Mercoledì, Aprile 24, 2024

NOTA! Questo sito utilizza i cookie e tecnologie simili.

Se non si modificano le impostazioni del browser, l'utente accetta. Per saperne di piu'

Approvo

I cookies sono dei piccoli file di testo che, trasferiti sull’hard disk del computer dei visitatori, consentono di conoscere la frequenza delle visite e quali pagine del sito vengono visitate dai netizen. Si tratta di dati che non permettono di procedere all’individuazione dell’utente (ma la sola provenienza dell’azienda), non incrociamo le informazioni raccolte attraverso i cookies con altre informazioni personali. La maggior parte dei browser può essere impostata con modalità tali da informarla nel caso in cui un cookie vi è stato inviato con la possibilità, da parte sua, di procedere alla sua disabilitazione. La disabilitazione del cookies, tuttavia, può in taluni casi non consentire l’uso del sito oppure dare problemi di visualizzazione del sito o delimitare le funzionalità del medesimo sito, pur se limitatamente ad aree o funzioni del portale.

La disabilitazione dei cookies consentirà, in ogni caso, di accedere alla home page del nostro Sito. Non viene fatto uso di cookies per la trasmissione di informazioni di carattere personale, né vengono utilizzati c.d. cookies persistenti di alcun tipo, ovvero sistemi per il tracciamento permanente degli utenti. L’uso di c.d. cookies di sessione (che non vengono memorizzati in modo persistente sul computer dell’utente e svaniscono con la chiusura del browser) è strettamente limitato alla trasmissione di identificativi di sessione (costituiti da numeri casuali generati dal server) necessari per consentire l’esplorazione sicura ed efficiente del Sito. I c.d. cookies di sessione utilizzati sul Sito evitano il ricorso ad altre tecniche informatiche potenzialmente pregiudizievoli per la riservatezza della navigazione degli utenti e non consentono l’acquisizione di dati personali identificativi dell’utente. Coloro che intendono avvalersi della sezione riservata del sito prestino attenzione alla specifica informativa anche relativamente all’uso dei cookies.

Ambrosiano L. - Il transfert sul maestro (2010)

Venerdì 10 dicembre – ore 21.15

Serata Intercentri CdPR/CPdR

Presenta Laura Ambrosiano

Discutono Tiziana Bastianini, Antonello Correale

 

IL TRANSFERT SUL MAESTRO

                                                          

 

Laura Ambrosiano

“Si aveva ... quanti anni? Forse venticinque, e si cominciava una analisi come ci si sarebbe introdotti e poi immersi nel nuovo mondo [...] con Cristoforo Colombo come ideale, una gran paura e una grande meraviglia. Si prendeva la decisione e si tratteneva il respiro [...] La psicoanalisi ha tradito i suoi ideali? Le Società psicoanalitiche sono state un nuovo mondo? Gli psicoanalisti hanno tradito gli ideali della psicoanalisi?” (M. Gribinski 2010, 371).

 Introduzione

            Nella crescita abbiamo bisogno di proiettare nell'oggetto non solo la paura di morire ma anche quella di vivere senza aiuto. L'allievo, nel percorso di training, teme la sua interna spinta a diventare psicoterapeuta, psicoanalista, teme l'attivazione di questa spinta in modo prematuro, ha desiderio e paura del futuro.

Il maestro è, per antonomasia, un canale di comunicazione tra l'allievo e il suo futuro sviluppo. Il maestro stesso, analogamente all'analista in seduta, deve permettersi di sperimentare le pressioni interne che gli derivano dagli allievi, il transfert degli allievi, quanto basta per esserne cosciente e per poterle accogliere senza agirle. Freud, Winnicott, come accade a ciascuno in talune circostanze, nelle narrazioni che abbiamo a disposizione, talora sembrano temere di avvicinarsi alle esperienze emotive degli allievi, sembrano temere di essere contagiati dalle loro angosce, dubbi e richieste.

Freud inscriveva l'attaccamento di Tausk in uno scenario edipico e temeva di essere ucciso dal figlio troppo appassionato, senza cogliere la difficoltà di questi ad entrare nella rivalità edipica. Il salto generazionale portava l'allievo a trasgredire i confini della nuova disciplina stabiliti dal maestro, andava aldilà. Freud lo fraintese, cogliendo come un attacco personale quello che dava vita ad un salto teorico, forse prematuro per i tempi, forse disorganizzante in quella iniziale fase della psicoanalisi, ma fertile e ricco. Sicché l'allargamento di campo inteso dal maestro come dissenso, divenne anche nella mente di Tausk come una “trasgressione” confusiva o distruttiva.

        Tra Khan e Winnicott circolava un sentore di interminabilità implicita nel loro legame difficile da analizzare. Il bisogno di holding e accudimento dell'allievo doveva sembrare ad entrambi incolmabile, mostrando i limiti del pur rivoluzionario approccio winnicottiano.

Entrambi gli allievi compirono delle trasgressioni etiche, queste trasgressioni urlavano: qualcuno ci troverà e ci parlerà, ma questo non poté accadere. 

La deriva che, spesso, colpisce terapeuti geniali portandoli alla violazione del setting e alla trasgressione, delinea una sindrome complessa che coinvolge la presenza dei maestri, dei gruppi, e delle Istituzioni di appartenenza. I comportamenti anomali dicono qualcosa che concerne l'intero  gruppo e l'Istituzione nel suo insieme.

Se i maestri e l'Istituzione non sono presenti emotivamente in queste vicissitudini alcuni discepoli si deteriorano, si frammentano, agiscono quelle spinte trasgressive che attraversano il campo istituzionale, fino alla costituzione di fantasie scismatiche.

 Questioni deontologiche

 Siamo soliti ricondurre le infrazioni etiche a stati patologici del singolo psicoanalista, ad un deterioramento del tipo del burnout professionale. Nel corso del tempo l'interpretazione di questa sindrome, da parte dei ricercatori, si è arricchita di molti aspetti che ci riguardano. 

Vale la pena ricordare che “burnout” è una sindrome patologica a carico di tutte le professioni con elevata implicazione relazionale, che richiedono coinvolgimento emotivo, che possono suscitare ansia, senso di inadeguatezza e paura (O. Manca Uccheddu, A. Viola, 2008). Si tratta di uno stato di fatica o frustrazione determinato dalla devozione a uno stile di vita, ad un lavoro e interesse, non compensato da risultati immediati.

Il  mestiere di psicoanalista implica un sovra-investimento e un sovra-coinvolgimento che, di per sé, può esporre al logoramento. Ciò spinse Freud (1937) a suggerire l'opportunità di sottoporsi a tranche di analisi successive nel corso del tempo. Accanto alla indicazione di Freud oggi siamo più consapevoli che, per esercitare questo strano mestiere, l'analista ha bisogno del gruppo come interlocutore scientifico e come testimone del senso di un lavoro che si svolge appartato, in (apparente) isolamento dalla realtà sociale. 

Il burnout è stato definito come un virus dell'anima, esso descrive il drammatico percorso dall'iniziale entusiasmo idealizzante verso il proprio lavoro alla caduta delle idealizzazioni, con un senso di frustrazione e delusione.

La delusione può produrre una apatia che sembra una vera e propria morte professionale, una chiusura verso l'ambiente istituzionale e verso i colleghi, atteggiamenti aggressivi e comportamenti di isolamento. Si può generare un atteggiamento di indifferenza e cinismo versi i pazienti e verso la propria professione, fino al declino delle capacità professionali.

L'esperienza della pratica professionale normalmente produce intense ferite narcisistiche: accorgersi di provare talora disinteresse e intolleranza, odio e noia verso i pazienti, può essere una ferita inconsolabile, una minaccia ai propri ideali e alla fiducia nella psicoanalisi stessa.

Proprio queste ferite, se non elaborate, possono innescare un atteggiamento imitativo: fare la parodia dei propri maestri, mentre dentro cresce la rabbia verso se stessi, verso i pazienti, verso la psicoanalisi, verso i colleghi stessi, complici dell'inganno nel quale si sente di essere caduti.

Il burnout comporta rischi di agiti, di attacchi al setting, di intrusioni nella vita del paziente, di ricerca della sua ammirazione e devozione, di atteggiamenti paternalistici e di incontenibile impulso a spettegolare sui colleghi. Ricordo che in tutti i codici deontologici, compreso quello della Società Psicoanalitica Italiana, il primo articolo parla del rispetto necessario nel rapporto con i pazienti, con i colleghi e con l'istituzione.

I primi segnali della deriva trasgressiva sono l'abbandono della neutralità verso i pazienti e del rispetto verso i colleghi, come segno di una tacita protesta.

