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D’Abbiero M. - Per un incontro filosofico con Melanie Klein (2014)

         I Seminari del Centro di Psicoanalisi Romano - Klein Today (20-21 settembre 2014)

 

Quali prospettive può suggerire la produzione clinico-teorica di Melanie Klein alla filosofia, oggi, in un’epoca post-moderna, in cui non esistono più certezze incrollabili, e il mondo sembra sempre di più frammentarsi? A mio parere molte, moltissime, come ora illustrerò, e proprio per i temi che invece le rendono difficile l’accesso al mainstream filosofico.

       La prospettiva kleiniana si caratterizza per un’analisi cruda e realistica delle dinamiche psichiche, che mostra la centralità dell’invidia, della distruttività, dei conflitti; ma è un’analisi sempre unita alla ricerca di risoluzioni costruttive. Nell’incontro tra la filosofia e la psicoanalisi, che ormai ha una lunga storia, è raro trovare questa connessione. Da un lato la distruttività ha trovato forti obiezioni, perché sembrava diminuire il peso dei fattori sociali, e complicare troppo la ricerca della libertà: così i marxisti amanti della psicoanalisi, Reich, Fromm e Marcuse, la scuola di Francoforte, Habermas; così, in tempi più recenti, la filosofa Martha Nussbaum, la quale, in un contesto liberaldemocratico, ha dato molto spazio nella sua visione etico-politica al ruolo delle emozioni, ma senza prendere in considerazione la distruttività originaria (Nussbaum 2001); lo stesso può dirsi a proposito di altri peraltro pregevoli filosofi come Bernard Williams (Williams 1985) o Cora Diamond (Diamond 1988-2002), che si sono soffermati sui legami tra la morale e le emozioni, o Eugenio Lecaldano, che si appoggia, seguendo la tradizione iniziata da Hume e Smith, sulla emozione della empatia-simpatia (Lecaldano 2013): tutti sembrano però distanziarsi dalla complessità delle dinamiche inconsce.

       C’è poi un altro versante, che fiorisce sulla scia di Lacan, e della sua critica alle psicologie dell’io: qui la distruttività è centrale, tanto da far considerare falsa e superficiale ogni analisi che non dia peso a questi aspetti. Ma questa centralità è spesso stata usata solo in senso “decostruttivo”, per esempio nella cultura filosofica francese, influenzata da Foucault e Derrida, che ha fatto scuola.

     E’ come se la prospettiva della Klein “spiazzasse” i filosofi: i decostruzionisti, perché troppo costruttiva, i sentimentalisti perché troppo cruda, col suo insistere sulla invidia e sulla distruttività. E’ invece proprio questo mix che rende a mio parere questa prospettiva così interessante: guarda con realismo tutte le plaghe oscure dell’animo umano, e ciononostante individua i punti su cui appoggiarsi per poter di nuovo guadagnare la speranza e la voglia di progettare.

       Sebbene non si possa dire una pessimista, a proposito di questa pensatrice che ha scrutato senza remore i fantasmi più pericolosi della mente offrendoci tuttavia una prospettiva, oltre che vitale, anche altamente etica, si potrebbe usare la profonda espressione con cui Thomas Mann differenziava Schopenhauer e Freud da Nietzsche: “pessimismo umanistico” (Mann 1938).

       Il realismo umanistico di Melanie Klein, come ora vedremo, lavora infatti per la pace e per la democrazia: non fantastica una società perfetta – un sogno ancora oggi molto diffuso tra i filosofi – ma lavora per formare una “democrazia della mente”, basata sul confronto e sul rispetto umano. E se non mancano interessanti riprese filosofiche di questi temi - pensiamo al bel libro di John Rustin, La società buona e il mondo interno (1991), pensiamo alle riflessioni di Jaques, di Elliot, di Money Kirle, di Fornari, di Tonia Cancrini (Cancrini 1981) - tuttavia l’apprezzamento della “vita buona”, del confronto, della comprensione, del dialogo, anche quando è accompagnato da un’analisi spietata delle dinamiche psichiche, stenta ad entusiasmare l’entourage filosofico. Tra i filosofi, insomma, dove si esalta il dialogo, si evita la distruttività (Nussbaum); ove si valuta la complessa struttura della mente si svalutano dialogo e democrazia ( Deleuze, Agamben, Zizek); come se, ricreando peraltro un antico scenario, si rifiutasse ogni passo intermedio in attesa della salvezza messianica. Le risorse del pensiero e della fantasia anziché essere utilizzate per costruire progetti e possibilità, si vanno così a infrangere sull’impossibile utopico.

