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Cancrini T. - La psicoanalisi a Roma: passione, vicissitudini, entusiasmo e persone straordinarie (2018)

Centro di Psicoanalisi Romano, 14 aprile 2018 - "Psicoanalisi italiana. Da Nicola Perrotti e Emilio Servadio ai giorni nostri"

 

Come già ricordavamo nel precedente incontro molte sono le vicissitudini che hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo della nostra Società fin da quando fu fondata a Teramo il 7 giugno del 1925 da Marco Levi-Bianchini e poi a Roma nel 1932, anno in cui Weiss fonda anche la Rivista di psicoanalisi. Società che è poi passata non senza problemi attraverso gli anni del fascismo, fino a riprendere vita dopo il 1945 con il primo Congresso Nazionale a Roma nel 1946 con Nicola Perrotti presidente e con Emilio Servadio e Cesare Musatti al suo fianco.

Ripercorrere e comprendere la nostra storia è fondamentale per capire meglio chi siamo. Capire quali sono stati i passaggi del nostro sviluppo, quali le difficoltà ci permette di comprendere il senso delle nostre scelte e della nostra attuale identità.

Voglio premettere che il mio racconto si basa molto sui miei ricordi e sulle mie esperienze e non ha una pretesa di completezza. Per cui mi scuso preventivamente su omissioni e incompletezze, che sicuramente saranno molte. Altri potranno integrare e completare. E già lo faranno oggi Mimmo Chianese e nel pomeriggio gli altri relatori parlando di personaggi molto importanti per la psicoanalisi italiana. D’altra parte, come già ha sottolineato Borgogno nel suo intervento di ottobre, mi sembra importante per rendere dal vivo la nostra storia, mettervi in contatto con delle testimonianze dirette, vissute in prima persona, con dei ricordi personali, che necessariamente sono incompleti e parziali rispetto alla complessità della realtà, pur avendo però il pregio dell’autenticità,

Ero ancora una giovane aspirante psicoanalista e incontrai, per il terzo colloquio di ammissione alla SPI, Nicola Perrotti. Ricordo con grande simpatia la sua cordialità un po’ paterna e piacevolmente autoritaria con cui mi dava il suo benvenuto nella Società (allora si era un po’ meno formali e non c’erano le Commissioni delle prime selezioni…lui, senza riunioni, aveva già deciso la mia ammissione e me lo comunicò appena finito il colloquio). Era contento che in una mia recensione a Nuove vie della psicoanalisi di Fornari su La Cultura di Guido Calogero fossi stata un po’ critica (serpeggiava, insieme alla stima e alla collaborazione, una certa bonaria rivalità con Milano) e, sapendo che conoscevo il tedesco, mi raccomandò di seguire Psiche la rivista della società tedesca. Ricordo ancora con grande emozione il suo sorriso un po’ ironico e il suo sguardo intelligente e acuto con cui mi scrutava per cogliere se c’era in me quell’entusiasmo per la psicoanalisi che era per lui così essenziale e che era il requisito indispensabile per entrare a far parte della Società. Mi diede poi il permesso, ero appena ammessa e non ancora allieva, di seguire il Congresso IPA che si tenne a Roma nel 1969. Questo a testimoniare quanto fosse per lui importante incoraggiare e dar fiducia ai giovani e quanto considerasse essenziale il contatto con il mondo internazionale.

Avevo iniziato da poco l’analisi con Bartoleschi, ma non seguivo ancora i seminari, quando seppi della sua morte che mi colpì molto e mi impedì di partecipare alle sue lezioni. Appresi così solo in seguito, quando come allieva entrai nell’Istituto Romano, quanti dei temi da lui trattati e approfonditi fossero nell’aria che respirai e che mi trovai ad affrontare.

La passione e l’entusiasmo erano caratteristiche fondamentali della sua personalità che l’hanno accompagnato per tutta la vita anche nei momenti più difficili. Queste le parole di Lyda Zaccaria Gairinger che lo ricorda, nella Commemorazione all’Università di Roma, come fondatore dell’Istituto di psicoanalisi di Roma nel 1952, che diresse fino alla sua morte nel 1970. “Certamente egli era un uomo innamorato della vita e forse perciò sapeva ritrovare, nei suoi allievi prima, e nei suoi collaboratori poi, tutto quanto in essi vi era di migliore; sapeva fare emergere i valori delle persone, sapeva indirizzare questi valori all’interesse scientifico, sapeva sollecitarli al servizio di chi soffre.” (Psiche 1970, pp.29-30). Un ricordo altrettanto appassionato lo fa Massimo Tomassini, allora allievo, che sottolinea quanto calore e umanità ci fosse nel suo rapporto con i giovani. Nella stessa Commemorazione lo ricorda Cesare Musatti: “Quando nel 1938 la Società Psicoanalitica Italiana …fu sciolta…noi continuammo a rimanere legati al movimento internazionale. Mi ricordo come Perrotti ed io mandassimo in Svizzera la nostra quota di associazione alla società psicoanalitica internazionale…Weiss e Servadio emigrarono dall’Italia: Weiss andò in America, Servadio andò in India e così restammo noi due ad esercitare la psicoanalisi così come allora era possibile, cioè in forma clandestina.” (Psiche 1970, pp.15-16)

