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Mancia M., Memoria implicita e inconscio precoce non rimosso: loro ruolo nel transfert e nel sogno. 2006

 

Un discorso sull’inconscio (rimosso e non-rimosso) presuppone una discussione sulla memoria. E questo perché l’inconscio è un depositarsi nella memoria di rappresentazioni affettive legate alle esperienze che l’individuo ha fin dall’inizio della sua vita. Pertanto le funzioni della memoria e quelle dell’inconscio non possono esistere separate l’una dall’altra. Esse sono funzioni che si organizzano parallelamente nel corso dello sviluppo. Ciò è in linea con quanto già Freud scriveva nel 1912 che le rappresentazioni latenti, se continuano a esistere nella vita psichica – com’è il caso della memoria – dovranno essere designate come inconscio.

Tale ipotesi si basa su un presupposto: che le esperienze sensoriali, i vissuti, gli affetti, le emozioni, le fantasie e le difese che hanno costituito i mattoni della realtà psichica a partire dalla nascita (e forse anche durante la gestazione) e nel corso dell’intera vita, siano archiviate nelle strutture nervose deputate alle funzioni della memoria. Su questa base, l’inconscio rimosso potrebbe trovare una sua sede nelle strutture della memoria esplicita, mentre l’inconscio non-rimosso che discuterò in questo lavoro, potrebbe avere una sua sede anatomo-funzionale nelle strutture della memoria implicita.

Quest’ultima funzione inconscia della mente non può essere dovuta a rimozione poiché è legata alla memoria implicita che non permette il ricordo, mentre le strutture della memoria esplicita indispensabili per la rimozione non sono mature prima dei due anni di vita (Siegel, 1999), come spiegherò in seguito. Ciò che è depositato nell’inconscio non rimosso è capace tuttavia di condizionare la vita mentale dell’individuo nella sua dimensione affettiva, emozionale e cognitiva anche da adulto. Questo concetto non presenta analogie con quanto Freud (1915b, 76) scrive: «non resta estraneo alla coscienza solo ciò che è psichicamente rimosso, ma anche una parte degli impulsi che dominano il nostro Io», né con il concetto che compare in L’Io e l’Es in cui Freud (1922) descrive una parte dell’Io inconscio non rimosso che deriva dall’Es e che si adagia su di esso assumendone le caratteristiche. Esso è diverso dall’inconscio passato descritto dai Sandler (1987), che si riferisce ad esperienze infantili non proprio precoci e comunque rimosse. L’inconscio che cercherò di descrivere e definire qui, si riferisce alle esperienze intersoggettive sensoriali e a forte contenuto emozionale più precoci della vita relazionale umana che si depositano nella memoria implicita. Esso è più vicino nella sua logica simmetrica all’inconscio non rimosso descritto da Matte-Blanco e da me discusso recentemente (Mancia, 2004b).

La ricerca neuroscientifica ha dimostrato che esistono nel nostro cervello due sistemi della memoria a lungo termine: la memoria esplicita o dichiarativa, cosciente e verbalizzabile che riguarda eventi specifici e autobiografici della vita che permettono, attraverso il ricordo, una ricostruzione della propria storia personale e la memoria implicita, che per contro non è cosciente e riguarda esperienze che non possono essere ricordate né verbalizzate.

La memoria implicita, descritta nel 1974 da Warrington e Weiskrantz attraverso esperienze di priming in pazienti con amnesia da Korsakov, solo recentemente è stata presa in considerazione per la sua rilevanza per la teoria psicoanalitica della mente. Mi riferisco alla memoria implicita nella sua doppia dimensione procedurale ed emozionale-affettiva, riferita alle esperienze primarie della relazione madre-bambino e forse ai più precoci stimoli prenatali che il feto riceve dalla madre. Alla fine della gestazione e nei primi due anni di vita, le strutture necessarie alla memoria esplicita, in particolare l’ippocampo e la corteccia temporale mediale, non sono mature (Siegel, 1999). Pertanto la rimozione non può avere luogo in questo iniziale periodo della vita. Questo è un dato che deriva dalla ricerca sullo sviluppo del sistema nervoso, di cui dobbiamo tenere conto. Il concetto di «rimozione originaria» di Freud (1915a), alla luce di queste osservazioni, deve essere abbandonato e sostituito da altre modalità operative che tengano conto di questa nuova realtà scientifica. A ciò va aggiunto un altro dato recente della letteratura neuroscientifica: traumi psichici di varia natura ed esperienze precoci di separazione danneggiano nei mammiferi l’ippocampo fino all’atrofia dei suoi neuroni e pertanto rendono non agibile il sistema della memoria esplicita ostacolando l’apprendimento e la memoria (Karten et al., 2005). In questa situazione, la memoria implicita non è alterata e resta, pertanto, l’unica memoria dove le esperienze (anche traumatiche e stressanti) possono essere depositate senza andare incontro a rimozione.

Diversamente dalla memoria esplicita, la memoria implicita (non passibile di ricordo) è operativa fin dai periodi più precoci dello sviluppo. Essa dipende da circuiti cerebrali che fanno capo all’amigdala (organo delle emozioni per eccellenza) (Damasio, 1999; LeDoux, 2000; Bennett e Hacker, 2005) che matura precocemente e prima dell’ippocampo (Joseph, 1996; vedi Mancia 2006b). Essi coinvolgono il cervelletto (almeno per le risposte condizionate alla paura, Sacchetti et al., 2004), i gangli della base, la corteccia del cingolo, l’insula e le aree temporo-parieto-occipitali dell’emisfero destro (fortemente caratterizzato sul piano emozionale) (Gainotti, 2001, 2006). Le esperienze della prima infanzia (e perciò anche ogni trauma precoce) non possono essere depositate che in questa forma di memoria, l’unica disponibile all’inizio della vita. Tuttavia, in ogni momento della vita, esperienze fortemente traumatiche o gravi stress (McEwan e Sapolski, 1995) producono perdita di neuroni ippocampali e pertanto i circuiti della memoria esplicita saranno alterati. Queste esperienze possono essere archiviate solo nella memoria implicita e contribuire a strutturare anche se tardivamente un inconscio non rimosso.

La scoperta di un doppio sistema della memoria, per lo stretto rapporto che questa funzione ha con la funzione inconscia della mente, ci permette ora di ipotizzare due forme di inconscio compatibili con le due forme di memoria appena descritte: l’inconscio non rimosso, che si struttura precocemente entro i primi due anni di vita, e l’inconscio rimosso, che si organizza più tardivamente. Del loro manifestarsi nel transfert e del modo di ricuperarli nel corso dell’analisi, parlerò in seguito.