     Le risorse della mente: questo mi sembra essere il punto centrale. E’ infatti dal modo in cui Melanie Klein intende il pensiero che vengono importanti suggestioni per la filosofia; la quale invero ha sempre apprezzato molto il pensiero, ma lo ha spesso divinizzato, e quindi non ne ha sfruttato tutte le potenzialità per la costruzione di una cultura della pace e della democrazia, di cui abbiamo disperatamente bisogno.

     La Klein ha compiuto un’operazione fondamentale dal punto di vista filosofico: ha allargato l’orizzonte del “simbolico” fino agli affetti e alle emozioni, cioè a tutta la vita dell’individuo. Il pensiero è così un evento psicologico ed è radicato nel singolo e nelle sue vicende dalla nascita alla morte: dalle prime emozioni alle prestazioni più adulte e mature per la Klein c’è sempre una mente al lavoro.

         Ricordiamo come due grandi valorizzatori del pensiero simbolico, Husserl e Cassirer, hanno invece in modi diversi sempre cercato di “depurare” il pensiero dai suoi aspetti psicologici, cioè da una commistione troppo stretta con le vicende biologico-esistenziali dell’animale umano. Perfino Ricoeur, che nel suo bellissimo libro del 1965 Della interpretazione. Saggio su Freud, ha iniziato un profondo confronto filosofico con la psicoanalisi, non sembra ritenere possibile che l’attività simbolica, intesa come mera attività psicologica, possa poi produrre i grandi valori spirituali, e reputa imprescindibile la presenza di un telos di altra origine. Solo Sartre, almeno nella sua fase esistenzialista, ha cercato di dare alla intenzionalità di Husserl un carattere affettivo, legandola alle emozioni individuali.

         Allontanando il pensiero dalla sua genesi individuale – che ne poteva inficiare il carattere di verità assoluta – i filosofi hanno perciò compiuto un’operazione impoverente: hanno perso l’occasione di utilizzare le “qualità” del pensiero per la vita, riservandogli solo il campo degli “universali” , lontanissimi dalla concretezza dell’esistenza: attirandosi così i giusti strali dell’antilogocentrismo.

       La Klein invece ci fa vedere come la fantasia e il pensiero siano strettamente collegati ai bisogni e agli affetti, ma ci mostra anche un percorso evolutivo: una mente che pensa è quella che è riuscita a superare con dolore le rigidezze delle sensazioni troppo concrete, ed è capace di sentire in modo fluido e libero; è capace di integrazioni e di mediazioni. Alla conquista di questo modo di sentire Melanie dà il nome di “posizione depressiva” , perché il suo raggiungimento presuppone molto dolore: il lutto dell’onnipotenza, l’accettazione del principio di realtà e delle sue inevitabili frustrazioni.

       Il pensiero così collegato con gli affetti si presenta ricco di potenzialità. Soffermiamoci su questo punto. Il pensiero-affetto non soltanto è vivo, perché è una emozione personale, ma apre nuove possibilità: ci permette di collegare, di attendere, di immaginare. Ci apre un mondo nel quale i sentimenti hanno un ruolo centrale. Tanto è lontano dalle astrattezze criticate dagli antilogocentristi, che si esprime anche con il linguaggio non verbale, col silenzio, con i gesti (anche l’orizzonte “materno”, così enfatizzato per esempio da Kristeva, è infatti simbolico). La capacità fluida del pensiero apre possibilità di vita e di piacere, mentre la “cosa” è rigida.…ad un mondo ristretto alle cose si contrappone l’apertura all’altro fuori di sé, la speranza e la possibilità; in una adesione alle cose non ci potrebbe essere altro che la dura legge di natura: mors tua vita mea, e non si potrebbe costruire nulla, e i sentimenti non avrebbero alcun valore.

