolo appartamento al piano di sotto di quello della famiglia del padre, famiglia benestante, di solide tradizioni, di tipo patriarcale, guidata dal nonno che con atteggiamento protettivo si intrometteva e cercava di imporre le proprie idee nella famiglia del figlio approfittando anche degli spazi lasciati liberi dalla sua assenza. La presenza del nonno fu costante accanto a lui nel corso dell’infanzia ma il rapporto con lui, dato il suo carattere rigido, fu soprattutto di tipo educativo e non riuscì a compensarlo del calore e dell’intimità che avrebbe desiderato con suo padre e che gli mancavano. Il rapporto con i nonni era poi stato sempre sottilmente osteggiato dalla madre a causa della sua possessività  e della cattiva relazione che aveva con i suoceri che non avevano mancato occasione per farle capire di avere semplicemente tollerato ma non accettato la scelta fatta dal figlio di una ragazza povera e senza famiglia.

Mi ha parlato anche della sorella, più piccola di lui di otto anni, e mi ha riferito, avendolo compreso nella prima analisi, di aver reagito alla sua nascita cercando di annullare la gelosia e l’angoscia per la perdita della posizione di figlio unico con un atteggiamento affettuoso e protettivo verso la bambina e di collaborazione con la mamma nell’accudirla. Il rapporto tra loro  si è sviluppato negli anni in termini affettivi ed ora lei è, insieme a sua moglie, la persona con cui ha la maggiore confidenza.

Mi ha raccontato poi di avere avuto da bambino un rapporto di dipendenza molto stretta dalla madre a suo parere favorito dalla scarsa presenza del padre e determinato dal bisogno di controllo e dai comportamenti iperprotettivi di lei che lo hanno oppresso, limitato nella libertà ed inibito nella spinta a crescere ed a rendersi autonomo. Ha aggiunto che il precedente analista non era d’accordo con questo modo di vedere e, pur riconoscendo i problemi della madre, insisteva nel ritenere determinante nel costituirsi del loro rapporto il suo bisogno di rimanere attaccato a lei e di averla tutta per sé escludendo il padre. Discusse perciò spesso con lui perché questa spiegazione lo faceva sentire respinto nel tentativo di essere compreso riguardo a quanto aveva avvertito la sua vita di bambino condizionata dalle difficoltà della madre e dalla sua esigenza di imporgli la propria volontà per evitare che succedesse qualche cosa che la facesse stare in ansia “Sono sempre stato costretto con le buone o con le cattive a fare quello che voleva lei; quando facevo qualche cosa che non le andava bene improvvisamente diventava gelida, poi si infuriava, gridava e mi menava; avevo tanta paura”.

 Dai racconti della madre ha appreso che da piccolo facilmente si angosciava se restava senza di lei e che quando a quattro anni andò all’asilo ebbe molte difficoltà, ogni giorno infatti il distacco da lei lo faceva disperare, in classe interagiva poco con gli altri bambini e cercava di stare sempre attaccato alla maestra, nel corso dell’anno rimase poi spesso a casa malato. L’anno successivo fu mandato a cinque anni in prima elementare dove non manifestò difficoltà a separarsi dalla madre ma, come egli stesso ricordava, a scuola rimaneva sempre indietro nel fare i compiti e di fronte ad ogni difficoltà si metteva a piangere.

Ha descritto poi le difficoltà che visse per tutto il periodo delle elementari: non riusciva ad interessarsi a quello che doveva studiare, ogni giorno era un tormento essere costretto a fare i compiti e preparare le lezioni, il suo rendimento a scuola era  scadente e lo faceva vergognare di fronte alla famiglia che lo stimolava e si aspettava buoni risultati da lui.  Ora, a distanza di tanti anni, considerava che queste difficoltà fossero dovute alla sua insofferenza alle regole ed alla reazione al comportamento controllante della madre che con la sua presenza incombente non gli permetteva di sentirsi libero di fare la sua personale esperienza nello studio. Ogni giorno infatti sua madre si metteva a studiare con lui con l’intento di aiutarlo, ma in realtà, a suo parere, perché spinta dal bisogno di controllare che studiasse e riuscisse bene a scuola come lei desiderava; a questo comportamento lui reagiva inibendosi e assumendo una posizione di passiva dipendenza cercando di far fare tutto a  lei. Questo atteggiamento a sua volta aveva l’effetto di mettere in ansia la madre che lo spronava, lo rimproverava di essere negligente e spesso si arrabbiava, lo picchiava e se ne andava lasciandolo solo; a questo punto lui, dopo aver pianto disperato, si metteva a studiare qualche cosa da solo che poi portava a lei per essere ascoltato e perdonato. Conferma che le sue difficoltà derivavano dal problematico rapporto con la madre era, a suo parere, il fatto che quando alle medie i genitori si decisero a fargli prendere delle ripetizioni, lui, con l’aiuto di una professoressa  ben preparata e comprensiva che lo sostenne e gli fornì un metodo nello studio, riuscì in breve a fare da solo liberandosi della presenza e del controllo della madre e raggiunse un ottimo rendimento nello studio che mantenne anche al ginnasio e al liceo.