I ricercatori aggiungono qualcosa di interessante: il candidato ideale per il burnout è un individuo carismatico, energetico, teso a standard elevati, bisognoso di riconoscimenti (Uccheddu e Viola 2008). Si tratta spesso proprio di quei professionisti che sembrano promettenti, su cui l'organizzazione investe molto, che si sentono circondati da alte aspettative, portati in palmo di mano di maestri. Sono, evidentemente, anche individui molto dipendenti dall'ambiente professionale, dagli standard che esso indica come desiderabili, dall'implicito incoraggiamento a dare il meglio di sé.

Freud, Lacan e Kohut hanno sottolineato, ognuno dal suo vertice teorico, la connessione tra l'ideale dell'Io e il gruppo, il sociale. L'ideale dell'Io esprime ed emerge dall'attaccamento a significanti gruppali, ciò mette a fuoco la dipendenza dal riconoscimento altrui (Freud 1921-1932).  

Un individuo appassionato di psicoanalisi e desideroso di essere un buon terapeuta e un originale pensatore si sente più esposto al giudizio dei colleghi e dei maestri, e, specularmente, al rischio della compiacenza. Con il farsi dell'esperienza ci si accorge anche che gli ideali dei gruppi sono complessi e mutevoli; per il singolo è a volte difficile orientarsi, può avere l'impressione che il gruppo, i maestri, invalidino il suo operato proprio là dove lui si aspettava dei riconoscimenti. Ai suoi occhi il gruppo diventa allora minaccioso e ostile, mentre le delusioni minano il senso di consistenza personale e l'individuo comincia a pensare di non valere nulla.

In definitiva il burnout emerge dall'intreccio tra il peso emotivo del lavoro con i pazienti, i tratti personali narcisistici e la dipendenza dal gruppo e dai suoi ideali. Elementi personali, relazionali e valoriali, organizzativi e culturali ne sono alla base.

Non solo l'analisi personale, ma anche l'atteggiamento dei maestri e del gruppo nel suo insieme sono elementi di protezione da futuri rischi di burnout, quando attenti a lavorare sulla disillusione e sugli strumenti psichici per affrontarla.

Qualcuno ci troverà e ci parlerà

 Propongo ora due narrazioni che tracciano schematicamente le vicende di due psicoanalisti affetti da sindrome di burnout. Non intendo proporre una ricostruzione storica, né una disanima dei loro importanti contributi scientifici, l'elemento centrale è invece quello del rapporto discepolo-maestro.

Suppongo che una serie di atteggiamenti e comportamenti di quegli psicoanalisti che trasgrediscono al setting, esprimano una fallimentare battaglia per emanciparsi dalla idealizzazione dei maestri e dal bisogno di riconoscimento da parte del gruppo. I comportamenti trasgressivi possono anche apparire come una tacita ricerca di aiuto rivolta al gruppo e ai maestri stessi. È come se, mentre sono incastrati in un rapporto annichilente, questi colleghi mandassero una richiesta: qualcuno ci troverà e ci parlerà.  

Victor Tausk

            Erano anni duri, l'impero è smembrato, Vienna è distrutta, manca tutto, il cibo, il carbone, e, naturalmente i pazienti. Tausk è reduce dalla guerra che gli aveva fatto sospendere la sua attività per alcuni anni. A quarant'anni viveva come uno studente in miseria, dovendo anche contribuire al sostentamento di due figli e una ex moglie, ma dimostrava per la psicoanalisi quella dedizione assoluta che Freud chiedeva ai suoi allievi. Nei primi due decenni del 1900 la psicoanalisi era una professione rischiosa, solo con l'aiuto di Freud e del suo Circolo si poteva contare sull'invio di un certo numero di pazienti. Tutti i pazienti passavano da Freud, pertanto gli allievi dipendevano dal suo favore e dalla sua benevolenza. Si aveva bisogno di un gruppo in modo molto concreto, per sopravvivere, oltre che come necessario interlocutore scientifico. I discepoli di Freud avevano bisogno della sua approvazione, altrimenti correvano il rischio di andare ad ammassarsi nel sottoproletariato della professione medica. Sulla base di questi elementi, oltre che per la sua coraggiosa genialità, Freud regnava come un Dio in trono e i suoi discepoli davano forza di legge alle sue parole. Molti anni dopo la morte di Freud, Federn scrisse che prima veniva Dio, poi Freud poi vostro padre (Roazen pag.169). Era importante farsi apprezzare dal Maestro, dare contributi originali, ma con cautela perché questo poteva talora apparire agli occhi del Maestro stesso come una espressione di dissenso e di ostilità nei suoi confronti. I primi allievi erano tutti molto dipendenti da Freud, in forte rivalità fra loro, ciascuno aveva scarsa stima degli altri, spettegolava e criticava gli altri. Anche Freud non era soddisfatto dei suoi allievi, ne parlava spesso male, faticava ad apprezzare il loro lavoro. 

Victor Tauskun pioniere nel trattamento delle psicosi e pose le basi per i futuri ricercatori che si sono spesso ispirati a lui. Freud aveva molto oscillato prima di tracciare un solco netto tra nevrosi e psicosi. Peraltro egli si riteneva un pensatore, un ricercatore e non un terapeuta, anzi temeva che la psicoanalisi si risolvesse semplicemente in una terapia. Tausk tentò con passione e originalità proprio questa strada. Egli fu il primo a sostenere che, aldilà dei conflitti interni, la psicosi è una falla nell'Io, è un fallimento di un Io debole che va rinforzato Il concetto di identità e identificazione sono alla base dello scritto di Tausk La macchina influenzante.

Come terapeuta era appassionato, aveva empatia e disponibilità ad identificarsi. Ma, riteneva, come avrebbe poi sostenuto Ferenczi, che il metodo andasse sottoposto a revisioni per rendere accessibili pazienti psicotici. Tausk metteva in gioco atteggiamenti cosiddetti materni, come Ferenczi, cosa che a Freud riusciva difficile accettare, non solo sul piano personale ma anche su quello deontologico. Infatti egli riteneva che una giusta distanza, un atteggiamento di osservatore obiettivo, proteggeva i pazienti dalle intrusioni e dal narcisismo degli analisti. Occorre insegnare al paziente, al discepolo, a liberarsi e a realizzare la propria natura non a rassomigliare ai suoi analisti e maestri, egli sottolineava.

In generale Freud aveva difficoltà ad accettare idee altrui, doveva sviluppare le cose a modo suo, all'interno della sua impalcatura, Jones ha sottolineato il timore di Freud di essere influenzato (Roazen, pag. 96): quando incontrava idee estranee Freud doveva elaborarle fino a quando non riusciva a inquadrarle nella propria struttura mentale, aveva bisogno di trovare un punto di contatto con il suo pensiero, con i suoi sentieri tortuosi, egli stesso li definiva.

Il problema di Tausk era il suo rapporto con Freud, denso di un mai trovato equilibrio tra dipendenza e originalità personale.

L'allievo si interessava degli stessi problemi di cui si interessava Freud, anzi a volte gli dava l'impressione di anticipare alcune sue formulazioni. Freud si sentiva a disagio con Tausk per la sua eccessiva dipendenza e contemporaneamente per l'indipendenza di pensiero che talora questi manifestava. Durante una conferenza del mercoledì in cui Tausk presentava un lavoro, Freud passò un biglietto a Lou Salomè in cui aveva scritto: “Sa già tutto?”. Freud temeva che l'allievo potesse defraudarlo di alcune sue idee prima che egli le avesse formulate in modo definitivo. Tausk, infatti, pareva anticipare alcuni suoi concetti e Freud viveva nell'incertezza che avesse qualche idea prima di lui. I contributi scientifici di Tausk erano importanti e significativi, non solo quello molto noto su La macchina influenzante, ma anche i lavori sui traumi di guerra, sulla diserzione e, soprattutto, gli scritti sulla psicosi. In pubblico Freud esprimeva apprezzamento per questi scritti, acuti e chiari diceva; ma in privato ne parlava come di elucubrazioni che gli erano del tutto incomprensibili (pag.76). 

Quando nel 1918 Herman Nunberg, al Congresso di Budapest, presentò la proposta di rendere obbligatorio per tutti gli analisti sottoporsi ad una analisi personale, Tausk colse l'occasione per realizzare la sua grande aspirazione: farsi analizzare dal maestro, così ne fece richiesta. Freud lo respinse perché, come disse a Nunberg, egli era un “cane al guinzaglio”. Forse Freud temeva che accettare di analizzare Tausk avrebbe esasperato i problemi interni al gruppo, provocando un dissidio aperto tra i discepoli. Forse Freud temeva che Tausk gli “abbaiasse”, che lo divorasse, come ebbe a dire, sempre a Nunberg. Pertanto inviò il discepolo da Helene Deutsch, sua analizzanda di cui aveva piena fiducia e di cui conosceva bene la fedeltà.