     La prospettiva della Klein è in tal senso assai interessante da un punto di vista di filosofia etico-politica. A meno che non vogliamo credere che da qualche parte esista una realtà nella quale non esistono più le frustrazioni, neanche quelle legate alla morte, alle malattie, ai turbamenti dell’amore, non è forse meglio provare ad inventare il modo in cui vivere al meglio la condizione umana? Non è meglio sperimentare le vie su cui la mente umana si inventa nuove possibilità?

       Soffermiamo l’attenzione su un interessante passaggio di Hegel, il filosofo che nei tempi moderni ha più di ogni altro puntato sulle capacità comprensive dello spirito rispetto alle durezze della “lettera”. Vi sono pagine bellissime nella sua produzione, in cui ha una profonda affinità con un percorso psicoanalitico-kleiniano; soprattutto quando, in un’opera celebre scritta nel 1807, la Fenomenologia dello Spirito, descrive lo sviluppo della mente dalle sue fasi nascenti fino allo sviluppo più maturo.

     Hegel ci fa vedere come il desiderio immediato che vuole impossessarsi delle cose (Begierde), non può mai realizzarsi: l’oggetto fagocitato non sarebbe più un oggetto da conquistare, e ne occorrerebbe sempre un altro, in un processo vizioso di “cattiva infinità”. Un notevole passo avanti si ottiene solo quando la mente apprende che, per non consumarsi nell’angoscia, è meglio stabilire con l’oggetto un rapporto non di appropriazione immediata, ma di appropriazione simbolica. L’oggetto conserva la sua realtà separata, ma si può stabilire con esso un rapporto di comunicazione e di amore, in cui l’unione avviene in modo “mediato” (Hegel 1807).

       Per Hegel questo è il territorio dello “spirito”, un territorio simbolico, che è fluido e capace di trovare mediazioni, contro le rigidezze della “lettera”. Per Hegel   l’unico modo in cui, nell’inesorabile contingenza della natura, gli individui possono dare una consistenza a sé e stabilire un rapporto di amore e di coesistenza con gli altri è quello simbolico dello spirito.

       E’ importante notare che queste notazioni così profonde e perspicue perdono molto del loro rilievo nelle pagine del filosofo tedesco man mano che egli trasforma lo spirito in una entità superindividuale, già pronta, senza più contatto col lavoro della mente individuale: perché allora lo Spirito, con la maiuscola, perde il suo carattere di pensiero e ridiventa rigido come una cosa! Questa trasformazione dello spirito in una sostanza già pronta – anche se il filosofo cerca di dotarla ugualmente di caratteristiche pensanti: ma come può un pensiero essere impersonale? – è dovuta probabilmente alla difficoltà immense che Hegel (e tanti altri insieme a lui) si ritrova a dover affrontare quando coerentemente dovrebbe costruire la civiltà come un incontro di individui pensanti. Come in molte religioni, l’incontro e la comunicazione vengono divinizzate in una realtà già pronta (Logos, Dio, Spirito), con conseguenze politiche piuttosto serie. La coesistenza non poggia più sull’incontro collaborativo tra gli individui ma sull’obbedienza a colui o coloro che dicono di “incarnare” lo Spirito.

         Ed è proprio su questo punto che la prospettiva kleiniana può offrirci molto. La Klein cerca di costruire la civiltà a partire dagli individui angosciati dalle terribili esperienze della vita. Abbiamo subito a che fare con un protagonista troppo spesso dimenticato dai filosofi, ma anche dai politici: il povero io che nasce e che muore, che ha un corpo e che soffre.

         Questa centralità dell’individuo e delle sue dinamiche è stata attaccata da molte parti, come se significasse una riduzione dei problemi sociali a problemi pulsionali…..ma anche qui quanto è complesso il problema!