Ho comunicato a Marco che dalla descrizione della sua storia emergevano chiaramente le difficoltà da lui vissute nell’infanzia ed anche, a mio modo di vedere, il fatto che i suoi genitori non sono stati in grado, a causa dei loro problemi, di fornirgli gli aiuti necessari a favorire le sue spinte vitali ed a creare l’ambiente più adatto in cui poter crescere e svilupparsi secondo il suo progetto personale e lo hanno costretto invece a subire la proiezione dei loro aspetti bisognosi e sofferenti che lo ha reso ai loro occhi un bambino sempre bisognoso di cure e protezione .

Ho aggiunto che più in particolare potevamo ipotizzare che sua madre non sia riuscita a svolgere bene per lui le funzioni di rispecchiamento e risonanza empatica necessarie per un sano sviluppo del suo Sé relativamente al polo delle ambizioni facendolo sentire così non riconosciuto e contribuendo a far sorgere in lui l’angoscia relativa al comparire ed all’esibirsi che, come mi ha riferito, lo ha sempre inibito e costretto a ritirarsi ed a vivere marginalmente senza godere delle soddisfazioni che le sue qualità gli avrebbero potuto far avere.

Riguardo a suo padre gli ho detto che mi sembrava evidente come, con la sua scarsa presenza accanto a lui, lo abbia in pratica abbandonato alla madre privandolo del contrappeso necessario per fronteggiare l’invadenza dei problemi di lei ed abbia anche impedito l’idealizzazione della figura paterna con conseguente deficit dello sviluppo del polo degli ideali del suo Sé e della introiezione della calma e della forza di un padre idealizzato.

Gli ho anche espresso il pensiero che entrambi i suoi genitori non siano riusciti ad infondere in lui, evidentemente non possedendoli loro stessi, la fiducia negli oggetti ed il piacere di vivere ed entrare nel mondo per esplorarlo e per competere con gusto con i propri pari.

Marco si è dichiarato d’accordo con me affermando di sentire che quanto gli proponevo coglieva bene i motivi delle sue sofferenze e delle sue  difficoltà e sostenendo con soddisfazione di avvertire che questo nuovo approccio alla comprensione dei suoi problemi riusciva ad abbracciare tutta una parte della sua esperienza che era stata solo marginalmente presa in considerazione dalla prima analisi e che ora trovava finalmente la sua giusta valorizzazione.