Il Maestro aveva così invitato l'allievo in un triangolo sentimentale: Helene nelle sue ore di analisi parlava a Freud di Tausk e lui le dava vari suggerimenti; Tausk nella sua analisi con Helene parlava di Freud e cercava informazioni su di lui. In questo modo si ricostituiva quel triangolo che avevano già sperimentato ai tempi del legame sentimentale di Tausk con Lou Salomè, si parlavano da lontano per il tramite di una donna. Tausk pensava che, per mezzo di Helene, lui avrebbe potuto difendere la propria causa presso il riluttante Maestro.

Nell'analisi H. Deutsch attribuì a Tausk solo qualche problema nevrotico, non ne colse le angosce profonde. Egli era forse riuscito ad esibire con lei una personalità fittizia come sapeva fare bene; non mostrò mai tendenze suicide, era il personaggio espansivo e brillante, dinamico e allegro, che la Deutsch aveva conosciuto in società.

Freud percepiva Tausk come troppo veloce e intuitivo, si sentiva incalzato, l'allievo non gli dava tempo, questo lo metteva a disagio, a lui piaceva limare le proprie idee in solitudine. Tausk lo aveva anticipato alcune volte, nel 1914 aveva presentato una relazione sulla malinconia, tema sul quale stava lavorando Freud, addirittura aveva citato idee di Freud ancora inedite che egli intendeva perfezionare prima di pubblicarle. Lavoravano in modo diverso. Ciascuno dei due temeva di essere derubato delle sue idee dall'altro, e ciascuno dei due aveva motivi per crederlo. Freud ebbe a dire dei suoi allievi che erano come dei cani: “Prendono un osso e vanno a rosicchiarlo da soli in un angolo. Ma l'osso è mio!” (pag. 170).

Il timore di plagio rendeva complicate le cose. Ricordiamo che Freud aveva sfiorato  problemi di questo tipo, per esempio con Fliess (Roazen, pag. 98), all'epoca aveva commentato che le idee non si possono brevettare, ci si può solo rifiutare di comunicarle e tenerle per sé. Freud preferiva tenerle per sé, gli piaceva sentirsi come un pioniere che si apre la strada da solo.

Ma nell'atmosfera surriscaldata del Circolo viennese di quegli anni, come del resto accade in ogni gruppo di ricerca, era spesso difficile dire chi avesse espresso una idea per primo. Un bell'esempio di questo viene raccontato da R. Corsa (2010) intorno alla pulsione di morte, nozione introdotta da Stekel nel 1907, sviluppata da S. Spielrein in una relazione presentata al Circolo viennese nel 1911, infine teorizzata da Freud nel 1920, dove si limitò a citare in nota la relazione delle Spielrein. Il fitto scambio che intercorreva tra i membri incentivava le paure di essere defraudati di proprie intuizioni.

Tuttavia Tausk cercava di essere curato. 

Tausk aveva un bisogno estremo di essere il figlio prediletto, tanto vero che accettò di rivolgersi ad H. Deutsch, secondo l'indicazione di Freud. Per lui quell'invio  era un insulto, un rifiuto, un abbandono, Freud aveva definitivamente rotto con lui, aveva compiuto un duro ripudio.

Perché Tausk gli obbedì? Lou Salomè aveva intuito la sua difficoltà a rendersi indipendente e ad emanciparsi da Freud.

Tausk amava l'indipendenza di Freud, quella che gli appariva come l'autosufficienza di Freud lo attraeva, lo incantava, forse anche se ne sentiva protetto. Tausk aveva molta paura dei legami di dipendenza ma, nel legame con Freud, entravano in gioco, appunto, suoi aspetti di passività, dipendenza, obbedienza compiacente. Quella che gli sembrava come l'impermeabilità del Maestro, forse lo proteggeva dai suoi conflitti sulla dipendenza e sulla passività. In modo illusorio egli riteneva di poter vivere le sue tendenze passive senza timore di essere ingoiato dal maestro, che non aveva bisogno di lui (Roazen pag.126).

Tausk aveva troppo bisogno di Freud ed era troppo sensibile, questo troppo spingeva Freud a volersi liberare di lui per non correre il rischio di esserne ingoiato (Roazen, pag.117). Così Freud impose alla Deutsch di interrompere l'analisi con Tausk iniziata da appena tre mesi, avvertendo l'urgenza di porre fine alla triangolazione incestuosa che si era creata. 

C'è dell'altro. Sulla base di calcoli e previsioni personali quanto astruse Freud pensava che sarebbe morto intorno ai sessanta anni di età, cioè nel 1918-1919. Non morì e questo lo portò ad avere fretta, a pensare che non poteva perdere tempo. Freud era molto turbato dal pensiero continuo della propria morte, per cui ogni uomo poteva trasformarsi per lui in un figlio pieno di rivalità e parricida. Il punto focale delle sue idee era che ogni uomo deve, in un certo senso, uccidere il proprio padre, soppiantarlo e soppiantare i sostituti paterni, i modelli, i maestri. Si occupò relativamente poco di ciò che Laio aveva fatto a danno del figlio, del desiderio della morte del figlio, dell'allievo, l'altra faccia della costellazione edipica. Nel rapporto padre-figlio, maestro-allievo può prevalere una sorta di cannibalismo per cui: “ogni allievo è il maestro che è stato incorporato durante il pasto e perciò distrutto in quanto tale, e ogni lezione consiste nella uccisione difensiva e profilattica dell’allievo da parte del maestro” (F. Napolitano 1999, pag. 34).

I rapporti del Maestro con tutti i suoi discepoli furono intensamente attraversati da questi fantasmi reciproci.

L'allievo Tausk non si risolse a lasciare il maestro, apparentemente con il maestro strinse un vincolo masochistico. Come reazione all'interruzione dell'analisi con la Deutsch decretata da Freud, Tausk compì una trasgressione etica, iniziò una relazione sentimentale con una ex paziente, cosa che il maestro vituperava al massimo. La grave trasgressione etica, forse, fu anche il solo atto di protesta e ribellione da parte di Tausk.

Lavorare con Freud dava molta eccitazione e soddisfazione, ma anche molta frustrazione, il senso di autonomia personale ne soffriva. Freud non accettava rivali, anche se poi disprezzava chi si metteva docilmente al suo seguito come un cane al guinzaglio! Nei suoi allievi cercava indipendenza e originalità, ma poi si infuriava se questi la esprimevano. 

Tausk si sentiva soffocato, ma non aveva la capacità di affrancarsi da Freud, di ribellarsi.

Aveva troppo bisogno di Freud. ****

Questo troppo ci parla di una dimensione primaria in cui l'amore del bambino, del discepolo, è un amore passivo la cui meta è di essere amato, di avvertire un riposante senso di benessere, come lo definiva Balint (1937). Il bambino, il discepolo, desidera viversi come in una unità indifferenziata con il maestro e per mantenere questa condizione sviluppa comportamenti attivi: si aggrappa, segue da vicino il maestro, lo imita, gli mostra le sue capacità...

Dentro l'amore appassionato per il maestro, cogliamo bisogni primari.

Tausk amava troppo Freud e lo odiava proprio per questo. I padri si odiano quando non soccorrono nel compito di separarsi, ma, a loro volta, propongono un rapporto intriso di elementi primari non ancora elaborati. Freud, come è noto, aveva difficoltà dinanzi a questo troppo, provava fastidio ad accostare negli allievi questi livelli, basti pensare alle vicende con S. Ferenczi. 

Dinanzi alle difficoltà del maestro ad accogliere le dimensioni primarie dell'allievo, il rapporto si incista sul potere, sulla attribuzione rigida della posizione attiva e di quella passiva, propone l'incontro con un padre dominante incapace di accettare le sfide dei figli. Freud vedeva i contrasti di idee come un affronto personale, come era accaduto con Adler nel 1911, che subì un vero e proprio processo con l'accusa di eresia. “Pensa che sia piacevole per me vivere sempre all'ombra di lei?”, dichiarava Adler, dando espressione al disagio di tanti altri allievi, certamente di Tausk.

Agli allievi, allora, non restava che preservare l'idealizzazione del Maestro per mantenere la fiducia nel proprio lavoro in tempi pieni di dubbi e di potenziale discredito per la psicoanalisi.

Dopo avere lottato contro la psichiatria ufficiale e essersi schierato a difesa della nuova disciplina, Tausk si trovò solo, rifiutato e lasciato a vedersela da sé con le sue spinte emancipative; il Maestro non lo avrebbe aiutato ad emergere dal gorgo dei bisogni primari, che si riproponevano prepotenti nel rapporto.  

Il giorno prima del suicidio, 2 luglio 1919, Tausk non si presenta ad una riunione del mercoledì, manda una lettera a Freud “... non voglio che la Sua presenza mi porti a desiderare di fare ricorso al Suo aiuto. Forse sarò libero presto di accostarmi a Lei” (Roazen, pag.133).