Entrando nel vivo della questione relativa alla memoria implicita dobbiamo domandarci: di quali esperienze precoci si occupa la psicoanalisi? E che relazione ha il trauma precoce con il destino di queste esperienze? Fin dai suoi primi scritti, Freud (1899) ha guardato con particolare attenzione alla prima infanzia, all’amnesia infantile, ai traumi cui il neonato poteva andare incontro nel corso del suo sviluppo. Per spiegare l’amnesia infantile, Freud (ibid.) introduce un concetto nuovo: quello di «ricordi di copertura», inteso come il risultato della rimozione di alcuni fatti o un loro spostamento su fatti contigui. Infatti, i «ricordi di copertura» sono per Freud (ibid.) falsificazioni tendenziose della memoria al servizio della rimozione di esperienze perturbanti, come avviene, ad esempio, per il contenuto manifesto del sogno nei confronti del contenuto latente. In Ricordare, ripetere e rielaborare, Freud (1914) aveva sottolineato l’importanza dei sogni nel far prendere coscienza di esperienze precoci infantili non passibili di ricordo, andando quindi molto vicino al concetto di memoria implicita. Restava tuttavia fermo al concetto di rimozione, cardine intorno al quale ha sempre girato la sua teoria della memoria e la sua organizzazione dell’«inconscio dinamico».

Nel 1930, ne Il disagio della civiltà, Freud crea una metafora storico-archeologica per affermare che tutto ciò che si è esperito nel passato non può essere cancellato. Esso «sopravvive» nel presente. E il transfert ne permette il ritorno. Ma sopravvivere non significa ricordare. Il transfert quindi può permettere il recupero di una esperienza infantile sia attraverso il ricordo che attraverso altre modalità che esulano dal ricordo. Ritorniamo qui, come è evidente, nella situazione attuale della doppia funzione della memoria: quella esplicita, che permette il ritorno del rimosso attraverso il ricordo; quella implicita, che permette il ritorno del non-rimosso attraverso altre vie rispetto al ricordo.

A questo punto la metafora archeologica di Freud (1937) per cui l’analista può portare alla luce tutto ciò che il tempo ha sotterrato (cioè rimosso), merita una revisione. L’analista è anche uno storico sui generis che dovrà ricostruire una storia senza poter consultare direttamente i documenti del passato. Sono i documenti depositati in un archivio che non può essere consultato (manca infatti il ricordo), ma che l’analista/storico dovrà ricostruire e riscrivere attraverso alcune dimensioni specifiche del transfert e alcune raffigurazioni del sogno. Di queste modalità cliniche parlerò in seguito. Mi interessa ora riflettere sulla funzione storica del processo analitico, teso a far acquisire al paziente una coscienza storica del suo inconscio. Coscienza storica che Paul Ricoeur (1998) considera il risultato di una dialettica tra due poli rappresentati da uno «spazio di esperienza» costituito dall’eredità (tutta) del passato e «l’orizzonte di attesa» che rappresenta le previsioni e i progetti proiettati nel futuro. In analisi la coscienza storica dell’inconscio esprime una dialettica tra il passato più arcaico, preverbale e presimbolico, che ha fondato l’inconscio precoce non rimosso e il progetto del futuro quale risultato di una trasformazione che avviene nel corso dell’analisi. Tale trasformazione avviene in virtù della interpretazione, fondata sulla costruzione (nell’hic et nunc della seduta) e sulla ricostruzione di eventi del passato che ricompaiono nella relazione transferale e nel sogno anche senza il ricordo. Questa riflessione ci autorizza ad estendere il concetto freudiano di Nachträglichkeit, inteso non più soltanto come una ritrascrizione della memoria esplicita dove si è organizzato l’inconscio rimosso, ma anche come una ritrascrizione sui generis che riguarda la memoria implicita e l’inconscio non rimosso.

È possibile ipotizzare una sede anatomica per le funzioni inconsce della mente?

Freud (1915b, 57) afferma a proposito dell’inconscio che «per il momento la nostra topica non ha niente da spartire con l’anatomia, non si riferisce a località anatomiche, bensì a regioni dell’apparato psichico, a prescindere dalle parti dell’organismo in cui dette regioni possono essere situate». Prudentemente Freud sottolinea per il momento, quasi consapevole che un giorno non troppo lontano questa affermazione poteva essere contraddetta.

Siamo ora in grado di affrontare un problema che le Neuroscienze possono aiutare la Psicoanalisi a risolvere: quello relativo alla possibilità che l’inconscio, quale funzione della mente intrinsecamente legata a quella della memoria, abbia, come quest’ultima, una sede organica nei circuiti cerebrali corticali e sottocorticali. La possibilità ora di identificare nella memoria implicita l’inconscio non rimosso e nella memoria esplicita l’inconscio dinamico dovuto alla rimozione, offre prospettive estremamente stimolanti per una integrazione della psicoanalisi con le neuroscienze. Esistono esperienze (Anderson, 2006; Anderson et al., 2004) che suggeriscono l’ipotesi che la rimozione possa riguardare le strutture della memoria esplicita. (1) La rimozione volontaria in soggetti normali si accompagna ad una attivazione delle aree corticali prefrontali dorsolaterali e una deattivazione bilaterale dell’ippocampo. Ciò è tanto più interessante se si pensa che il fenomeno è esattamente l’opposto di quanto si osserva nella de-rimozione del sogno (in sonno REM) in cui si ha un aumento dell’attività ippocampale e una deattivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale (Braun et al., 1998).

L’inconscio non rimosso, per contro, troverebbe una sua sede nella memoria implicita e comporterebbe la partecipazione dell’amigdala (che matura più precocemente dell’ippocampo), dei gangli della base, del cervelletto e delle aree corticali parieto-temporo-occipitali dell’emisfero destro. Questa ipotesi è basata sulle seguenti evidenze: l’amigdala è fortemente attivata nelle emozioni (Damasio, 1999; LeDoux, 2000; Bennett e Hacker, 2005) e così il cervelletto, almeno per le esperienze di paura (Sacchetti et al., 2004). Le aree parieto-temporo-occipitali dell’emisfero destro sono parti del cervello emozionale (Gainotti, 2001, 2006) e deposito della memoria implicita per le parole (Gabrieli et al., 1995). L’emisfero destro è più attivo del sinistro nel sonno REM e quindi nel sogno (Antrobus, 1983; Bertini e Violani, 1984). Esso partecipa con le aree parietali del giro angolare e sopramarginale (aree 39 e 40 di Broadman) all’integrazione sensoriale e alle funzioni simboliche, gnosiche e prassiche (Geschwind, 1965; Critchley, 1966; Bisiach et al., 1978; Hyvarinen, 1982). Nei pazienti cerebrolesi in cui con il circuito dopaminergico sono interrotte le connessioni dirette a queste aree si assiste ad una abolizione dei sogni anche se l’architettura del sonno resta integra (Solms, 2003: Bischof e Bassetti, 2004). Queste diverse evidenze suggeriscono dunque che le funzioni inconsce non rimosse possano essere organizzate negli stessi circuiti di base che sottendono alla memoria implicita e trasmettitori come la dopamina possono giocare un ruolo significativo.

L’organizzazione dell’inconscio precoce non rimosso

Per poter affrontare questo tema è necessario chiarire quali elementi significativi sul piano affettivo ed emozionale partecipano alla relazione primaria a partire dagli ultimi periodi gestazionali e per i primi due anni di vita. Prima della nascita, dopo il 5° mese di gestazione, il feto è sensibile agli stimoli uditivi di provenienza materna (battito cardiaco, ritmi respiratori, rumori intestinali) che costituiscono un contenitore caratterizzato da continuità e ritmo (Mancia, 1981; Imbasciati, 1994). Alla nascita, la voce della madre apparirà al bambino come il primo meraviglioso strumento esterno a sé capace di produrre suoni e dare continuità alla esperienza musicale ritmica precedente. È la voce materna che parteciperà a formare un involucro di sensazioni analoghe all’esperienza della pelle descritta dalla Bick (1968) e da Anzieu (1987) o alla continuità sinestesica tra corpo mucoso e corpo eido-acustico del bambino al momento della poppata di cui parla Fornari (1985).