Per comprendere meglio l’origine del suo forte sentimento di svalutazione di sé e di inferiorità gli ho poi proposto che vi abbia contribuito in modo determinante il trasferimento in lui, attraverso trasmissione intergenerazionale, delle angosce paniche che sua madre deve aver vissuto da bambina quando morì la madre, non fu accolta dal padre e finì in orfanotrofio. Angosce legate a vissuti di disorientamento rispetto alla tenuta ed alla bontà del mondo ed a vissuti di rifiuto,  di essere un rifiuto, che, anche se non appartenenti alla sua diretta esperienza, sono diventate parte integrante di lui ed hanno partecipato ad indebolire il suo Sé ed a privarlo della solidità di cui avrebbe avuto bisogno per affrontare i passi evolutivi necessari per acquisire l’autonomia personale senza dover restare invece in rassicuranti ma insoddisfacenti posizioni protettive, come ad esempio mi ha detto essergli accaduto quando avrebbe voluto accogliere la proposta dei colleghi di aprire uno studio per proprio conto ma dovette rinunciare per l’angoscia di non farcela da solo.  Nello spiegargli tutto questo ho fatto riferimento anche ad un  suo sogno che esprime a mio parere in modo chiaro l’angoscia di essere un rifiuto e di essere abbandonato ed il suo collegamento con  l’orfanotrofio ed i  dolorosi vissuti infantili della madre.      Nel sogno, fatto la notte seguente ad un giorno in cui aveva avuto un’ accesa discussione con un collega più anziano per  difendere il proprio punto di vista in relazione ad una causa che seguivano insieme e dopo la quale era rimasto in ansia al pensiero che questi, offeso, potesse togliergli l’appoggio e l’amicizia, Marco si trovava in un luogo fatiscente a metà tra un ospedale ed un carcere, c’erano  infatti delle celle con lettini in cui si trovavano abbandonati         bambini deformi e malati; alla loro vista era preso da un’angoscia molto forte e provava a scappare via ma non ci riusciva perché la porta era chiusa a chiave.

Gli ho anche detto che ritenevo che l’intensa vergogna di sentirsi un rifiuto gli abbia impedito di avvalersi degli elementi positivi e rassicuranti che la vita gli ha pure riservato come l’appartenere ad una famiglia, quella paterna, di solide tradizioni e di non essere un senza famiglia come sua madre.

Marco è rimasto colpito ed incuriosito dalla spiegazione del trasferimento in lui delle angosce infantili di sua madre e, dopo averci riflettuto, ha dichiarato di sentire che lo aiutava molto bene a capire il suo problema di svalutazione di sé di cui l’episodio del cambiamento di studio era solo un esempio significativo ma che sempre lo aveva inibito nella vita rendendolo un rinunciatario. Si è detto poi d’accordo anche riguardo al fatto di non essere riuscito a sentire l’appartenenza alla famiglia del padre come elemento di solidità su cui fondarsi ed ha considerato di avere anzi spesso assunto posizioni critiche e svalutative nei confronti dei nonni, le stesse di sua madre ma per lui del tutto ingiustificate. Ha ricordato quindi come da bambino il sentimento di inferiorità e la vergogna rispetto ai coetanei raggiunsero il massimo tra i sette e i dieci anni quando visse un periodo di bulimia che lo portò ad un notevole ingrassamento che gli deformò il fisico relegandolo tristemente nel ruolo del “ciccione”. Mi ha parlato del dolore che provava a vedere la sua immagine rotonda nello specchio e sulle fotografie, della fastidiosa sensazione di incapsulamento nella pesante coltre di grasso che lo avvolgeva, dell’invidia per gli altri ragazzini che si muovevano agili e veloci e della rabbia muta che provava quando lo prendevano in giro per il suo aspetto. Gli ho proposto di comprendere la bulimia e l’ingrassamento come espressione di un recupero orale rispetto a una condizione depressiva che stava vivendo e del tentativo, in un periodo in cui era intenso il bisogno di competere con i suoi pari, di nascondersi dentro un rivestimento di grasso per la vergogna di apparire per quel rifiuto che sentiva di essere e di acquisire, per farsi accettare e ben volere, l’immagine bonaria, contenta e non competitiva che in modo stereotipato le persone grasse tendono ad evocare negli altri. Marco ha accolto tutto questo ed ha aggiunto che quando raggiunse i dieci anni i genitori decisero di condurlo da uno specialista che gli prescrisse una dieta che seguì scrupolosamente riuscendo a riconquistare in un anno peso ed aspetto normali.

Contemporaneamente alla ricerca della spiegazione genetica dei suoi problemi che ha visto la collaborazione attiva del paziente l’analisi si è rivolta alla riparazione del deficit di sviluppo del  suo Sé.

Per questo mi sono impegnato a considerare ed interpretare il tipo di transfert di oggetto-Sé, speculare, idealizzante e gemellare presente nei diversi momenti dell’analisi, a svolgere per lui la funzione di rispecchiamento, a partecipare alle sue emozioni ed a comprendere i miei vissuti  di controtransfert per assicurargli una buona risonanza empatica, a rappresentare per lui un oggetto disponibile a farsi idealizzare.

