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Report di Rossana Gentile e Laura Penna su “Cento anni di analisi infantile. Il setting per la diagnosi e la cura oggi” (Convegno Nazionale Bambini e Adolescenti, Torino 24-25 novembre 2017)

 

- Sarebbe meglio tornare sempre alla stessa ora - disse la volpe- Per esempio, se tu vieni sempre alle quattro del pomeriggio, alle tre io già comincerò ad essere felice. […] Ma se tu vieni quando ti pare, non saprò mai quando preparare il mio cuore… c'è bisogno di riti.

- Che cos'è un rito? - disse il Piccolo principe.

- È una cosa purtroppo dimenticata - rispose la volpe. È ciò che fa di un giorno, un giorno differente dagli altri, una certa ora, un'ora differente dalle altre ore.

(Il Piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry 1943)

 

L’esergo è tratto dalla citazione di una vignetta clinica di Gabriella Gentile. Ci è parso evocasse la ritualità e l’invarianza di alcuni elementi del setting, indispensabili nella loro costanza affinché all’interno di esso si possa dipanare la dinamica psicoanalitica fra i partecipanti.

Nel corso delle due giornate di Torino viene ribadita questa doppia natura del setting e quindi declinata nello specifico delle situazioni cliniche che vedono coinvolti bambini, adolescenti, genitori e analista, rendendo via via più complesso e ampliando il concetto stesso di setting.

Nel suo saluto iniziale, il Presidente della SPI Anna Maria Nicolò tratteggia il percorso che ha portato all’istituzione di un training integrato adulti e bambino/adolescente. Obiettivo di tale cambiamento era sottolineare come vi possa essere una comunanza di aree di interesse clinico e teorico e un processo di mutuo influenzamento tra l’analisi degli adulti e quella con bambini e adolescenti.

I lavori del venerdì pomeriggio sono aperti da una rapida introduzione di Mirella Galeotta e Massimo Vigna-Taglianti che lasciano ampio spazio alle relazioni di Bachisio Carau e Marina Lia.

Nel suo lavoro, Carau propone un modello di setting come contenitore unico che include il bambino e il genitore, o entrambi i genitori, modello che trova soprattutto applicazione nel lavoro con bambini piccoli. Il senso metaforico di questo tipo di setting, che tende a creare e ricreare i legami affettivi interrotti o mai ben consolidati o sperimentati tra il bambino e la coppia genitoriale, viene sviluppato nella vignetta clinica: un piccolo paziente collega con un filo di lana vari elementi della stanza d’analisi, fino a raggiungere con lo stesso filo i genitori nella sala d’attesa.

Il lavoro di Marina Lia ripercorre le differenti impostazioni teoriche a partire dalla Klein e da Anna Freud, fino ad arrivare ai giorni nostri, sottolineando come la tecnica nel lavoro con i bambini mantenga nel tempo e nelle differenti teorie, molteplici punti in comune con quanto accade oggi nei nostri studi, di cui offre uno spaccato attingendo alle proprie esperienze di baby observation e di terapia con bambini.

La discussione che segue i due lavori, promossa e moderata da Laura Colombi, propone soprattutto interrogativi da parte della platea circa la posizione dei genitori: quale transfert fanno i genitori sull’analista? Dove si pone la richiesta dei genitori? Da dove proviene la sofferenza? E ancora, la presenza stessa dei genitori, ma anche spesso della scuola e delle sue richieste, mette l’analista nelle condizioni di doversi confrontare con la realtà esterna e quindi, quando e come l’analista passa dall’atteggiamento analitico a quello pedagogico ed extra analitico?

Nei tre interventi del sabato mattina, il setting psicoanalitico viene osservato attraverso le esperienze cliniche dei relatori che hanno scelto tre punti di vista intensi e specifici.

Paola Vizziello condivide la propria esperienza di lavoro in ospedale con bambini piccoli affetti da patologie gravi (gravi disturbi del neurosviluppo, gravi depressioni, patologie ad espressione somatica), sottolineando come l’analista possa essere immerso nel dolore di queste situazioni, un dolore che tocca “carenze originarie”, (Lupinacci et al, 2015). Anche per questo è richiesta all’analista “una costante manipolazione della teoria e della tecnica… un rimaneggiamento mentale continuo tra quanto osserviamo, quanto controtransferlamente sentiamo e quanto è possibile agire, o non agire, o semplicemente stare, attivando il silenzio, l’astensione del trovare risposte saturanti, di fronte a quesiti che a volte superano ogni umana possibilità di risposta”.

Daniela Lucarelli condivide un bel contributo tratto dall’analisi di un bambino in latenza, in cui evidenzia come negli anni sia cambiata, almeno in parte, la considerazione circa l’uso che si può fare delle nuove tecnologie da parte degli analisti. In passato se ne sottolineava soprattutto la dimensione negativa e potenzialmente patogena, l’introduzione di un eccesso di realtà all’interno delle sedute a scapito dell’accesso al fantasmatico o ancora l’induzione ad una certa passività, soprattutto nei pazienti più piccoli. Lucarelli si interroga sulla possibilità di utilizzare le immagini dello smartphone portato dai ragazzini in seduta come “un tramite, un’area transizionale per rimanere o entrare in contatto con le immagini del loro mondo interno”.