L’intonazione della voce materna e la dimensione prosodica del suo linguaggio costituiranno un «marchio» o imprinting fondamentale nella relazione della madre con il feto prima e il neonato poi. Le caratteristiche tonali specifiche della voce vengono infatti memorizzate dal neonato già nella sua condizione di feto (De Casper e Fifer, 1980, vedi Kolata, 1984). Nei primi momenti della vita, l’intonazione della voce e la prosodia del linguaggio materno costituiscono un’area di interazione affettiva dove convergono introiezioni e proiezioni tra la madre e il suo bambino. La lingua materna nella sua dimensione prosodica (particolarmente l’intonazione) è così da considerare una via di accesso privilegiato ai sentimenti (Cook, 2002). Il bambino, nel corso dello sviluppo del suo linguaggio, sarà influenzato dall’intonazione di base di questa lingua primaria e dagli affetti che essa veicola.

La ricerca sullo sviluppo del linguaggio ha dimostrato che la voce materna appresa in utero e memorizzata può influenzare il tasso di suzione del neonato, rispetto ad altre voci (Mehler et al., 1978). Alla nascita, il neonato è particolarmente sensibile, in epoche precoci, alla prosodia (intonazione e ritmo) della lingua materna. Solo al sesto mese di vita circa, egli mostra, accanto all’apprendimento della struttura prosodica, una capacità di rappresentarsi le intonazioni sequenziali relative alle vocali e alle consonanti della stessa lingua materna (Mehler e Christophe, 1995). Lo scambio precoce caratterizzato dalla voce e altre modalità non verbali di comunicazione gioca un ruolo fondamentale nella relazione intersoggettiva primaria. Può essere interessante qui sottolineare che la musicalità della parola si radica in questa primitiva relazione tra il bambino e l’ambiente affettivo in cui cresce e in particolare il fatto che i neonati di 2-6 mesi preferiscono suoni consonanti (simmetrici) a suoni dissonanti (asimmetrici) (2) (vedi Schön e Besson, 2002).

La dimensione musicale della lingua è comunque legata agli affetti più primitivi (Schön e Besson, 2002) che giocano un ruolo fondamentale nei «performative aspects» della comunicazione (Austin, 1962). Anche il corpo partecipa a questi affetti primari incorporati nel pattern tonale della lingua. È noto infatti che il bambino attiva movimenti specifici eterosincronici in rapporto al linguaggio di chi gli parla e movimenti autosincronici in rapporto alla sua stessa lallazione e espressione linguistica (Condon e Sander, 1974). Può essere interessante qui, in omaggio a Winnicott (1971), ricordare come anche questo autore in Gioco e realtà abbia sottolineato l’importanza della comunicazione extraverbale e del rispecchiamento visivo del volto della madre, ma anche della sua voce che il bambino esperisce come specchio del suo stato emozionale interno. Inoltre il neonato comprende il linguaggio semantico molto più tardi del linguaggio prosodico e musicale. Quest’ultimo gli permette di ritrovare nella madre contenimento, affetto, rassicurazione e il sentimento di essere capito e di sentirsi soddisfatto. Il linguaggio così, nella sua musicalità, entra a dare un tono affettivo dominante alla relazione primaria. Tutto ciò avrà un ruolo importante e significativo nel transfert. Accanto alla voce, il corpo costituisce un essenziale oggetto di scambio affettivo (introiettivo e proiettivo) tra la madre e il bambino. Il modo con cui la madre si relaziona al corpo del bambino, il suo toccarlo, contenerlo, guardarlo, parlargli, oltre alla sua specifica rêverie e capacità di soddisfare i suoi bisogni e desideri, è in grado di veicolare affetti ed emozioni fondamentali per lo sviluppo della sua personalità. Tali affetti ed emozioni costituiscono gli elementi più arcaici inconsci della psiche, quelli che Freud (1915b) considerava i suoi popoli preistorici e che, con una metafora presa dalla biologia, potremmo definire i costituenti del DNA psicologico di ogni individuo.

Traumi di varia intensità e natura possono essere vissuti dal neonato in questo delicato momento relazionale. Essi, specie se ripetuti nel tempo, possono alterare questa struttura «genetica» e dare origine a difese e fantasie che saranno depositate nella memoria implicita e costituiranno le ragioni di una distorsione del processo che organizza l’inconscio precoce non rimosso e compromettere un buon attaccamento (Bolwby, 1969), le funzioni riflessive (Fonagy e Target, 2001) e intersoggettive precoci (Stern, 2004), basi dell’organizzazione di un solido Sé (Stern, 1985). Tali traumi possono essere alla base di ciò che Money-Kyrle (1978) chiama «fraintendimenti primari». Essi non possono andare incontro a rimozione a causa della loro precocità e saranno invece depositati nella memoria implicita a costituire gli elementi più negativi e patologici di questo tipo di inconscio.

Come ricuperare l’inconscio non rimosso nella relazione analitica

La scoperta della memoria implicita e dell’inconscio non rimosso ci suggerisce ora una particolare attenzione ad alcuni aspetti specifici del transfert e a quegli elementi del sogno che offrono una raffigurabilità psichica (Botella C. e S., 2001) capace di colmare il vuoto di rappresentazioni che caratterizza l’inconscio precoce non rimosso.

Il transfert va colto soprattutto nella sua componente extra- ed infra-verbale: il comportamento generale del paziente nel setting, l’espressione del suo viso, la sua postura, gli stessi movimenti che rimandano all’influenza sull’inconscio precoce della dimensione procedurale della memoria implicita (Clyman, 1991). Le componenti infra-verbali riguardano le funzioni «significanti» (de Saussure, 1916) della prosodia della voce e del linguaggio in quanto richiamano le prime esperienze relazionali del bambino con la madre che il paziente può rivivere con il proprio analista nel transfert.

Nell’incontro analitico, dove la parola acquista un rilievo determinante, la voce costituisce il mezzo con il quale le parole creano i suoni e veicolano affetti. In questa misura la voce è una «esperienza» di sé che si realizza nell’atto di parlare (Ogden, 2001), ma ad un tempo una «espressione» del Sé in relazione con l’altro. Essa costituisce una «corrente transferale» che richiama una dimensione sensoriale associata alla voce materna (Godfrind, 1993). A questi elementi della comunicazione si uniscono il ritmo, il tono, il timbro, la musicalità della frase, la sintassi e i tempi del linguaggio.

La lingua, dice F. de Saussure (1916) non conosce che il suo proprio ordine, suggerendo che nell’ordine dell’incontro analitico, tutto ciò costituisce quello che ho definito come la «dimensione musicale» del transfert (Mancia, 2003a,b,c; 2004a, 2006a). Tale dimensione è stata descritta anche da Knoblauch (2000) come «musical edge of therapeutic dialogue», intesa come una «shared musical performance» della coppia analitica che presenta analogie, per questo autore, con quanto avviene nella musica jazz.