Nell’ambito della funzione di rispecchiamento ho accolto ad esempio la sua richiesta di leggere il manoscritto di un articolo che era riuscito a scrivere per la prima volta da solo senza la collaborazione di altri colleghi e la cui preparazione lo aveva molto impegnato non solo per la sua elaborazione ma per l’angoscia a mostrarsi che aveva attivato e la paura del giudizio che sarebbe stato espresso su di lui. Mi ha detto che sentiva importante che io partecipassi anche così, concretamente, al suo lavoro oltre che con l’ascolto della descrizione di quello che stava realizzando e con l’aiuto datogli relativamente alle ansie che gli aveva suscitato; ha chiesto anche un mio giudizio, naturalmente non di natura tecnica ma riguardo alla comprensibilità di alcuni punti in rapporto al suo modo di esprimersi, giudizio che gli ho dato volentieri e sinceramente.

Riguardo alla possibilità di essere idealizzato, secondo quanto proposto da Kohut( Kohut 1971), quando il paziente ha mostrato di avere una immagine idealizzata di me sia come analista che come persona ho evitato di fare interventi che lo portassero ad una visione più realistica di me, favorendo in questo modo il mantenimento dell’idealizzazione e l’introiezione della figura paterna idealizzata con la forza e la calma a questa collegate risultata carente nel rapporto con suo padre.

Si è realizzato così nella relazione di analisi l’ambiente favorevole che ha permesso al suo Sé danneggiato di riprendere a svilupparsi. Espressione iniziale di questa ripresa è stato il risveglio dell’attenzione e della considerazione a se stesso; Marco ha rivalutato il proprio diritto a vivere riconoscendo i suoi bisogni e desideri ed ha cominciato ad impegnarsi per soddisfarli e realizzarli; contemporaneamente si è impegnato ad evitare nelle diverse situazioni i comportamenti compiacenti che avevano caratterizzato, per paura di non essere accettato e benvoluto, i suoi rapporti con gli altri costringendolo a rinunciare a ciò che davvero voleva e pensava. Per far questo ha dovuto affrontare ed elaborare l’angoscia che gli altri potessero arrabbiarsi ed abbandonarlo; le prime volte ad esempio quando a studio riusciva nelle discussioni in gruppo a sostenere con energia le proprie idee in contrapposizione a quelle dei colleghi dopo era assalito da violenti crampi allo stomaco che gli ho proposto di comprendere come espressione fisica dell’angoscia primitiva di perdere l’aiuto della madre e morire di fame.

La realizzazione di questi cambiamenti, con il piacere e la soddisfazione che ne ha ricavato, hanno accresciuto la fiducia in se stesso e l’autostima e lo hanno spinto a progredire lasciando le posizioni difensive in cui era fissato per entrare di più nel mondo e realizzare, individuando i suoi interessi, iniziative personali nei diversi ambiti della sua vita.

Attraverso le esperienze vissute ed il lavoro di analisi il suo Sé ha man mano raggiunto maggiore coesione, vigore ed armonia ed ha acquistato con progressive interiorizzazioni la capacità di svolgere autonomamente quelle funzioni che inizialmente svolgevo io per il paziente. Lo stato depressivo che lo aveva spinto a cominciare questa nuova analisi è andato progressivamente scomparendo lasciando posto a una condizione di energia e vitalità. Marco ha acquisito tranquillità, sicurezza, consapevolezza delle sue capacità e decisione nelle scelte venendo meno quella dubbiosa incertezza che era stata una dolorosa caratteristica della sua personalità; ha sviluppato una visione più serena della sua vita e  delle difficoltà che ha dovuto affrontare; ha cominciato a sentirsi creativo, autore ed attore delle proprie scelte.

Il cammino per raggiungere questi risultati è stato impegnativo e costellato dalle angosce che sono emerse e dalle cadute depressive e dalle reazioni di ritiro che si sono verificate.

Le angosce di fallimento e di un giudizio molto severo ed espulsivo nel momento in cui si esponeva e mostrava i suoi prodotti sono emerse in rapporto ad ogni passo evolutivo che si è accinto a compiere; in modo caratteristico sono state espresse spesso da sogni di esame, si trovava a sostenere di nuovo l’esame di maturità o uno dei più impegnativi esami dell’università ma non aveva studiato, non ricordava niente dell’argomento, mancavano pochi giorni alla prova ed era disperato.