       Decisivo qui è il modo in cui viene inteso il rapporto con la biologia. Per la Klein – come del resto anche per Freud (Al di là del principio di piacere, 1920) la biologia fa parte della vita, e non si può ignorare. Ma il nesso tra il biologico e il mentale non è un fatto automatico, ma è dissonante: i fatti biologici vengono vissuti in modo drammatico, perché trasformati e deformati dalla fantasia inconscia, che è una sorta di pensiero primitivo (secondo le ulteriori riflessioni di Bion c’è uno stadio ancora precedente in cui la mente è dominata da sensazioni concrete da evacuare).

     La biologia dà quindi origine ad un conflitto emotivo di tipo esistenziale (Grotstein lo chiarisce molto bene, Grotstein 2009), ed è su questo che la Klein si sofferma. L’annoso conflitto tra interno ed esterno è così alquanto smussato: il biologico-pulsionale attraverso la fantasia si traduce in emotività, la quale interpreta in modo peculiare il contesto sociale. Tra l’interno e l’esterno si crea un reciproco intreccio circolare: certo che una madre astiosa o indifferente o una madre capace di reverie fa la differenza; ma perché quella madre è fatta così? Quali conflitti emotivi di origine complessa la portano a chiudersi emotivamente verso un figlio? Perché si è creata una situazione che spinge all’odio o alla rabbia?

       L’importanza della etiologia esistenziale ci ricorda che nessun contesto sociale potrà eliminare gli effetti delle esperienze primordiali profonde, e ci suggerisce quanto queste, non elaborate, spesso producano ricerca avida del potere o voglia dissennata di guerra. E siccome le esperienze esistenziali sono proprie dell’individuo – uno Spirito tutto intero non ha da temere la morte, per esempio – si può comprendere donde si origina il sogno di una comunità compatta come un “noi”, o come uno “spirito oggettivo” , o come una “patria”: tutto ciò ci fa capire bene perché gli scenari individuali incutano tanta irritazione e vengono etichettati come nero nichilismo, mentre le essenze olistiche producono una attrazione fatale!

         Ma anche se il mondo è abbandonato da Dio, non per questo tutto è perduto! Melanie ci offre qui suggerimenti preziosi. Ci mostra che le essenze assolute sono fantasmi che il povero io si costruisce per una difesa primitiva di fronte all’angoscia di annientamento, e che la civiltà e la coesistenza si originano dalle menti individuali: ma non per questo perdono di valore, anzi! Risultano soltanto più difficili da costruire e anche molto difficili da mantenere.

       La Klein ritiene che nonostante le angosce e i fantasmi si possa giungere alla speranza e alla voglia di vivere e di costruire. Ma per fare ciò è necessario attraversare molto dolore, soprattutto fare il lutto della propria onnipotenza. La “maturazione” per la Klein consiste nella capacità di non intrappolarsi più in conflitti insolubili tra un bene idealizzato ed un male assoluto, ma saper accettare che la realtà non è perfetta, che le persone non sono perfette, che il proprio sé non è perfetto; e riuscire a comprendere che l’importante è far scorrere la propria libido, renderla libera e fluida, anziché bloccarla in opposizioni angoscianti e senza sbocco. Anche Freud nella sua maturità sembra intendere che la vera distruttività è il disimpasto delle pulsioni, mentre l’aggressività unita ad eros è in fondo tollerabile (Freud 1923) .

     Quanto questa posizione sia importante da un punto di vista filosofico-politico la Klein ce lo illustra esplicitamente, nel suo bellissimo saggio sull’Orestea (Klein 1959), in cui ci mostra come il circolo vizioso della vendetta si può superare solo se ognuno dei contendenti riconosce i suoi torti e si apre al dialogo. Un esempio molto bello di questa posizione, non ispirata direttamente dalla Klein, ma ad essa assai sintonica, ce la offre la Commissione per la verità e la riconciliazione istituita in Sudafrica da Mandela e Tutu nel 1996, che rimane una pietra miliare per il modo di trattare i conflitti: il perdono non è dato in modo generalizzato, ma solo a chi ha riflettuto e pensato sul suo comportamento, dandone ragione agli altri.