La dimensione musicale dell’incontro analitico si riferisce ad una concezione della musica come linguaggio sui generis la cui struttura simbolica è isomorfica a quella del nostro mondo inconscio emozionale e affettivo (Langer, 1942; Ognibene, 1999; Di Benedetto, 2000). Questa modalità, al di là del contenuto della narrazione, costituisce la metafora transferale delle esperienze (anche traumatiche) affettive, emozionali e cognitive che hanno caratterizzato il modello implicito della mente del paziente. Tale modello ha le sue radici nel linguaggio e in particolare nel tono emotivo della voce materna che il bambino apprende prima del suo significato semantico. Egli conferisce alla lingua materna un accesso privilegiato ai sentimenti (Amati Mehler et al., 1993).

Mi pare pertinente qui introdurre una riflessione di Luciano Berio (2006) che sottolinea la differenza tra linguaggio parlato e linguaggio musicale. Il primo come rappresentazione di parola si differenzia dalla rappresentazione di cosa, mentre il secondo come sequenza e insieme di note è la cosa. Ciò significa che l’esperienza musicale è l’emozione stessa. Questo ci autorizza a pensare che le prime esperienze del neonato prodotte dalla musicalità della voce materna costituiscono le sue prime emozioni.(3)

La voce materna deve quindi essere vista come una metaforica area di scambio attraverso la quale avvengono processi molto primitivi di proiezione e introiezione. Analogamente, nella relazione analitica l’analizzando e l’analista usano la loro voce per comunicare i propri affetti e per facilitare o ostacolare il proprio reciproco investimento affettivo (Rizzuto, 2004; Leon De Bernardi, 2004; Steiner, 2004, in Etchegoyen e Amati Mehler, 2004). La componente semantica della parola dell’analizzando (e del terapeuta) è profondamente influenzata dal significato emozionale che appartiene alla sua storia inconscia precoce e che si basa sulla prosodia della parola appresa prima del suo significato semantico. Tale dimensione prosodica e musicale non può che far parte dell’inconscio non rimosso, in quanto collegata alle più primitive esperienze affettive ed emozionali del feto prima e del neonato poi con la madre e l’ambiente in cui cresce. Essa può facilmente essere scissa e identificata proiettivamente nell’analista e quindi in grado di pungere la sua pelle controtransferale più di qualsiasi contenuto semantico della narrazione.

Donald Meltzer (1984) è stato tra i primi a considerare la lingua come una funzione della fantasia inconscia che usa l’identificazione proiettiva come modo di comunicare. Spetta all’analista, sensibilizzato all’ascolto, il compito di cogliere nell’hic et nunc della seduta il significato inconscio di questa specifica modalità transferale (e in particolare la qualità più arcaica degli affetti scissi e identificati proiettivamente) e metterla in parole conferendogli un senso simbolico e collegandola ricostruttivamente al passato. È questo il momento in cui è di estrema importanza il modo in cui l’analista si rivolge al paziente, la musicalità della sua voce e la struttura e i tempi del suo linguaggio. Con la voce e il linguaggio egli può veicolare la propria comprensione e i propri affetti al paziente e contribuire a creare quell’area di scambio dove avvengono proiezioni e introiezioni tra lui e il suo paziente, come un tempo tra la madre e il suo bambino.

Questo aspetto del controtransfert è stato colto anche da altri autori (Pally, 1997; Fonagy, 1999; Cimino e Correale, 2005) per i quali le comunicazioni non verbali del paziente possono suscitare intensi sentimenti controtransferali.

Rispetto a quanto proposto in questi lavori, ritengo abbia una valenza euristica il mettere in collegamento, come io propongo, memoria implicita e inconscio non rimosso, particolarmente per approfondire la conoscenza delle modalità di comparsa nel transfert e nel sogno proprio di tale inconscio non rimosso.

Riguardo poi al contesto clinico e allo scambio di emozioni tra paziente e analista, credo siano di estrema importanza le osservazioni neuropsicologiche più recenti relative all’attivazione delle aree affettive del dolore (parte anteriore del cingolo e dell’insula) in un osservatore coinvolto affettivamente con l’osservato a seguito di una comunicazione extraverbale (Singer et al., 2004) e persino verbale (Osaka et al., 2004; 2006) di un soggetto sofferente (Avenati e Aglioti, 2006).

Anche stimoli odorosi, che producono disgusto in un soggetto, attivano nell’osservatore le stesse strutture affettive del soggetto (Wicker et al., 2003). A livello neuronale le esperienze ormai famose sui cosiddetti «neuroni specchio» (Gallese, 2001, 2003, 2006) possono fornire prove neurofisiologiche oltre che relative all’intenzionalità (Fogassi et al., 2005) in favore di uno scambio e condivisione di sentimenti ed emozioni tra individui in relazione tra loro, quale base fisiologica di un processo che ha forti analogie con quelle modalità relazionali che chiamiamo identificazione proiettiva. Sono questi i punti di integrazione tra neuroscienze e psicoanalisi che si riferiscono a possibili modificazioni neurologiche funzionali di individui in relazione tra loro e dello stesso terapeuta come base del suo controtransfert.

In questi ultimi anni, nel definire le azioni terapeutiche della psicoanalisi (Gabbard e Westen, 2003) si è assistito ad un ridimensionamento della interpretazione rispetto alla relazione in quanto tale e ad un passaggio dell’enfasi dalla ricostruzione alla costruzione nell’hic et nunc della seduta. Il mio punto di vista è, contrariamente a questa tendenza, di valorizzare l’interpretazione del transfert con attenzione a quelle modalità sopra definite, con cui si presenta in seduta, e di rivalorizzare la ricostruzione, ma da un nuovo vertice epistemologico. Tale vertice riguarda le esperienze relazionali nel presente della seduta che riattivano, anche senza il ricordo, le emozioni e gli affetti che appartengono al passato inconscio non rimosso del paziente. La ricostruzione di cui parlo ha delle analogie con il concetto di Blum (1994) di una operazione complementare alle interpretazioni di transfert. Essa comporta una estensione del concetto di Nachträglikeit, dal materiale inconscio rimosso, cui Freud l’aveva confinata, al materiale inconscio precoce non rimosso.

Costruzione e ricostruzione sono processi non in opposizione ma sintonici e contemporanei. Se mi è concesso un richiamo al pensiero strutturalista di Lévi-Strauss (1958), essi formano una «struttura» (l’inconscio che in quel momento si rivela) che si riferisce allo stesso tempo al presente, al passato e al futuro. Il passato si articola con il presente per costruire quello che l’etnologo francese chiama una «storia strutturale». Essa non è esclusivamente sincronica (costruttiva) né diacronica (ricostruttiva), ma crea e studia le condizioni del cambiamento. L’analogia con la psicoanalisi sta nella considerazione che la «storia strutturale» del paziente altro non è che la storia del suo inconscio (non rimosso e rimosso) come struttura che si rivela nel transfert e nei sogni. Anche essa è un processo che può essere ad un tempo sincronico (costruzione) e diacronico (ricostruzione), ma soprattutto crea e studia le condizioni del cambiamento della struttura inconscia della mente del paziente.