Tausk compì un doppio suicidio, sparandosi e impiccandosi. Forse uccise se stesso e la sua dedizione a Freud, forse uccise se stesso e la sua identificazione con il Maestro che lo attanagliava in modo irriducibile. Il desiderio di divenire il figlio prediletto del Maestro era stato da questi stroncato brutalmente, deriso e umiliato, dopo le forti aspettative iniziali. Per una equazione inconscia ogni suicidio è anche un omicidio, allora è “doppio” perché Tausk intendeva togliere di mezzo se stesso e Freud allo stesso tempo?  

Dopo il suicidio la lettera che Tausk inviò ai familiari diceva: “Vi ho ingannati tutti vivendo un ruolo di cui non ero all'altezza”. Egli non voleva distribuire colpe, ma riversava su di sé l'accaduto. Aveva faticato per diventare un genio, come Freud, ma le sue doti non glielo avevano consentito. L'idealizzazione della psicoanalisi e del suo fondatore non aveva potuto essere elaborata e trasformata nel corso dell'esperienza.

Freud attribuì il suicidio alla terribile esperienza della guerra cui l'allievo aveva preso parte. Non seppe dare altre ragioni né al figlio di Tausk che lo andò a trovare, né a Lou Salome cui scrisse, né a se stesso. 

Il suicidio è un atto intimo e personale, ma è pure influenzato dal sociale, talvolta arriva ad essere un atto di obbedienza ad una spinta proveniente dal sociale (Durkheim 1897). Viene da pensare al desiderio di Freud che Tausk si togliesse di mezzo, ad un suicidio come atto di obbedienza al Maestro.

Nel necrologio Freud sottolinea la grande dedizione di Tausk alla causa della psicoanalisi, il suo grande desiderio di perfezione e di nobiltà, il coraggio di andare controcorrente, il fascino e l'antipatia che sapeva ispirare. In un registro più privato, scrive a Lou Salomè del sollievo provato all'idea che Tausk si fosse finalmente tolto di mezzo. “Così è terminata una battaglia con il fantasma del padre durata tutta la vita. Lo descrive come un velleitario inconcludente, Tausk lo irritava, era una minaccia per il futuro della disciplina.

Ai tempi del suicidio dell'allievo, Freud cominciava a pensare al concetto di istinto di morte, lavorava intorno al suicidio dell'allievo? 

E il gruppo? Dobbiamo vergognarci di non essere riusciti a trattenere Tausk, [.... ] penso spesso a lui, non ho il coraggio di andare a trovare i suoi, anche perché non posso spiegare loro come stanno esattamente le cose”, scrive Federn alla moglie (cit. in Roazen pag.74). Secondo questo altro discepolo fedelissimo, Tausk si lasciò schiacciare e fu spinto al suicidio dal rifiuto di Freud. L'esclusione dalla comunità era un annientamento peggiore della morte in quegli anni difficili.

Nel 1909 Tausk presentava una imponente relazione ai seminari del mercoledì (27-10-1909), tracciava una storia della filosofia, i presenti presero parte vivacemente alla discussione con dotti interventi più o meno critici. Ma nessuno sembrò rilevare che Tausk  definiva Aristotele come il maestro di Platone! Freud dovette intervenire: "Platone è il più vecchio" (cit. in F. Napolitano 1998, pag.89), rimettendo a posto le relazioni intergenerazionali, agitate per tutti i componenti del gruppo.

Questa lunga narrazione ha l'intento di andare aldilà della che si potrebbe fare di Tausk, puramente psichiatrica e descrittiva, per cogliere il cono di funzionamento psicotico che, talora, si addensa nel rapporto allievo-maestro costituendolo come chiave espressiva delle difficoltà che investono l'intero gruppo. Analoghe considerazioni, infatti, valgono per il rapporto tra Winnicott e Masud Khan. 

Masud Khan

            Winnicott ha dato un enorme contributo allo sviluppo della nostra disciplina, ha proposto coraggiose aperture di pensiero tesi a considerare l'ambiente e la qualità degli oggetti, irrinunciabili per noi oggi. Per queste coraggiose aperture ha sofferto disagi, è stato, a lungo, tacciato di eresia. Siamo anche tutti consapevoli di usare quotidianamente, nel nostro lavoro, concetti elaborati da Masud Khan, innanzitutto sulle vicissitudini del sé e sul trauma cumulativo, diventati ormai patrimonio comune. In queste pagine intendo descrivere il cono di funzionamento psicotico che si è installata nella relazione tra questi due grandi psicoanalisti e lo assumo come segnale del disagio di tutto il gruppo.

Io credo che oltre alle motivazioni profonde, le tante biografie di Khan siano dettate anche dal bisogno di non rimuovere la sua presenza nella storia del pensiero psicoanalitico, di fare i conti con la sua follia e con gli interrogativi che essa pone riguardo il problema della salute mentale dell'analista e della difficile gestione di casi come questi da parte dell'istituzione psicoanalitica” (P. Molone 2009). Con queste parole Molone commenta sulla Rivista di Psicoanalisi un interessante volume sulle vicende di Masud Khan e riapre degli interrogativi che ci inquietano e ci addolorano.

Per la biografia di Khan rimando al volume in oggetto di F. Gazzillo e M. Silvestri (2008), qui vorrei riprendere alcune questioni che sono centrali per il nostro tema: l'ombra di un funzionamento psicotico nella relazione maestro-discepolo come elemento del burnout dello psicoanalista.

Linda Hopkins (1998) si chiede cos'è che non ha funzionato nella analisi di Khan con Winnicott e ipotizza che l'analista non abbia applicato le sue proprie teorie sull'importanza di impegnarsi nell'analisi dell'odio e dell'aggressività del paziente. Winnicott viene descritto da alcuni pazienti (per esempio Guntrip) come una buona madre creativa e nutriente. Ma gli aspetti conflittuali emergenti nello stesso rapporto primario, raccontano, non vengono da lui presi in considerazione né interpretati. L'analisi di Khan, sostiene Hopkins (ibid.), sembra un lungo maternage durato quindici anni che consentì a Khan di controllarsi un po', finché Winnicott fu in vita. Khan era grato a Winnicott di avergli fornito un ambiente di tranquillità e silenzio, ma questo non fu sufficiente per emergere dalle carenze primarie. Egli cercò di porvi rimedio con intense idealizzazioni: della madre logorroica, come del padre distante, che, in fantasia, diventò per lui un principe, gigantesco, nei suoi quasi due metri di altezza, nelle sue ricchezze, nelle sue quattro mogli e almeno otto figli...  

Perché Winnicott, che era la persona che meglio conosceva la sua vulnerabilità, accettò di terminare l'analisi con Khan? Avvertivano entrambi un senso di incompletezza dell'analisi, infatti, forse per questo, Winnicott se lo tenne vicino dopo l'interruzione e fino al giorno della sua morte. Forse presagivano una relazione interminabile e se ne sentivano prigionieri. Forse Winnicott era vittima di una fascinazione per questo paziente-figlio che era quello che lui avrebbe desiderato essere?

Il comportamento di Khan si deteriorò nettamente dopo la morte del suo analista, dando a molti l'impressione che con comportamenti scorretti esprimeva quella ribellione verso l'analista che non aveva potuto esprimere direttamente con lui. In effetti attraverso i suoi comportamenti Khan sembrava proclamare che Winnicott aveva fallito (F. Gazzillo, M. Silvestri 2008, pag. 66).

Masud Khan soffriva probabilmente di un disturbo bipolare aggravato dall'alcolismo. Era sempre stato affetto da sintomi: un mutacismo infantile, una anoressia giovanile, la fobia dell'acqua, la paura delle separazioni, i periodici attacchi di depressione vuota e di terrore.

A. Bauduin e P. Denis (2003) definiscono Khan come un narcisista perverso, con una personalità scissa e mortifera. Questo ovviamente non li esime dal dare riconoscimenti all'opera di Khan tesa a smuovere una certa sclerosi in cui, in quegli anni, si trovava la Società Britannica di Psicoanalisi. Ma gli AA. francesi cercano gli elementi teorici della concezione di Khan che favorirono i passaggi all'atto e li trovano, a loro modo di vedere, nella esaltazione di Khan della posizione materna dell'analista, e nell'assunto che, attraverso questa posizione, l'analista possa riparare i difetti e i traumi primari, vale a dire nella centralità della holding rispetto all'interpretazione.

Negli anni '50 la British Society era attraversata da violente ventate scissionali, forse proprio per questo la Società era superficialmente permeata da un clima di conservatorismo e di perbenismo. In quegli anni Khan proponeva idee nuove che suscitavano timori e diffidenza. Egli si poneva sulla linea tracciata da Fairbairn, Helene Deutsch e Winnicott stesso, nel tentativo di sviluppare nuove modalità interpretative e di gestione dei bisogni dei pazienti al limite, coloro che “non possono mai essere”, come diceva il suo maestro. Khan sottolineò la fragilità del sé, il ruolo dei fallimenti ambientali (trauma cumulativo), interpretò in modo innovativo l'acting e la perversione.