     Ad alcuni filosofi, in sintonia con Bataille o con Lacan, questo sbocco appare troppo tranquillo e borghese: dove si collocherebbe allora l’eccesso della vita? Su una linea simile Kristeva nel suo peraltro assai bel volume dedicato alla Klein (Kristeva 2000) sembra apprezzare di questa pensatrice l’aspetto tragico, ma non l’aspetto costruttivo. La “tragedia” sembra evidentemente più autentica della “vita buona”. Certamente sarebbe stucchevole parlare della vita buona ignorando la tragedia…… ma rimanere fermi ad essa è impoverente, perché è come se la libido non avesse sbocchi, e si inaridisse in esiti ristretti, solo soggettivi. Riuscire ad espandere la propria libido nel mondo degli altri equivale a saper trovare uno sbocco “costruttivo” per l’eccesso della vita. Ma questo non si può ottenere senza fare il lutto della propria onnipotenza, acquisendo una dimensione intersoggettiva.

         Anche questo è un problema complesso. La filosofa postmoderna americana Judith Butler per esempio si rallegra che la Klein con le sue notazioni sul senso di colpa inconscio mostri che la dimensione degli altri sia sempre presente, e ne deduce che in fondo all’animo esiste la dimensione sociale (Butler 2008). In effetti la Klein non parla di un narcisismo autoerotico, ma mostra che i richiami provenienti dagli altri sono sempre presenti. E tuttavia questo non significa che allora l’uomo per natura è “socievole”: negli stadi primitivi in cui prevale l’identificazione onnipotente con gli altri, che si amano e si odiano in modo scisso e assoluto, non è raggiunta veramente la dimensione intersoggettiva. La Klein ci mostra con chiarezza che occorre per questo una posizione “matura”: l’altro deve essere percepito come una persona separata, con la sua vita, e tuttavia degna di amore e di cura.

       Alcuni filosofi, ispirati soprattutto da Foucault, polemizzano con l’idea di uno sviluppo maturativo (comunque esso avvenga), ritenendo che in tal modo gli individui saranno tutti resi “uguali e normali” e “medicalizzati” (Foucault 1994). La giusta esigenza di Foucault di combattere le criptoideologie che fin dalla nascita noi succhiamo già col latte materno – lui pensa soprattutto alla normalità sessuale – viene utilizzata in un modo un po’ pericoloso per contestare l’idea stessa della maturazione e del conseguente riconoscimento delle regole della coesistenza e dello stato di diritto (Derrida 1994, Agamben 2003): ma come si potrebbe coesistere senza qualche regola?

         Che sotto questo uso così allargato di Foucault – che con la sua mentalità da archivista approfondiva singoli problemi e non amava le teorie generali – ci sia il desiderio di liberarsi dei difficili rapporti umani, magari sognando una “società tutta una”? Nel celebre saggio di Benasayag e Schmit L’epoca delle passioni tristi (2003) sembra quasi che basta decostruire il soggetto per ritrovare d’incanto legami, dolcezza e gioia. In termini kleiniani questa sarebbe una regressione ad idealizzazioni schizoidi, le quali tornano sempre, perché non bisogna pensare che una volta raggiunta la posizione depressiva le dinamiche più primitive siano definitivamente superate. Ogden ci fa notare anzi che proprio la continua minaccia di un ritorno di scissioni idealizzanti rende la posizione depressiva “critica”, e la mette a riparo da possibili enfatizzazioni: perché la tragedia è sempre lì (Ogden 1994).

     Se questo è un giusto richiamo verso il possibile rischio di “divinizzare” la posizione depressiva, a me pare che sia giunto il momento di dare maggiore spazio ad essa nelle nostre visioni del mondo, valorizzando i momenti buoni e positivi dell’esistenza.

     La posizione depressiva è bella, perché allarga la vita e ci permette di costruire nuovi progetti. Accettare il principio di realtà e fare il lutto della propria onnipotenza non significa affatto chiudersi nell’accettazione di ciò che c’è, anzi! Significa progettare ideali realizzabili, e questi sì che possono dare voce all’eccesso della vita, e dare ad esso sbocchi costruttivi, in battaglie che interessano tante persone.