Si inserisce qui la mia critica (Mancia, 2006c) al lavoro del gruppo di Boston (Stern et al., 1998; Lyons-Ruth et al., 1998) e il mio argomento teso a differenziare il concetto di memoria implicita e di inconscio non rimosso da quello di conoscenza relazionale implicita. Innanzitutto il termine «implicito» è usato da questi autori per indicare la non verbalizzabilità di ciò che avviene nella relazione intersoggettiva mentre per me è implicita la memoria dell’esperienza intersoggettiva precoce. Nel lavoro del gruppo di Boston viene deenfatizzato il ruolo dell’inconscio «implicito» (e non rimosso) a favore di una «conoscenza implicita» che il «momento di incontro», reso possibile dal «momento presente» (Stern, 2004), riorganizza sia per il paziente che per l’analista. La stessa definizione di «conoscenza relazionale implicita» sottolinea la dimensione conscia della relazione non verbalizzata piuttosto che quella inconscia, anche se per questi autori tale conoscenza integra gli aspetti affettivi, cognitivi e comportamentali che restano fuori dalla consapevolezza. Tale conoscenza, che avviene attraverso processi di interazione intersoggettiva, enfatizza la «costruzione» nell’hic et nunc della relazione piuttosto che la «ricostruzione» attraverso la verbalizzazione, come è nel concetto di implicito collegato all’inconscio non rimosso da me discusso precedentemente.

Rispetto alle funzioni terapeutiche, non è sufficiente, io credo, ricontestualizzare nel presente della relazione un’esperienza passata perché il «momento di incontro» sia di per sé terapeutico. È necessario verbalizzare e permettere al paziente di rivivere emozionalmente l’esperienza passata perché egli possa ricostruire terapeuticamente la sua storia traumatica. Un’altra differenza è infine nel fatto che il «momento di incontro» non può realizzarsi – per gli autori di Boston – con una interpretazione di transfert, mentre il recupero dell’inconscio non rimosso collegato alla memoria implicita può ottenersi solo attraverso il lavoro interpretativo sul transfert (e sul sogno), come ho chiarito sopra (vedi Mancia, 2006c).

La possibilità in analisi di cogliere le modalità «implicite» del transfert rappresenta il percorso più significativo per raggiungere l’inconscio non rimosso del paziente e risalire con una ricostruzione al suo passato. È una ricostruzione naturalmente sui generis poiché le esperienze archiviate nella memoria implicita non possono essere ricordate. Esse però possono essere rivissute emozionalmente nel transfert o rappresentate simbolicamente nel sogno, teatro della memoria implicita il cui sipario è aperto sul transfert.

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Il sogno può costituire una rappresentazione privilegiata per cogliere sia le fantasie, gli affetti e le difese che si manifestano nel transfert che i momenti ricostruttivi collegati alle esperienze preverbali e presimboliche che caratterizzano il modello implicito della mente del paziente. La funzione del sogno è infatti quella di rendere simboliche esperienze (anche traumatiche) precoci e presimboliche permettendone la pensabilità e la verbalizzazione. Inoltre il sogno apre il sipario sul transfert creando raffigurazioni che possano colmare il vuoto della non-rappresentazione che caratterizza l’inconscio non rimosso. La sua interpretazione favorirà il processo ricostruttivo necessario alla psiche per migliorare le proprie capacità di mentalizzare e rendere quindi pensabili, anche se non ricordabili, esperienze all’origine non rappresentabili né pensabili.

Alla luce di queste riflessioni, la componente critica dell’azione terapeutica della psicoanalisi appare oggi quella di trasformare simbolicamente e rendere verbalizzabili le strutture implicite precoci e inconsce della mente del paziente. Si tratta di esperienze cariche di emozioni e radicate nel tono affettivo delle relazioni primarie, così come si condensano nel linguaggio e nel tono prosodico della voce, piuttosto che nel ricordo di memorie autobiografiche risalenti ad epoche posteriori a quelle preverbali. Rendere pensabili le strutture implicite della mente del paziente e le modalità inconsce con cui opera, significa anche permettergli di raffigurarsi il non-rappresentabile del suo inconscio non rimosso e di recuperare quelle parti del Sé negate o scisse e proiettate in epoche precoci dello sviluppo della sua mente.

Ciò non significa che il lavoro sulla memoria dichiarativa e sul rimosso non abbia alcun ruolo nel processo ricostruttivo e terapeutico dell’analisi. Le narrazioni del paziente opportunamente metaforizzate (Mancia, 2004a) e il ricordo di fatti depositati nella sua memoria esplicita fanno parte del processo costruttivo e ricostruttivo e pertanto giocano un loro ruolo nelle trasformazioni che osserviamo in analisi. Ma ciò non deve esimerci dal prestare una costante attenzione a ciò che il paziente non narra né ricorda ma «agisce» o comunica in seduta in forme infraverbali transferalmente e controtransferalmente toccanti e significative.

Esperienze dunque depositate nella memoria esplicita e implicita possono essere presenti nel transfert ed influenzarsi reciprocamente, come d’altra parte avviene nello sviluppo normale della mente infantile (Siegel, 1999). Questo è in linea con lo scambio reciproco di informazioni che avviene, a maturazione completa, tra amigdala e ippocampo (Phelps, 2004). Nel processo analitico, il lavoro sulla memoria implicita può facilitare l’emergere di fantasie e ricordi depositati nella memoria esplicita, come il lavoro di ricostruzione che passa per la memoria autobiografica può facilitare l’emergere nel transfert e nei sogni delle emozioni collegate alle esperienze più arcaiche, depositate nella memoria implicita del paziente. Dal transfert e dai sogni l’analizzando potrà, con l’aiuto dell’analista, ricostruire la sua personale «fiaba» e, riscrivendo la sua storia affettiva, storicizzare il proprio inconscio a partire dalle prime emozioni della sua vita.

Una breve tranche dell’analisi di Mrs R.

«Sono contenta di aver potuto riscrivere la mia storia personale e di poterla raccontare a me stessa». Così apre la seduta Mrs R. un giorno all’inizio del quarto anno di analisi con me a tre sedute settimanali, iniziata dopo 10 anni di analisi con un altro analista. Mrs R. è una signora cinquantenne proveniente da una famiglia intellettuale alto-borghese. Si è rivolta a me dopo la sua precedente esperienza analitica, insoddisfatta per come aveva vissuto la sua prima analisi e dominata da una profonda ansia che le rendeva la vita relazionale particolarmente difficile. Oltre alle frequenti rabbie agite sul lavoro, Mrs R. mi comunica che soffre da anni del morbo di Kron e di temere una sua riacutizzazione. Lamenta inoltre una totale incapacità a creare una relazione affettiva stabile e sessualmente soddisfacente. Di fatto, da molti anni, dopo il suo divorzio, non ha più avuto un partner.