Ad avversarlo furono soprattutto i kleiniani, già schierati in un conflitto acceso contro Winnicott.

Secondo Khan però non era solo una questione di differenze teoriche, lui sosteneva che c'entrasse l'intolleranza razzista che egli coglieva negli inglesi verso gli stranieri, cosa cui spesso si riferiva con amarezza e un senso interno di rivendicazione. Scrive: “...ogni cultura ha le sue ipocrisie, ma quelle degli inglesi sono particolarmente ben strutturate... Winnicott un giorno gli chiede: “Perché mai questi stranieri ci scimmiottano?”. Khan reagisce: “Anche io lo sono e non scimmiotto nessuno, è che voi inglesi non apprezzate gli stranieri... li incoraggiate a imitarvi!” (Khan, 1980 pag. 56-61).

Già nel corso dell'analisi tra Khan e Winnicott proliferavano intrecci professionali e personali, sullo sfondo di importanti dinamiche gruppali e istituzionali.

La collaborazione extra-analitica durava da tempo, mentre ancora era in corso l'analisi si frequentavano giornalmente per discutere dei pazienti seguiti da Winnicott, soprattutto di quelli per cui il discepolo avrebbe potuto aiutarlo a scrivere resoconti clinici. Winnicott gli inviava pazienti, anche negli ultimi anni, quando sapeva di sicuro delle sue violazioni al setting. A volte anzi glieli imponeva, come accadde con Veronique, suggerendogli anche cosa avrebbe dovuto fare, cosa avrebbe dovuto consigliare alla ragazza e ai suoi familiari e così via. Khan rispondeva: sarà fatto! Poi aggiunge: “Dentro di me ero piuttosto furente con Winnicott” (pag.51), ma non ne parlava...

In seguito al secondo matrimonio di Winnicott si installò un triangolo in cui Khan e Clare rivaleggiavano tra loro per la predilezione di Donald. Analoghi triangoli Khan stabilì poi con i suoi pazienti come racconta Wynne Godley (2001) nel suo ricordo della disastrosa analisi con lui. Nel giro di poco tempo Godley aveva sviluppato delle quasi allucinazioni in cui vedeva delle bende dentro la sua testa che fasciavano strettamente il suo cervello. L'eco delle descrizioni di Schreber torna subito alla mente. 

Negli anni sessanta Khan ha realizzato le sue ambizioni: non è più un semplice immigrato pakistano guardato con sospetto, ma un membro della Società britannica, i suoi scritti cominciano ad essere apprezzati anche al livello internazionale. Forse proprio per questo l'insofferenza verso i colleghi inglesi sembra crescere, egli trova che il gruppo incoraggi una certa mediocrità intellettuale. Si mantiene isolato rispetto a quella che gli pareva una rigida ortodossia.      

Khan collabora con il suo analista, anche se, dentro di sé, lo critica vivacemente per il suo atteggiamento troppo morbido nei confronto del gruppo e della Klein, lo definisce una persona scissa. “Strano come questo clinico insigne ospitasse dentro di sé così tanti fantasmi in veste di giudici: Klein, Jones, e perfino Anna Freud riuscivano a sbilanciarlo con assurda facilità” (Khan op. cit., pag. 64). Negli incontri scientifici della Società aveva colto la dipendenza di Winnicott, la sua paura del giudizio dei colleghi, la sua dipendenza dal gruppo. Ma ancora non ne parlava direttamente con Winnicott. Khan sembrava avere spesso comportamenti un po' compiacenti, presentava aspetti diversi a persone diverse in una caleidoscopica manipolazione della propria immagine, per allontanare la paura di essere rifiutato e di perdere il contatto con se stesso.

Dagli anni '60 l'atteggiamento servile e passivo si ribalta in ostilità. Già in quegli anni sembrava lavorare alla sua distruzione come prima aveva lavorato a costruire la sua reputazione. Diventa sempre più arrogante e critico verso i colleghi, si fa molti nemici.

Lui considera il suo atteggiamento sprezzante e polemico come un modo per difendere il suo vero sé dalla seduzione della compiacenza diffusa nella vita societaria. Dice di non sentirsi obbligato a rispettare le regole analitiche che gli erano state insegnate. Occorre, diceva, abbandonare le cose che ci hanno insegnato per crescere e fare nuove esperienze. 

A metà degli anni '60 scrive della onnipotenza simbiotica come una relazione madre-bambino caratterizzata da idealizzazione reciproca, il bambino è considerato speciale, la madre lo iper-accudisce e anticipa i suoi bisogni, l'aggressività è elusa, il bambino non può esprimerla e la madre non la introduce nel rapporto attraverso una giusta dose di frustrazione. Il bambino rimane incapace di tollerare la separazione e, quando questa interviene, interiorizza la relazione idealizzata, la avvolge in un mondo privato e segreto dove custodisce un oggetto idealizzato e un sé arcaico idealizzato. Questi pazienti alternano ritiro fobico e happening per fuggire dalla relazione.  Sembrano teorizzazioni dense di riflessioni autobiografiche.

Di questi anni sono le prime trasgressioni di pubblico dominio. Queste non vengono segnalate alla società britannica. 

Nel 1971 Winnicott muore, nello stesso anno muore anche la madre. Khan perde che aveva teorizzato come una “amicizia cruciale”, un confronto con un altro attraverso cui conoscersi ed esprimersi, un Io ausiliario capace di arginare le sue spinte distruttive. Dopo la sua morte la diga saltò.

Khan si considerava l'erede legittimo di Winnicott, il suo continuatore. Quando Winnicott lasciò alla moglie la cura di tutte le sue carte, Masud si sentì diseredato, pieno di disillusione e di rabbia.

Intorno a queste morti egli ripensa alla dipendenza, al ridursi dell'individuo in una dipendenza sprovveduta dinanzi ad un oggetto che non rispetterà le sue differenze e specificità. Ripensa al suo concetto di onnipotenza simbiotica come un modo per eludere-rinnegare la rabbia prodotta dalla impossibilità di esprimere l'aggressività dinanzi ad un genitore, formalmente accudente, ma, sostanzialmente, incurante dei bisogni di “quel” bambino in “quel” momento. Genitori troppo adeguati inibiscono l'aggressività del bambino, lo spingono a scindere aspetti di sé. Per cui l'oltraggiosità diventa un modo per recuperare autenticità dopo avere accettato in modo remissivo le richieste di genitori tanto esigenti quanto indulgenti. Fa pensare che questa sia una protesta rivolta a Winnicott e al suo stile di lavoro.

L'isolamento rispetto ai colleghi aumenta, il suo grido di aiuto rimane inascoltato.

Crescono le voci delle sue infrazioni deontologiche. Hanna Segal ne informa le autorità competenti. Si avviano dei procedimenti disciplinari, mentre i suoi allievi e pazienti si rifiutano di testimoniare contro di lui. Khan scopre di avere un cancro. È un crescendo di angoscia. Cerca di uccidersi tagliandosi la gola.

Nel 1979 appare il suo saggio sulle perversioni e la struttura schizoide. Sempre più isolato e malato, subisce numerose operazioni. Nel 1988 è estromesso dalla società britannica.

La severità della società britannica verso i comportamenti e le idee non ortodosse poteva forse nascondere, agli occhi di Khan, sotto il manto della sollecitudine per la psicoanalisi,  un odio inconscio per i pazienti e per i colleghi più creativi.

Con Trasgressioni nel 1987 sembra voler gettare discredito sull'intera psicoanalisi. I casi clinici mostrano una totale mancanza di neutralità, uno stile intrusivo e violento, un razzismo speculare a quello che egli aveva colto/attribuito agli inglesi. Gli ebrei sono quelli che considerano trasgressivi i suoi comportamenti terapeutici, che ricoprono incarichi societari all'interno di un gruppo da cui non si era mai sentito riconosciuto. Morì nel 1989 ucciso dalla cirrosi e non dal cancro. La sua figura viene esiliata nel silenzio, come già quella di Tausk. Una decina di anni dopo cominciano ad apparire articoli su di lui, da parte di colleghi e di pazienti che raccontano la loro analisi con Khan. Una spirale di degradazione, dicono alcuni, un analista straordinario, dicono altri. 

Con la pubblicazione dell'articolo di Godley (2001) la reputazione della psicoanalisi in Inghilterra e negli Stati Uniti subì un duro colpo per il ruolo giocato nelle vicende di Khan dalle dinamiche istituzionali, per il razzismo latente di alcuni membri che, nel dopoguerra, lo avevano accolto al suo arrivo a Londra dal Pakistan, d'altra parte per la valorizzazione della cultura e dell'intelligenza di Khan e la sottovalutazione della sua fragilità, per le reticenze con cui le sue trasgressioni erano state tollerate per anni. Vengono mosse accuse alla Società Britannica che lo aveva ammesso come suo membro. La società inglese avviò allora un procedimento interno per evidenziare responsabilità di suoi membri. Aldilà delle singolarità di queste tragiche vicende mi sembra che esse siano legate alla difficile elaborazione collettiva, da parte dei membri dell'Istituzione, della disillusione, dei limiti della nostra disciplina e di quelli di ciascuno. La mancata elaborazione di questi aspetti getta un cono di funzionamento psicotico sulle nostre Istituzioni di cui occorre occuparsi. Innanzitutto questo riguarda il rapporto con i maestri.