Infine Gianfranco Giordo, riagganciandosi agli interventi che lo hanno preceduto, esorta ad osservare in che modo il paziente utilizza il setting che si trasforma. In particolare, egli sottolinea come spesso, nella prima adolescenza, i ragazzi e le ragazze facciano un uso massiccio sia del setting che dell’analista proprio per la specificità dell’età: non più bambini e quindi legati al gioco come mezzo di espressione, non ancora adulti e quindi avvezzi alla parola come strumento privilegiato di comunicazione.

La discussione successiva è aperta da un’immagine che racchiude sinteticamente le sensazioni lasciate dai lavori appena ascoltati, quella del “set di setting” evocata da Amedeo Falci. Le variegate situazioni cliniche e anche i vari ambiti istituzionali o privati in cui viene formulata la richiesta d’aiuto, impongono all’analista un’apertura verso una molteplicità di setting possibili. Tali stimoli, come suggerisce Diana Norsa, sono alla base del lavoro di ricerca che gli analisti dovrebbero promuovere, sostenuti proprio dalle esperienze cliniche con i pazienti più gravi.

Parole come elasticità, plasticità, decostruzione del setting sono accostate, nella discussione, all’esigenza di dare una definizione epistemologica di setting al fine di avere un punto più certo di partenza verso le sue trasformazioni e nel lavoro di ricerca che da esso può prendere le mosse.

Patrizio Campanile, moderatore del dibattito, afferma che il setting ha una componente seduttiva, un potere attrattore nei confronti del bambino che “da qualche parte sa che l’analista può mettere a disposizione una funzione rappresentativa”. Questo pensiero viene ripreso da Maria Annalisa Balbo quando afferma che è il setting che ci consente di incontrare il bambino e ancora, ci sembra in continuità con quanto afferma Irene Ruggiero che sottolinea quanto sia necessario “saper raggiungere il paziente nel suo idioma specifico”. Lì dove non possono esserci le parole, come nei casi narrati dalla Vizziello, ma anche come viene suggerito dalle esperienze di Giordo e Lucarelli, diventa importante poter utilizzare “un silenzio attivo, concavo, pieno di sensibilità e ricettivo”.

Tornano ancora altri interrogativi sulla posizione dei genitori all’interno del setting del lavoro con i bambini: sedute congiunte? Sedute dedicate, lavoro gruppale? E la dimensione coniugale, può essere tralasciata per concentrarsi solo sulla genitorialità coinvolta con le problematiche del bambino?

La discussione prosegue nel corso della tavola rotonda con Raffaella Tancredi, Franco D’Alberton e Cristina Saottini. Luisa Masina, che promuove la discussione, estrapola dagli interventi dei colleghi alcune riflessioni sull’invarianza del setting interno e la variabilità del setting esterno, sul ritmo come parte integrante del setting stesso e il valore del limite che il setting paradossalmente incarna.

Interviene nella discussione Anna Ferruta, specificando che la recente variazione del modello Eitingon è stata pensata proprio per permettere ai candidati di incontrare adolescenti e pazienti gravi e aprire la formazione ai trattamenti di questi nell’ambito di “un setting variato in cui è importante che permangano delle invarianti al fine di garantire la sicurezza e la libertà di cui il lavoro analitico necessita”.

Anna Maria Nicolò ricollegandosi al proprio intervento della giornata precedente, esorta ad affinare la capacità di osservazione diagnostica, al fine di individuare il setting in cui risulta più efficace lavorare. Il setting in tutte le sue definizioni di limite, cornice, teatro, pelle, abbraccio della madre è il terzo fra l’analista e il paziente e rappresenta di per sé uno strumento terapeutico nel lavoro con i pazienti gravi e i livelli primitivi della mente, dove l’interpretazione può, per dirla con Bion, diventare “inutile”.

Il difficile compito di tirare le fila delle due giornate torinesi è stato affidato a Maria Adelaide Lupinacci e a Irene Ruggiero che riconoscono il setting come un elemento identitario del processo analitico, strettamente connesso alla tecnica e contemporaneamente caratterizzato da elementi di fermezza ed elasticità.

Declinato su due versanti, quello interno e quello esterno, rimane comunque saldamente ancorato all’assetto mentale dell’analista, ma non risulta pre-determinato, si adatta in qualche modo al linguaggio del singolo paziente e dunque viene co-costruito dalla coppia al lavoro.

L’immagine del set di settings viene ripresa perché ci fa comprendere come la psicoanalisi si sia trasformata da cura unipersonale intrapsichica a cura delle relazioni. Da questo punto di vista assume valore la soggettività dell’analista e il setting può essere considerato un rimando implicito al concetto di legame e luogo di costruzione e decontrazione di legami.

La densità degli interventi e delle discussioni non ha saturato lo spazio del confronto. Più che risposte, i partecipanti ne hanno ricavato suggestioni, ulteriori interrogativi e qualche monito: quanto si possono potenziare le trasformazioni del setting? Qual è il limite oltre il quale c’è il rischio di agiti?

Lupinacci M A., Biondo D., Accetti L., Galeota M., Lucattini A (2015). Il dolore dell’analista. Dolore psichico e metodo psicoanalitico. Astrolabio, Roma.

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