In analisi è subito emersa una famiglia interna emozionalmente disastrata, composta da una madre depressa, una nonna paterna autoritaria e un padre assente e interessato più alla propria vita che a quella della famiglia, una famiglia fonte di ripetuti traumi nella sua infanzia. Sua madre, una intellettuale fredda e distaccata, vittima di continui abbandoni dal marito, uomo di successo, ricco e grande viaggiatore, impegnato in numerose altre relazioni. Una caratteristica della madre che avrà rilevanza nel transfert era il fatto di non parlare, in famiglia, la sua lingua madre, ma quella del paese che la ospitava, creando un tipo di comunicazione «falsa» o meglio non autenticamente rispondente alla sua cultura di origine. A questa falsità, ne corrispondeva un’altra: l’aver ricusato la sua origine ebraica battezzandosi. Il padre, impegnato con la sua vita all’estero e in frequenti viaggi, quando era presente in famiglia era autoritario e mal sopportava le proteste, le provocazioni, le petulanze e le dissonanze che lei bambina faceva con insistenza.

All’età di due anni nasce sua sorella che distrae da lei le già scarse e fredde attenzioni della madre. Questa nascita costituisce un trauma precoce estremamente importante nella sua vita infantile che ritornerà insistentemente nel transfert sotto forma di rabbia incontenibile, risentimento, scontentezza, spesso tristezza, insonnia, ansia intensa che non riesce a gestire, alla cui origine ritorna la paura di essere messa in disparte e abbandonata.

Un altro aspetto significativo del transfert è la sua intolleranza per ogni dissonanza o disaccordo o per il sentirsi contraddetta o non capita e non ascoltata oppure spiazzata da un commento o intervento che potesse sfuggire alla sua previsione e al suo controllo. In particolare, disaccordi, dissonanze e conflitti con me le fanno rivivere anch’essi il sentimento infantile di essere messa in disparte, di non essere ascoltata e di perdere ogni potere nella nostra relazione. Ciò riattivava, con l’automaticità di un riflesso, risentimento e rabbia ingestibili.

Mrs R. è una paziente particolarmente intrusiva, ipercritica, provocatoria, dispettosa, lamentosa e spesso litigiosa. Essa controlla ogni espressione della sua voce e il suo linguaggio oltre al contenuto di ciò che associa, ma controlla e commenta con ironia e sarcasmo anche il tono della mia voce, i miei movimenti, il mio linguaggio, il mio modo di vestire. È invidiosa di quanto possa capire di lei e svaluta con sarcasmo ogni cosa io le dica. Mi provoca spesso con qualche commento o interpretazione ex cathedra o mi umilia per intere sedute definendo le mie interpretazioni un concentrato di banalità, ripetitive, noiose e senza possibile effetto su di lei. I miei tentativi di farle capire che le banalità, la ripetitività e la noia che lei sente provenire da me possono essere il risultato di un suo tentativo di liberarsi di questi sgradevoli sentimenti ed emozioni che risalgono alle sue esperienze infantili più precoci vengono accolti con sarcasmo e scetticismo.

Per i primi due anni di analisi ho dovuto contenere le sue provocazioni con molta pazienza, attento a non entrare in quell’atmosfera di litigiosità cui lei tendeva a portarmi. Ho avuto bisogno di molti mesi per capire la natura infantile delle sue modalità così negative di identificare proiettivamente in me le sue parti peggiori per stimolare la mia pelle controtransferale. In particolare la noia e la ossessiva ripetitività che portava in seduta e di cui peraltro si lamentava come se venissero da me e non da lei. Per molti mesi non ha sognato dimostrando di non essere disposta ad impegnarsi emozionalmente con me né a mentalizzare ciò che poteva apprendere in seduta. Spesso mi ricordava, trionfante e provocatoria, che nella precedente analisi aveva costretto il suo analista a lavorare senza sogni e che non capiva il mio interesse per i suoi sogni, interesse che comunque lei non condivideva.

Alla fine di questo primo periodo di analisi, malgrado le sue rabbiose provocazioni e l’apparente indifferenza o rifiuto delle mie interpretazioni, Mrs R. ha cominciato a portare sogni e a meravigliarsi del lavoro che si poteva fare con essi. Questi erano all’inizio sogni fortemente persecutori: c’erano spesso dei terroristi che le rendevano impossibile il viaggio; oppure si identificava con i giovani del Parini che avevano allagato il liceo. Tuttavia realizzava nei sogni che queste presenze violente e persecutorie potevano mettere a disagio me e compromettere il nostro viaggio.

Grazie ai sogni, abbiamo così potuto entrare più profondamente nella sua realtà psichica e cominciare a capire da dove originava la sua violenta intolleranza per quella che lei sentiva come mia disattenzione o disinteresse o distanza, o mia scarsa e difettosa memorizzazione di ciò che lei mi diceva. Abbiamo potuto capire che tali intolleranze che alimentavano la sua rabbia, il suo risentimento e la sua persecutorietà, erano collegate a delle sue emozioni molto precoci. Molte di esse si riferivano all’epoca della nascita di sua sorella, quando nessuno in famiglia, e in particolare sua madre, faceva più attenzione a lei, ai suoi desideri. Lei si era sentita messa in disparte, con un sentimento doloroso di impotenza, totalmente dimenticata dall’intera famiglia. Maturava così dentro di lei una rabbia intensa che la rendeva dispettosa, provocatoria, capricciosa, lamentosa, insopportabile. La rabbia e la esplosività di ira erano anche un modo per farsi notare, per non sentirsi la povera bambina senza valore e dimenticata. Di fronte alla sue «cattiverie rabbiose», che si erano protratte anche nell’infanzia più avanzata, il padre diventava a sua volta intollerante e autoritario e la chiudeva in una buia cantina per intere giornate. Era il «buco nero» che la terrorizzava, che lei temeva e che rappresentava per lei un insostenibile scacco narcisistico, la frustrazione e la separazione violenta dai genitori, e la angosciosa solitudine nel buio.

Le emozioni che hanno caratterizzato la sua prima infanzia, erano quelle che caratterizzavano il suo transfert. Quest’ultimo era dominato spesso da un sentimento persecutorio relativo alla dissonanza o dissenso sentito come un conflitto che poteva creare un distacco fra noi in cui lei ritornava la piccola bambina lasciata sola e considerata la stupida della famiglia. Di fronte alla paura del dissenso, Mrs R. esprimeva intolleranza rispetto a qualsiasi cosa le dicessi e il suo sarcasmo era inconsciamente teso a non farmi parlare soprattutto a non offrirle quelle interpretazioni che lei sentiva distanti e dissonanti rispetto a quelle che si aspettava. A questo si aggiungeva un’invidia che la spingeva a criticarmi. Allora bloccava il mio intervento e assumeva un’espressione del corpo molto rigida, gesticolando con le mani come una maestra cattiva. In queste occasioni mi comunicava con arroganza che aveva bisogno di un «consulente individuale» piuttosto che di un analista rivelando la sua intolleranza alla asimmetria della nostra relazione e la gelosia per la mia disponibilità verso altri pazienti.