Il transfert sul maestro

            Non rischieremo mai di sopravvalutare l'ampiezza della identificazione del discepolo con il maestro. Il percorso di apprendimento inaugura una particolare condizione di dipendenza, i confini del sé si aprono ad accogliere il nuovo, ad acquisire, attraverso il rapporto con i maestri, una competenza inedita. Questa apertura identificatoria conduce il singolo a sperimentare una esposizione all’altro così intensa da dargli, talora, un senso di insostenibile fragilità, di eccessiva permeabilità rispetto all’ambiente, confrontabile con quello che vive il neonato rispetto all’ambiente primario (L. Ambrosiano 2007). Tausk sottolineava un sintomo della sofferenza psichica, la “perdita dei confini dell'Io”, i malati, egli scriveva, […] “hanno perso la coscienza di essere una entità psichica distinta, un Io con confini propri” (Tausk, 1919, pag. 162). Questo porta i malati in uno stato mentale molto precoce che “precede la separazione [...] un periodo in cui i malati si identificano con i loro oggetti” (Tausk ibid. pag. 164) Nel percorso di apprendimento, il discepolo attraversa conflitti e avventure proprio dal vertice descritto da Tausk.

In psicoanalisi il rapporto con i maestri, come bene sappiamo, è complesso, esso non riguarda solo la trasmissione della conoscenza, ma anche la trasmissione della capacità di pensare. Rispetto a questa il maestro diventa un modello ideale di psicoanalista. 

In un momento di fragilità non ci si può accostare maggiormente all'altro se non diventando l'altro, e alterando l'Io. L'identificazione è “una modalità di azione psichica che il soggetto può attivare per operare legami, riconoscendo la separazione, o non avendola ancora raggiunta, o sospendendone la consapevolezza” (P. Campanile, pag. 325). Questa mancanza, o sospensione della consapevolezza della separazione allude ad una condizione mentale primaria in cui l'identificazione è massiccia e non selettiva. Il rapporto tra il discepolo e il maestro si tinteggia allora di un trasporto appassionato che travalica il campo dell'apprendimento.

Il transfert sui maestri nasce in un territorio in cui il desiderio di diventare come il maestro si interseca con il desiderio di essere da lui amato e protetto, “bisogno che non abbandonerà l'uomo mai più” (Freud 1925, pag. 301).

Se l'identificazione normalmente si scioglie con il trascorrere dell'esperienza e l'allievo si separa e si avvia ad essere se stesso, quando identificazione primaria e amore sono così embricati il legame diventa difficile da scogliere, si intride di idealizzazione.

L'idealizzazione è un ingrediente inevitabile e prezioso di ogni impresa, per molto tempo può fornire il carburante e l'entusiasmo necessario per affrontare compiti nuovo (R. Jaffè 2006, S. Panizza 2010). Tutti noi ci accostiamo al mestiere di terapeuta con un alto grado di idealizzazione, della funzione, delle teorie che la sostengono, dell'immagine ideale di buon terapeuta che ognuno vorrebbe-dovrebbe diventare. La caduta di questi ideali e idealizzazioni nel corso del tempo è inevitabile, è un elemento di sanità, di contatto con la realtà, con i nostri limiti e con quelli delle nostre conoscenze.

Dopo avere ringraziato i maestri, Gribinski (2010) scrive: “E poi grazie a me: quando mi capita di sognare di tutto ciò che avevo creduto che avrei fatto e che non ho fatto, dei miei progetti sepolti, sono deluso di una delusione così franca e bella che la ringrazio ogni giorno perché mi dice apertamente: a domani” (M. Gibrinski 2010, pag. 375). 

Ma la perdita delle idealizzazioni è un momento delicato e doloroso. La mia ipotesi è che l'elaborazione di questo momento non può essere avviata se non in un contesto che lo condivide e lo supporta, innanzitutto i maestri. L'idealizzazione è una faccenda tra due persone (L. Nissim 1984), anche la sua caduta richiede il lavoro di due persone.

L'elaborazione delle identificazioni deve essere sostenuta dall'ambiente, perché ciascuno trovi spazio per non divenire come il maestro, per non diventare il terapeuta che i maestri hanno in mente, o per non degradare la sua passione in cinismo e scontento. Per questo è importante che i maestri stessi siano disponibili a seguire le vicissitudini dell’apprendimento, che siano interessati ad elaborare di continuo l’ideale con cui hanno cominciato il loro proprio percorso professionale e quello che affiora negli allievi.

La spinta a farsi amare, a sedurre e ad essere sedotti dai maestri ha bisogno di essere maneggiata ed elaborata insieme con i maestri stessi. Altrimenti non solo il percorso formativo, ma anche la successiva partecipazione societaria porteranno le stesse tinte idealizzanti. L'allievo può sentirsi talmente smanioso di ascoltare il maestro, di assorbire il suo sapere, di diventare come lui, che non si ascolta e non ascolta la sua esperienza. 

Penso che sia fondamentale la disponibilità mentale del maestro ad accostare le peripezie interne dell'allievo.

Ma il maestro può trovarsi a sua volta in difficoltà, allora lo zelo, la fedeltà o la tacita sottomissione da parte dell'allievo non trovano in lui un contenimento. 

“Sembra che molti analisti imparino a usare determinati meccanismi di difesa che consentono loro di escludere dalla propria persona le conseguenze e le prescrizioni dell'analisi [...]. Può darsi che questo fatto dia ragione alle parole del poeta [A. France] che ci ha rammentato come difficilmente gli uomini non abusino del potere che è stato loro concesso. A chi si sforza di comprendere questa circostanza, capita talora di imbattersi nella sgradevole analogia con gli effetti che possono derivare dai raggi X, quando applicati senza cautela” (Freud 1937, pag. 532). Sui maestri la compiacenza e la sottomissione dei discepoli può, come i raggi X, irradiare un senso di potere personale, di conferma narcisistica cui è penoso rinunciare.  

In questi momenti può entrare in gioco, da parte dei maestri, una sorta di difficoltà a lasciar andare i discepoli e a sostenerne la differenziazione. Quando questo accade si hanno conseguenze in tutta l'Istituzione. Il transfert positivo sui maestri, infatti, si scinde da quello negativo e questo viene proiettato su personaggi o sottogruppi diversi dell'Istituzione, favorendo adesioni a piccole fazioni antagoniste che corrodono l'insieme.

 Lo stallo e la trasgressione

            Come sappiamo dalla pratica clinica, è importante la capacità, del paziente e dell'analista, di sostare in un “... luogo di transizione tra relazione indifferenziata e relazione differenziata con la realtà” (S. Thanopulos (2007, pag. 898). La sosta in questo luogo di transizione tra identificazione e investimento ha un senso, esprime l'interesse dell'individuo verso questioni di fondo dell'esistenza. Al di qua dell'Edipo l'individuo si interroga sul senso della separazione e della crescita, sul senso della cura e della psicoanalisi. 

Bion ha spesso sottolineato che questo mestiere non fa altro che condurci sempre più vicino alla vita pulsante di significati che ci restano oscuri, in cui le distinzioni che operiamo  rimandano comunque ad un tutto indifferenziato, la cosa in sé,”O”, la verità ultima. Occorre vivere e lavorare al bordo di questa oscurità vitale.

Ma quando la sosta si traduce in stallo le identificazioni con il maestro diventano tossiche.

Il maestro idealizzato con cui si opera una identificazione è per l'allievo una sorta di oggetto totale:  voglio diventare lui, lo voglio anche amare ed esserne amato, voglio che mi nutra e mi protegga. L'intrico tra un investimento oggettuale appassionato e una identificazione pre-edipica rende difficile sciogliere il legame e separarsi senza che questo faccia temere la frammentazione del sé, la dissoluzione del proprio valore.

Perché Tausk e Masud Khan avevano così paura di separarsi dal padre-maestro amato e preso a modello ideale? Come mai due valorosi e originali ricercatori non poterono emanciparsi da questo legame? Come mai finirono per  attaccare confusamente mettendo sotto il naso di tutti i limiti della psicoanalisi e dei loro  maestri? 

Entrambi, pur insofferenti della dipendenza, non riuscirono a trasformare la propria dipendenza compiacente verso il maestro. Essere innamorati del padre al punto da volere essere lui o da sottomettersi a lui come una cosa passiva, drammaticamente ci riporta al  delirio di Schreber, ad una area psicotica. 