     Per finire notiamo che tanto la Klein vede la posizione depressiva in modo tutt’altro che trionfalistico, che il sentimento su cui punta non è l’amore universale o la compassione totale, ma la gratitudine. Non punta sulla “vulnerabilità” dell’essere umano, che sembrerebbe trovare la sua soddisfazione nella completezza del paradigma materno (Kristeva 2000, Butler 2005, Pulcini 2011), ma sulla capacità di vivere l’invidia in modo vitale, come gratitudine. La gratitudine – una grande idea di Melanie Klein – è una emozione legata alla differenza: non toglie al confronto il carattere frustrante, ma cerca di rendere quel confronto interessante. Su questo punto sono assai importanti le notazioni di Anne Alvarez (Alvarez 1992, 2012); solo così il mondo, anche se diverso, anzi proprio per quello, ci può apparire di nuovo degno di amore e di stima. La gratitudine a mio parere è il perno su cui dovrebbe ruotare una cultura liberaldemocratica.

       Un mondo composto di individui umani e non umani sarebbe allora lo scenario per far fiorire grandi ideali? Certamente, perché un grande ideale laico non può vivere che in questo scenario……che però finalmente restituisce ad ogni essere vivente il valore delle sue azioni; e da cui si sprigiona energia rigenerante, quando ci accorgiamo che tutto dipende da come vediamo noi stessi e il mondo, da quanto siamo capaci di amare e di tollerare.

Legenda

Agamben 2003= G.Agamben, Stato di eccezione, Torino 2000

Alvarez 1992 = A.Alvarez, Il compagno vivo. Si può strappare un bambino alla follia?, Roma1993

Alvarez 2012 = A.Alvarez, Un cuore che pensa. Tre livelli di terapia psicoanalitica con i bambini, Roma 2014

Benasayag 2003=   M.Benasayag, G.Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Milano 2003

Butler 2005 = J.Butler, Critica della violenza etica, Milano 2006

Butler 2008 = Judith Butler, Vulnerabilità, capacità di sopravvivenza….”Kainos”,8.2008, (on line)

Cancrini 1981 = T.Cancrini, Psicoanalisi, uomo, società, Roma 1981 

Derrida 1994 = J.Derrida, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità”, Torino 2003

Diamond 1988-2002 = C.Diamonds, L’immaginazione e la vita morale, a cura di P.G.Donatelli, Roma 2006

Foucault 1994 = M.Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1975-1984, Milano 2001

Freud 1920 = S.Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, vol.9, Torino 1989, pp.193-249

Freud 1923 = S.Freud, L’Io e l’Es, in Opere, vol.9, Torino 1989, pp.475- 520

Grotstein 2009 = J.S.Grotstein, Il modello kleiniano-bioniano, vol. I, Milano 2011

Hegel 1807 = G.F.Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Firenze 1960

Klein 1930 = M.Klein, L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’io in M.K., Scritti (1921-1958), Torino 1978, pp.249-264

Klein 1946 = M.Klein, Note su alcuni meccanismi schizoidi, in M.K.,Scritti (1921-1958), Torino 1978, pp.409-434

Klein 1957 = M.Klein, Invidia e gratitudine, Firenze 1969

Klein 1959 = M.Klein, Alcune riflessioni sull’Orestiade, in M.K., Il nostro mondo adulto (postumo), Firenze 1972, pp.37-78

Kristeva 2000 = J.Kristeva, Le génie féminin.II.Melanie Klein, Paris 2000

Lecaldano 2013 = E.Lecaldano, Simpatia, Milano 2013

Mann 1938 = Th.Mann, Saggi su Schopenhauer Nietzsche Freud, Milano 1988 (2.ed.)

Nussbaum 2001 = M.Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna 2004

Ogden 1994 = Th.Ogden, Subjects of Analysis, New York 1998

Pulcini 2011 = E.Pulcini, Invidia, la passione triste, Bologna 2011

Ricoeur 1965 = P.Ricoeur,Della interpretazione. Saggio su Freud, Milano 2002 (2.ed.)

Rustin 1991 = M.Rustin, La società buona e il mondo interno.Psicoanalisi, politica e cultura, Roma 1994

Williams 1985 = B.Williams, Problems of the Self, Cambridge 1985

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