Contrariamente alla precedente analisi, Mrs R., dopo un periodo iniziale privo di sogni, ha cominciato a sognare con una certa frequenza così da poter portare evidenze relative ad una madre interna rigida, intollerante, abbandonata e depressa, «falsa» nella sua doppia identità linguistica e religiosa, incapace di contenerla, fobica rispetto alla stessa sensorialità e sensibilità di lei bambina. Le evidenze riguardavano anche un padre interno assente, esibizionista del proprio denaro, inadeguato a capire i desideri e i sentimenti di lei bambina, intollerante delle sue provocazioni e cattiverie, pronto a chiuderla per molte ore nel buco nero della buia cantina. La sua parte bambina piccola, sola, non contenuta, mai toccata affettuosamente e con calore nel corpo, lasciata sola all’arrivo della sorella, non aveva altra possibilità che sviluppare una rigidità motoria (evidente nel suo comportamento e postura anche in seduta) ed esprimere la sua rabbia e risentimento con urla oppure diventando petulante, provocatoria e cattiva per stimolare l’interesse dei genitori e ad un tempo per saggiare le loro capacità di tollerare le sue insistenti ed esasperanti provocazioni. Queste provocazioni potevano raggiungere livelli di rabbia tali da destabilizzare l’intera famiglia, una rabbia che non poteva controllare e che aumentava nel tempo senza che il suo pensiero completamente paralizzato fosse in grado di gestirla. Episodi esplosivi di rabbia intensa, crisi di ira urlata che duravano alcuni minuti per poi calmarsi all’improvviso caratterizzavano anche i suoi rapporti di lavoro. Queste crisi incontrollate avvenivano quando qualche suo dipendente non era attento a quanto lei diceva oppure non aveva memoria di ciò che lei aveva ordinato, oppure quanto era delusa rispetto alle sue aspettative o era contraddetta su questioni relative alla sua attività professionale.

*   *   *

Il giro di boa dell’analisi di Mrs R. è avvenuto in una seduta a conclusione di un lungo periodo in cui essa era particolarmente provocatoria con me e cercava la lite ad ogni momento con ossessiva puntigliosità. Mi umiliava banalizzando ogni mio tentativo di capire la natura di questo indisponente transfert negativo. Un giorno, Mrs R. è entrata nel mio studio con un viso testo e accigliato e un’espressione turbata, ad un tempo aggressiva e sofferente. Le rughe del suo viso erano particolarmente accentuate e tutto il suo corpo era rigido, come se fosse contenuto da un’armatura, pronta per un combattimento. Appena sdraiata, mi dice che l’analisi non le serve a nulla, che ha temuto per il suo intestino (il timore era relativo a un attacco di morbo di Kron) e che aveva anche molto male alle gengive. Poi, con saccenza avanza l’ipotesi che il suo male alle gengive sia di natura psicosomatica. Sono sorpreso da questa sua auto-diagnosi che ho sentito come un’ennesima provocazione, un volermi mettere un po’ alla prova, per farmi dire qualcosa di banale e quindi per criticarmi e svalutarmi. Ho risposto alla sua provocazione dicendole che non ero d’accordo e che per il male alle gengive potevano esserci altre cause, come quella di non essere troppo disposta a farsi curare (metafora del suo non farsi curare dal dentista come non si faceva curare da me). Mrs R. coglie soltanto la mia comunicazione reale e la considera un affronto o una dissonanza che automaticamente la fa sentire la bambina piccola di un tempo messa in disparte, contraddetta, smascherata e non ascoltata.

La sua reazione è stata improvvisa e rapida come un riflesso: si è irrigidita sul lettino inarcandosi, ha stretto i pugni come una piccola bambina neonata in preda ad una rabbia incontrollabile e, agitando le braccia distese in alto, ha iniziato ad aggredirmi verbalmente fino all’insulto. Il contenuto del suo attacco era molto violento: io non capivo nulla di lei, la sfruttavo economicamente senza darle alcunché, il denaro che mi dava non valeva ciò che io le davo, etc. Ma ciò che mi colpiva in maniera violenta era il tono, la frequenza e il volume altissimo della

sua voce. Mrs R. urlava con una intensità tale che la sua voce usciva ampiamente dalla porta del mio studio per invadere tutta la mia abitazione e raggiungeva persino il cortile della mia casa. L’intonazione era così acuta da penetrare nelle mie orecchie con la violenza di una identificazione proiettiva che le permetteva di evacuare la sua rabbia e di farmi sentire invaso dalla sua violenza paralizzante. Al culmina della sua crisi di ira, gesticolando furiosamente con le mani, mi urla: «Lei deve essere proprio fuori di testa!».

Mi sento in difficoltà ma non paralizzato nel mio pensiero. Approfitto di quel momento in cui mi è sembrato che l’esplosione di rabbia di Mrs R. avesse raggiunto il suo apice per interromperla e dirle con un tono di voce il più possibile calmo che le sue crisi di ira e il suo strillare mi faceva pensare ad una piccola bambina furiosa e con una rabbia così intensa che le impediva di pensare e che sembrava mandarla, appunto, «fuori di testa», come poteva accaderle quando da bambina non si sentiva ascoltata né capita, ma piuttosto contraddetta e messa in disparte da una madre disattenta per la nascita di sua sorella o quando nelle sue rabbiose provocazioni veniva allontanata, non presa in considerazione, lasciata sola o addirittura portata nel «buco nero» della cantina.

Al mio intervento, Mrs R. si rilascia improvvisamente nel lettino, distende le sue braccia accanto al suo corpo, apre i suoi pugni e dopo pochi secondi di silenzio mi chiede con un tono di voce diverso da prima, ora non polemico e quasi ironicamente affettuoso: «Ma lei mi sta forse rimproverando?». Le dico che non era proprio un rimprovero ma il tentativo di contenere la sua ansia e la sua rabbia, di porre un limite alla sua crisi fatta di emozioni senza controllo, di aiutarla a capirle proprio con l’immagine di lei bambina che ha rivissuto qui con me, a causa del mio averla contraddetta, la rabbia di un tempo che la faceva andare «fuori di testa».

La seduta si conclude qui. A partire da essa il transfert di Mrs R. cambia radicalmente al punto da convincermi che il mio intervento essenzialmente ricostruttivo sia stato per lei fonte di importanti insight e certamente «mutativo». Non sono naturalmente scomparse le sue rabbie nell’ambito del lavoro né con me nel transfert, ma ora è in grado di collegarle, come un metaforico ponte, alla sua parte bambina, intollerante di non essere ascoltata, di sentirsi senza potere, di non avere un’attenzione assoluta da me/genitore, di essere contraddetta e di rispondere con crisi di rabbia alle dissonanze che la facevano sentire una bambina stupida e messa in disparte. Mrs R. ora appare meno arrogante in seduta, con minore controllo e ridotte razionalizzazioni. Essa ora accetta, in occasione del lavoro sui suoi sogni, di identificarsi con la bambina sofferente di un tempo per le distrazioni, inadeguatezze, assenze, dimenticanze di sua madre, identificata con me nel transfert.