Infatti, solo apparentemente, si potrebbe formulare una interpretazione edipica, come Freud fece con Tausk. La rivalità e la colpa apparentemente sembrano riempire la scena del primo gruppo di discepoli riuniti intorno al maestro. Eppure noi oggi abbiamo l'impressione di trovarci in presenza di intense tensioni pre-edipiche.

Tausk e Khan erano impigliati in un rapporto complesso, favorito da un fragile senso di sé, da una grande dipendenza. Freud per Tausk, Winnicott per Masud Khan, erano oggetti d'amore e oggetti di identificazione precoce, erano investiti come oggetti ambigui e totali.

Una volta iniziata una analisi si scopre, con stupore e meraviglia, che degli uomini ci ascoltano, tre, quattro volte a settimana [...] questi uomini poi si sarebbero trasformati a loro insaputa in... madri, delle madri come non si sarebbe mai sognato che ne esistessero... delle madri che non erano la donna di nessun padre. La meraviglia raddoppiava. Ma anche la paura. Che cosa sarebbe stato necessario fornire loro se non c'era nessun padre per distrarle? (M. Gribinski, op. cit. pag. 371)

Spesso quello che l'allievo pensa che ci voglia per accontentare questi uomini-madri è di dimostrare di essere già grande, di essere qualcuno su cui il maestro può contare, qualcuno che è già psicoanalista anziché dovere diventarlo.

Cercare di diventarlo, analista, adulto, significa tollerare la caduta delle idealizzazioni e affrontare la separazione. A separarci siamo predisposti, portiamo dentro di noi, come intimo bagaglio, la pre-concezione dell'Edipo e della separazione (Bion 1973). Ma se il peso emotivo della separazione risulta eccessivo, allora viene distrutta la pre-concezione edipica stessa. Così l'individuo non sarà più in grado di risolvere i problemi edipici, non solo, ma proprio non arriverà a porseli. I brandelli di quello che in seduta sembra materiale edipico documentano la distruzione della pre-concezione edipica, non la distruzione dell'oggetto, della coppia, per sadismo, avidità, invidia, e quant'altro, ma la distruzione dell'apparato psichico del soggetto stesso. I frammenti che rimangono dopo la distruzione della pre-concezione edipica, sono i frammenti dell'apparato per pensare e svilupparsi (Bion 1973, pag. 83).

La preconcezione edipica è evacuata insieme alle risorse dell'apparato psichico per farvi fronte. Allora non ci si sente in grado di pensare e teorizzare per paura di un rischio catastrofico. 

Quando la spinta a separarsi (preconcezione edipica) è evacuata ci si trova in uno stallo, sia del rapporto di apprendimento che delle risorse di pensiero. Nello stallo la trasgressione come ricerca di pensieri che vadano oltre il noto decade in azioni trasgressive.

Trasgredire allude al varcare, oltrepassare, non necessariamente con un connotato etico.

“Il termine trasgressione raccoglie in sé due significati opposti: in un senso significa il venir meno ai limiti imposti da una norma, nell'altro intende un andare aldilà, oltrepassare il già noto” (E. Gaburri 1982, pag. 512)

Dinanzi a queste parole siamo chiamati a collocarci in un'area di transizione tra significati opposti, tra il mare e il continente “in continua fluidità di confini”, sottolinea Gaburri nel lavoro citato. Spazio mentale trasgressivo e rischio catastrofico sono immediatamente collegati, questo spazio può fare emergere pensieri creativi, come Tausk e Khan hanno fatto, o slittare in trasgressioni delle norme, come è accaduto a Tausk e Khan.

In effetti la situazione analitica stessa è, di per sé, uno spazio trasgressivo (Gaburri, op. cit. pag. 515), proteso a generare pensieri non ancora pensati. La trasgressione così intesa comporta il bisogno di essere comunicata.

Lo  stallo allora può siglare il momento in cui la comunicazione è bloccata, forse il discepolo comincia a temere che la situazione di apprendimento si risolva in un impoverimento del sé. La carenza di reverie, dei maestri e dell'Istituzione, viene immediatamente equazionata ad una spinta al conformismo (Ambrosiano, Gaburri 2008). Allora abbarbicarsi all'agire sembra l'unico mezzo espressivo disponibile, come Masud Khan ha tanto spesso descritto.

Se l'ascolto di queste vicende da parte dei maestri è poco trasgressivo, esso è immediatamente anche poco specifico, diventa normativo, non realizza quello scambio che può consentire di cogliere un pensiero nuovo nel luogo dove veniva mimata la trasgressione attraverso l'agito (Gaburri op. cit. pag. 525).

In definitiva potremmo dire che gli agiti trasgressivi veicolano al gruppo una domanda di rêverie e di pensiero.   

Il desiderio trasgressivo per antonomasia è quello di separarsi, la difficoltà a realizzarlo innesca tutto il processo.

Edipo, dopo l'uccisione di Laio, si trova in una situazione di stallo, incestuosa e coatta. Cosa lo spinge a uscirne? Forse potremmo dire che ciò che lo spinge fuori dello stallo, più che la colpa, è il disgusto le strettoie che la coazione gli impone.

Anziché elaborato, il disgusto si può essere sparpagliato in pettegolezzi sui colleghi, veicolando tutt'intorno un senso di scontento per la nostra disciplina e per la Istituzione psicoanalitica. Il disgusto si sparge tutt'intorno appestando il lavoro comune e lo scambio tra noi. Ricordo le parole di Claudio Eizirik nella relazione di apertura del XV congresso della SPI a Taormina.

Quando il maestro che non si accorge del transfert idealizzato da parte dell'allievo che lo vede come un genitore a tutto tondo che, in fantasia, copre ogni  bisogno, che sa tutto, in realtà egli lascia un buco da cui tracimano delirio, persecuzione, disgusto e agiti. In mancanza di un contenimento da parte del maestro, nell'allievo si produce rabbia, il maestro diventa un oggetto tossico, con caratteri onnipotenti e onnipervasivi. Dinanzi a questo oggetto totale l'allievo è continuamente all'erta per il rischio di essere abbandonato, fino a cercare di diventare l'oggetto, di scomparire passivamente dentro di lui, oppure rompere tutto con ferite e strappi violenti.  

 La funzione del maestro

    Da quanto detto fin qui la funzione del maestro non è semplicemente quella di erogare conoscenze, ma di seguire l'itinerario emotivo dell'allievo verso l'apprendimento, verso la nuova identità professionale e verso il gruppo.

Il maestro, implicitamente o meno, veicola all'allievo la mentalità, il clima, le difficoltà e le modalità collaborative dell'intera Istituzione.

L'Istituzione psicoanalitica ha, per i suoi membri, una funzione di holding e, insieme, una funzione di elaborazione di un senso condiviso, che ne garantisca la continuità e la fertilità. La funzione dell’Istituzione è quella di sostenere la crescita del singolo e del gruppo nel suo insieme, di sostenere la passione per la clinica e per la sua elaborazione in costruzioni teoriche.

È vitale per ciascuno e per l’Istituzione favorire l’espressione di idee e pensieri da parte dei membri che la compongono. La possibilità che le persone si esprimano comincia da subito, dal training.

Fin dagli insegnamenti e dalle supervisioni c'è il rischio, per ciascuno di noi, di invitare implicitamente i giovani ad identificarsi, idealizzando il legame con la psicoanalisi e con l’istituzione. Questo sfocia in un apprendimento a testa bassa che scoraggia la differenziazione. 

Gli insegnanti possono inconsapevolmente viversi come i possessori di capacità analitiche autentiche, di competenze teoriche compiute e inattaccabili su cosa sia la psicoanalisi.

Questo atteggiamento può indurre nei giovani meccanismi di sottomissione all’Istituzione,  una filiazione mortifera intrisa di ansie paranoidi (Lombardi 2006, 197).

L'allievo o il giovane analista, per trovarsi, ha bisogno di essere aiutato a tollerare di perdersi, talora, senza dover correre subito a saturare l’esperienza clinica con tutto quello che sappiamo già.

La funzione del training potrebbe essere proprio quella di predisporre spazi psichici per affrontare le differenze, gli scarti, i limiti, e, dunque, la ricerca.

Per questo è importante che i maestri stessi siano disponibili a seguire le vicissitudini dell'apprendimento degli allievi e, a loro volta, siano interessati a monitorare elaborare la qualità del loro legame con l'Istituzione, delle loro appartenenze, e i conflitti che colorano la loro partecipazione, in definitiva il loro “romanzo professionale” (Ambrosiano, 2001-2005).

Per l'allievo il maestro rappresenta l'Istituzione. Il maestro deve essere consapevole di questo, proteggere gli allievi dai conflitti tra docenti e tra teorie, dal disgusto sottaciuto che a volte attraversa questi conflitti, dalla svalutazione delle differenze di cui i colleghi sono portatori.