Le cadute depressive e le reazioni di ritiro sono state determinate sia da frustrazioni vissute nel rapporto con me in occasione delle separazioni o per una mia risposta non empatica sia da frustrazioni determinate da diverse situazioni della vita; Marco si è sentito allora come svuotato e la sua valutazione di sé si è fatta completamente negativa sentendo azzerato tutto quello che aveva realizzato fino a quel momento, ha pensato che nonostante tutto l’impegno messo nell’analisi i suoi problemi non si sarebbero risolti e non sarebbe riuscito a realizzare il miglioramento tanto desiderato, ha provato intensi il dolore, la vergogna, la rabbia e il bisogno di chiudersi in se stesso. Mentre all’inizio dell’analisi riusciva a venir fuori da questi stati solo con il mio aiuto in seguito sempre di più è riuscito a farlo da solo; del resto con l’aumento di forza del suo Sé questi momenti sono divenuti sempre meno frequenti ed intensi.

A studio Marco, venendo meno il sentimento di inferiorità rispetto agli altri e la paura di discutere e litigare, ha acquisito un comportamento deciso e propositivo ed è riuscito ad esporre con chiarezza le sue idee, ed a sostenerle, dapprima in modo più assertivo poi sempre più dialogato, ponendole come contributo al gruppo dei colleghi ed è riuscito anche ad apprezzare il piacere stimolante di una sana emulazione con loro. È venuto fuori dalla impostazione compiacente e passiva per cui si faceva caricare di lavoro senza essere capace di opporsi e si è liberato degli incarichi che lo appesantivano inutilmente e che non riusciva a lasciare; per farlo è stato capace di sostenere le sue posizioni sentendosi libero ed avendo la soddisfazione di fare quello che aveva deciso lui. Ha recuperato così tempo libero che ha utilizzato per dedicarsi in modo più organico a studiare ed approfondire argomenti giuridici come aveva sempre desiderato fare riuscendo però a dedicarvi finora solo ritagli di tempo e  in modo discontinuo. Superando l’angoscia legata all’esibizione ed al giudizio è riuscito a preparare per la prima volta un lavoro esclusivamente a suo nome su un argomento di Diritto Penale a cui era particolarmente interessato che ha poi presentato ad un convegno riscuotendone molti apprezzamenti.

Ha ottenuto infine di diventare avvocato associato dello studio e ne è rimasto molto soddisfatto sia per aver ricevuto così il riconoscimento ufficiale della sua competenza professionale sia perché si è reso conto che questo risultato è derivato anche dalla sua capacità di impegnarsi per quello che gli interessa e di parlare chiaramente e senza timore di quello che vuole.

È riuscito anche a stare più serenamente in famiglia partecipando con piacere alla vita dei suoi figli, capace di staccare con i pensieri e le preoccupazioni per il lavoro che prima sempre lo avevano disturbato.

La sua maggiore sicurezza ha decisamente giovato al rapporto con la moglie che si è alleggerito del bisogno che aveva di cercare in lei un sostegno per le proprie difficoltà. Marco ora ha potuto trovarla compagna e vivace interlocutrice nelle diverse attività a cui nel tempo libero si è dedicato con gioia a seguito della apertura ad interessi culturali che ha realizzato. Si è infatti interessato ed appassionato alla musica assistendo con regolarità a concerti di musica classica e jazz e facendo letture per approfondirne la conoscenza; si è dedicato con rinnovato entusiasmo alla visita di esposizioni di arti figurative che erano sempre state un suo interesse; ha cominciato a leggere libri di letteratura di vario genere sorprendendosi piacevolmente di riconoscersi il diritto di dare spazio a questo tipo di letture senza essere inibito dall’idea di sottrarre tempo a quelle finalizzate al miglioramento della preparazione professionale.

Ha ripreso anche a viaggiare, con sua moglie da soli o insieme ad amici e l’organizzazione dei viaggi lo ha visto sempre protagonista attivo.

La vita nel suo complesso è diventata per Marco più viva, stimolante ed armoniosamente articolata e lui, trovandosi bene con se stesso, è riuscito a godere delle diverse opportunità che gli offre.

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