In un week-end sogna che è con sua madre in casa e si accorge che nel muro non ci sono più i quadri di famiglia. Ci sono solo i segni del vuoto lasciato dai quadri sottratti da un ladro. Raccontato il sogno, Mrs R. resta in un silenzio prolungato. Le offro allora l’immagine di una bambina piccola cui, nella separazione dalla madre/analista, un ladro ha sottratto gli affetti di presenze familiari lasciando nel muro della sua casa interna le impronte del vuoto. Mrs R., con voce commossa di bambina dice: «L’arrivo di mia sorella deve aver portato via tutti gli affetti di mia madre, tutte le sue attenzioni. Nel sogno sono con mia madre (forse lei?) e passo in rassegna i vuoti dolorosi restati dentro di me». Le dico che l’assenza materna e il suo vuoto affettivo che lei rivive nelle nostre separazioni ha lasciato la bambina priva di contenimento e di stimoli legati alla stessa sua sensorialità. Ciò ha anche condizionato le sue difficoltà a gestire con morbidezza il suo corpo e a vivere la sua stessa sessualità. Lei dice di essere d’accordo. Il giorno successivo, Mrs R. porta un sogno in cui io entro nella sua camera da letto, mi seggo ai piedi del letto e iniziamo a parlare di sensorialità. Poi io le faccio alcune domande e lei si accorge che il nostro incontro stava avvenendo «fuori orario». Raccontato il sogno, Mrs R. dice: «Mia madre era molto rigida negli orari. Alle sette di sera si doveva andare a letto senza trasgredire». Io le riprendo la seduta del giorno prima in cui avevamo parlato di una piccola bambina che non si era mai sentita toccata nel corpo né mai ben contenuta e stimolata nella sua sensorialità da una madre fredda, depressa e distante, rigida nei suoi orari. Ora, finalmente, nel sogno il suo analista diventa una madre tenera e affettuosa che «fuori orario» le permette di parlare della sua sensorialità e forse della sua stessa sessualità. Mrs R., dopo un breve silenzio, dice con voce calda ed una punta di ironia: «Ma nel sogno mi permetto solo di farla entrare nella mia camera da letto, non certo di mettersi a letto con me!».

Non sono mancate, nei mesi successivi, crisi di rabbia con urla incontrollate dirette contro una sua collaboratrice colpevole di deluderla, di non essere stata attenta, di non aver ricordato ciò che le aveva detto, di tradire la sua fiducia. Ho potuto allora collegarle queste crisi al suo inconscio precoce di bambina sofferente perché la madre era sentita come poco attenta a lei, tradiva la sua fiducia, la deludeva rispetto alle sue aspettative. Improvvisamente allora Mrs R. ricorda un frammento di sogno: era a casa sua in Italia con sua madre e sua sorella … una casa di sola sofferenza. Poi aggiunge: «ma anche mio padre mi ha tradita quando mi ha costretta a venire a vivere in Italia portandomi via dal paese dove sono nata!».

Oltre alle delusioni, mancanza di attenzione rispetto alle sue aspettative e un’assenza di contenimento da parte della madre, sono emerse nel corso dell’analisi evidenze relative ad una madre molto ansiosa e depressa per le incomprensioni ed assenze di suo marito che, in alcune circostanze, metteva nella bambina neonata le sue stesse ansie depressive e la sua infelicità come se nell’infanzia della paziente si fossero create le condizioni per una inversione del processo di identificazione proiettiva che dalla bambina alla madre, com’è naturale, si era invertita andando dalla madre alla bambina costringendo quest’ultima, per la inadeguatezza del suo pensiero a gestire le emozioni, a crearsi delle difese estreme come la rabbia, il risentimento, le crisi incontrollate di ira, le urla con cui la bambina rimandava alla madre, quelle ansie che lei bambina non poteva elaborare. Lo stesso avveniva con il padre che, alle sue provocazioni, rispondeva mettendola nel «buco nero». Questa ipotesi ha trovato una conferma in una seduta di quel periodo. Mrs R. ammette che le sue provocazioni infantili devono essere state molto intense, ma che comunque avrebbero avuto bisogno di essere contenute ed elaborate e non certo di essere agite da parte dei genitori (in particolare il padre) che la mettevano nel «buco nero». Ricorda allora una dolorosa seduta con il precedente analista in cui, a seguito delle sue continue provocazioni, questi l’aveva minacciata di interrompere l’analisi. Riconosce invece che con me non è stata minacciata di essere messa nel «buco nero» ma, al contrario, ha sentito che ho posto limiti alla sua rabbia per cui si è sentita contenuta e ha potuto così elaborarla senza minacce.

Nel corso della seduta, Mrs R. ricorda due brevi frammenti di sogni. In una c’era la zia B. che adottava una piccola bambina. In un altro c’erano invitati in casa sua, ma erano molti di più di quanti non fossero attesi. La zia B., dice Mrs R., era la zia che aveva fatto conoscere suo padre e sua madre. Le dico allora che la zia B. sembra essere un po’ la rappresentazione di questa coppia di genitori e nel sogno sembra rappresentare anche me nella veste di un buon genitore adottivo che si prende cura della sua parte bambina. Lei di rimando dice: «Ma anche la bambina era contenta di farsi adottare … ma proprio non capisco il secondo sogno». Le faccio allora l’ipotesi che quanto abbiamo scoperto in queste ultime sedute, e cioè i personaggi, le emozioni, gli affetti, le rabbie, le comprensioni che sono entrate nella nostra casa analitica, sono un po’ più di quanto lei stessa si

aspettasse all’inizio di questa sua esperienza analitica con me. Mrs R. è interessata a questa ipotesi. Dice di ammettere che, nonostante le sue difficoltà ad accettare il mio modo di fare analisi, nonostante le dissonanze con me a causa del mio averla contraddetta e le rabbie che lei ha vissuto in analisi, ha capito molte cose.

Arriviamo così alla fine di questa tranche che coincide con alcune fantasie della paziente di poter concludere in un domani non troppo lontano la sua analisi con me e con la frase che ho riportato all’inizio: «Sono contenta di aver potuto riscrivere la mia storia personale e di poterla raccontare a me stessa». Questa frase è stata pronunciata da Mrs R. in una recente seduta, a seguito di questo sogno: sono con Stefano, un mio amico, che mi chiede di accompagnarlo a portare dei documenti storici al catasto. Dopo una incertezza, decido di accompagnarlo. Ci domandiamo: «Sono forse i documenti catastali di una casa storica restaurata dall’analisi?».

 

 

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(1) L’obiezione che si può sollevare al lavoro di Anderson et al. (2004) è che la rimozione freudiana sarebbe inconscia, mentre cosciente è la repressione. Tuttavia, gli stessi autori suggeriscono che per Freud la rimozione poteva essere sia cosciente che inconscia e che la limitazione al processo inconscio fosse dovuta essenzialmente ad Anna Freud (Erdelyi, 2001).

(2) Questa osservazione può avere un’importanza centrale nella organizzazione dell’inconscio, in particolare nella sua logica simmetrica descritta da Matte-Blanco (1975) e da me recentemente discussa (Mancia, 2004b).

(3) A sottolineare il rapporto dell’emozione con la «cosa», senza la mediazione del linguaggio, mi piace citare qui l’affermazione di Mark Rothko (2006), definito «pittore d’azione», che così scrive: «Le mie distese di colore sono delle cose».

Lavoro pubblicato su Rivista di Psicoanalisi, 2006 - 3, pp. 629-655

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