Segnalare agli allievi che la metapsicologia è una strega imprendibile può essere difficile, può essere sentito come una minaccia, ma indica loro territori ancora inesplorati, aree da investigare.

È su queste postazioni che l’allievo ha bisogno di incontrare i maestri, come rappresentanti dell’Istituzione psicoanalitica. Il maestro avrebbe come compito primario di trasmettere agli allievi la tolleranza degli aspetti delle nostre teorie che ci appaiono approssimativi e ancora insufficienti, altrimenti, per gli allievi, è difficile pensare i propri pensieri sulle teorie, o formulare essi stessi delle ipotesi teoriche. Gli allievi e i soci più giovani possono temere di distaccarsi troppo dal corpo teorico dei maestri, allora questo viene idealizzato come compatto, tutto tondo e tutto pieno.

Queste idealizzazioni possono promuovere un apprendimento mimetico, o, all'altro polo, una rovinosa caduta delle idealizzazioni che può esitare in una presenza opaca dei giovani nel dibattito societario, o, in drammatici agiti trasgressivi.

Per sollecitare le giovani generazioni, a partire dai candidati, a partecipare più attivamente, fin dall’inizio del training, al dibattito scientifico, occorre immaginare che la trasmissione della psicoanalisi sia capace di promuovere in loro la consapevolezza della strada che stanno percorrendo, delle emozioni e delle ambivalenze che sperimentano verso il training, verso i maestri e verso il gruppo.

Soffriamo tutti di un disagio mosso dalla paura del futuro, dal timore di rimanere isolati dal contesto, senza voce, invisibili. Per questo cerchiamo vie di cambiamento. 

Ogni gruppo per sopravvivere ha bisogno di cambiare e il cambiamento è spesso promosso proprio da quei membri che fanno azioni di disturbo, e persino dai membri che compiono trasgressioni etiche, spesso essi personificano un dolore diffuso. 

Ciascuno di noi deposita nel gruppo e nell’Istituzione le vicissitudini emotive troppo violente per essere contenute (pensiamo al lavoro di J. Bleger, 1967-1971). Il contenimento offerto dal gruppo di colleghi, ancora oggi, sembra ancora lontano dall’essere trasformativo; sembra piuttosto un deposito con qualche accento parassitario; ma è un primo livello di aiuto che riceviamo dal gruppo per svolgere una professione come la nostra. Occorre forse pensarlo questo aiuto e riconoscerlo come un elemento della nostra professione.

 Conclusioni

            Per fare fronte alle dinamiche emotive del primo gruppo di psicoanalisti, Freud pensò di fondare l’Istituzione psicoanalitica come parete divisoria tra il suo studio e la sua anticamera. Forse Freud  pensava di inserire così una linea di contenimento negli investimenti affettivi dei discepoli nei suoi confronti: essi lo vedevano come padre, come analista ideale, come maestro, come un collega con cui competere, eccetera. In effetti si trattò, da questo punto di vista, di un vallo di Adriano che cercava di confinare quelle dinamiche in un aldilà inconquistabile. Quello che accadde, infatti, fu che i conflitti vennero letteralmente travasati nella nascente Istituzione e si sono perpetuati fino ai nostri giorni.          

Un elemento di queste dinamiche era l'idealizzazione della psicoanalisi e del suo fondatore, necessaria, forse, nell'esordio della nuova disciplina per sostenere l'interesse e la passione dei primi ricercatori, ma portatrice di difficoltà. L'elaborazione dell'idealizzazione iniziale, per trasformarla in passione verso la ricerca e verso la cura, è un compito di ciascun professionista e della Istituzione nel suo insieme. 

Le parole di Gribinski messe nell'ex ergo sottolineano le domande con cui ciascuno di noi si confronta di continuo nell'Istituzione e nella pratica clinica, in modo variamente doloroso. Da questo confronto può scaturire una nuova consapevolezza, ma anche spinte rabbiose e frustrazione che possono esitare in trasgressioni etiche.

L'elaborazione delle idealizzazioni e il tentativo di intendere quello che le trasgressioni etiche urlano, apre lo spazio perché gli incontri scientifici, la ricerca, la trasmissione del sapere, si sviluppino in un terreno laico, vale a dire rispettosamente pluralistico.

 Bibliografia

Ambrosiano L. (2001) Ululare con i lupi. Note su narcisismo e socialismo. Rivista di Psicoanalisi, 47, 2, pp. 283-302.

Ambrosiano L. (2005) The analyst: his professional novel. Internat. J. P. vol.86, 1611-1626

Ambrosiano L. “Platone era il più vecchio” Riv. Psicoanal. 3, 593-610

Andrè J. (2010) “Passione, odio e sessualità.” Riv. Psicoanal. 2010, LVI,2,345-358

Balint A. (1937) L'amore primario Cortina Milano 1991

Basile R. (2008) “Il contributo dell'analista nel creare il transfert negativo” in I Transfert. Cambiamenti nella pratica clinica. A. Ferruta ( a cura di)  Riv. Psicoanal. Monografia Borla Roma  

Bion W. R. (1973) Gli elementi della psicoanalisi Armando Roma 1979

Bion W.R. (1992) F. Bion (a cura di) Cogitations. Armando, Roma, 1996.

Bleger J. (1967) Psicoanalisis del encuadre psicoanalitico.  Rev. de psychan. 24,2,pp.241-258 

Bleger J. (1971) "Temas de psicologia (Entrevista y grupos) Buenos Aires Nueva Vision pp. 89-104 

Bauduin A. Denis P. (2003) La perversion narcissique de l'analyste et ses thèories.  Rev. Francaise de Psychanal. 3, 1007-1016

Campanile P. (2010) Il legame di odio. Identificazione isterica come teoria generale e come meccanismo specifico. Riv. Psicoanal. LVI, 2, 319-341

Corsa R. (2010) Il contributo di Sabina Spielrein alla comprensione della schizofrenia. Notazioni storiche sull'istinto di morte. Riv. Psicoanal. 2010, 1, LVI, 73-94

Ferraro F. (2009) Linea d'ombra e di confine. In Violenza e simbolizzazionela biblioteca Bari Roma

Freud S. (1921) Psicologia delle masse e analisi dell’Io. O.S.F., 9

Freud S. (1925) Inibizione, sintomo e angoscia OSF, 10

Freud S. (1937) Analisi terminabile e interminabile. OSF, 11

Gaburri E. (1982) Una ipotesi di relazione tra trasgressione e pensiero. Riv. Psicoanal. XXVIII, 4, 511-525

Gaburri E. Ambrosiano L. (2003) Ululare con i lupi. Conformismo e rêverie.” Bollati Boringhieri Torino

Gazzillo F. Silvestri M. Sua maestà Masud KhanCortina Milano 2008

Gribinski M. (2010) Frammenti del nuovo mondo. Riv. Psicoanal. 2010, LVI-2, 359-376

Godley W. (2001) Saving Masud Khan. London Review of Books ,3-7

Hopkins L. (2006) False self: the life of Masud Khan. New York, The Other Press

Jaffè R. (2006) Riflessioni sul concetto di idealizzazione a partire dal pensiero di M. Spira. Letto al CMP 3-2006

Khan M. (1988) Trasgressioni Torino, Bollati Boringhieri

Loewald H.W. (1980) Riflessioni psicoanalitiche. Dunod-Masson, Milano, 1999.

Lombardi R. (2006). Passione e conflittualità nelle istituzioni psicoanalitiche.(Passion and conflict in Psychoanalytical Institutions) Riv. Psicoanal., 1, 191-212.

Manca Uccheddu O., Viola A. (2008) Il burnout in psicoanalisi G. Fioriti ed. Roma

Molone P. () “Il caso Masud Khan.” Riv. Psicoanal. LV,4, 1061-1068   

Napolitano F. (1999) La filiazione e la trasmissione nella psicoanalisi. Sulla consegna transgenerazionale del sapere. Franco Angeli, Milano.

Nissim L. (1984) “Due persone che parlano in una stanza.” Riv. Psicoanal. 30, 1-17

Panizza S. (2010) “La dissolvenza dell'idealizzazione.” Riv. Psicoanal. LVI, 3, 577-595

Roazen P. Fratello animale Rizzoli 1973

Speziale Bagliacca R. (2002) Freud messo a fuoco. Passando dai padri alle madri. Bollati Boringhieri Torino

Tausk V. (1919) Sulla genesi della macchina influenzante nella schizofrenia. In Scritti Psicoanalitici  Astrolabio Roma 1979

Thanopulos S. (2007) La metaforizzazione tra regressione e ritiro. Riv. Psicoanal. 2007, 4, LIII, 896-916

Pubblicato in Rivista di Psicoanalisi - 2011, 57:609-632 con il titolo "Maestri"

София plus.google.com/102831918332158008841 EMSIEN-3

Login