Nicola Perrotti si è interessato a fondo di psicologia individuale, del lavoro clinico e del rapporto con il paziente ma anche di psicologia sociale. Accanto al suo grande impegno come terapeuta, sia come medico che come psicoanalista, c’è anche un grande impegno politico. Da sempre nel partito socialista (tra l’altro, sindaco di Penne sua città natale), intensifica la sua attività durante il periodo della Resistenza e dopo; partecipa alla riorganizzazione del partito socialista e assume importati incarichi nella vita politica, dalla Camera dei deputati, all’ufficio di Alto Commissariato della Sanità. Scrive nell’Introduzione ai suoi scritti Paolo Perrotti, che certamente ha ereditato dal padre l’interesse per il sociale: “Nel pensiero di Nicola Perrotti la liberazione dell’uomo dalle sue schiavitù sociali ed economiche è il perfetto equivalente della liberazione dell’animo dalle sue schiavitù psichiche” (p.12)

Conoscitore profondo della psicoanalisi internazionale, scrive articoli e recensioni su temi fondamentali, dall’aggressività alla depersonalizzazione. Nel 1950 al 2° Congresso della SPI presenta un interessante saggio sull’aggressività, tema da lui molto approfondito in cui sostiene con decisione la sua posizione contraria all’istinto di morte, pur considerando l’aggressività un problema fondamentale da affrontare. Avendo una profonda fiducia nell’Eros, scrive: “…è soltanto l’Eros che può proteggere i nostri simili dalla nostra aggressione”.  

Nel 1948 fonda la rivista Psiche che ha proprio il compito di legare i diversi interessi di Nicola Perrotti, la psicoanalisi e la psicologia sociale e il suo amore per l’arte e la cultura. Nella premessa al primo numero di Psiche si sottolinea il cambiamento introdotto dalla psicoanalisi sia nel pensiero individuale sia nel mondo sociale.[1]

Nel primo numero compare un articolo di Nicola Perrotti sui Problemi psicologici del popolo italiano. Nel 1949 Psicologia individuale e psicologia collettiva, nel 1950 Suggestione e psicoanalisi, nel 1951 La teoria generale dell’aggressività umana e ancora poi diversi articoli.

Ma già prima, nella Rivista di psicoanalisi, che, come già ho ricordato è stata fondata da Weiss nel 1932, compaiono i suoi primi importanti contributi.

Nel primo numero del 1932 compare il suo importante saggio La suggestione, e un intervento con Weiss, Incomprensioni: (Flora – De Ruggiero) dove viene difesa la psicoanalisi dalle critiche che vengono dal mondo della cultura e della filosofia. Perrotti scrive, e possiamo notare l’enfasi della sua posizione:

Senza contestare a nessuno il diritto di criticare la psicoanalisi, rileviamo che criticare significa anzitutto comprendere, ed è questa comprensione, in materia di psicoanalisi, che contestiamo al De Ruggiero: La sua non è una critica, è uno sfogo pre-critico, una bizza al di qua di ogni valutazione.

Per quel che concerne gli appunti di ordine generale mossi alla psicoanalisi dal De Ruggiero, rileviamo che si tratta delle solite, banali critiche da tempo note e confutate. Però, anche a costo di annoiare i lettori intelligenti, dobbiamo ripetere che la psicoanalisi è una psicologia che afferma l’esistenza di un inconscio psichico, di un dinamismo dei fatti psichici e del loro assoluto determinismo; e che considera la vita psichica orientata dall’affettività. Chi vuol criticare, perciò, la psicoanalisi deve contestare questi concetti che costituiscono il nucleo centrale della dottrina, e non fare delle vuote divagazioni. Allora lo seguiremo con interesse. il De Ruggiero invece, che questo non ha compreso, si fabbrica una dottrina psicoanalitica a modo suo, deformata, cioè, dalla sua incomprensione e dalla sua mentalità, e poi si affanna a combattere questo suo fantasma ed a farci perfino dell’ironia. Definisce, infine, la psicoanalisi come un “museo di orrori”. Invece è il suo articolo che è un “museo di errori” (pp. 64-65).[2]

Nei numeri successivi continuano articoli e recensioni che mostrano la grande attenzione a quanto veniva pubblicato all’estero.

Nel 1934 pubblica un interessante saggio sulla rigofobia, lodato da Freud, tradotto in tedesco e pubblicato nella Internationale Zeitschrift, e che gli valse l’ammissione come socio ordinario alla Società Psicoanalitica Internazionale. In questo saggio Nicola Perrrotti tocca temi importanti come l’ipocondria, il narcisismo, la paranoia spingendo l’analisi al di là della nevrosi e delle difese, mostrando un livello di comprensione molto profondo rispetto alle esperienze più primitive. Le persone che soffrono di “rigofobia da rigos (freddo) e fobeo (temo)” sono “molto preoccupate per la loro salute, a tendenza ipocondriaca” (p.70). E’ la paura di ammalarsi che le fa rifuggire dai luoghi freddi e suscita ansie e preoccupazioni. C’è anche un legame con preoccupazioni di carattere orale. Ci parla così della paura di sentirsi debole per mancanza di cibo che affliggeva una “maestra elementare, affetta da molteplici ansie e che andava in giro tutta infagottata per timore di prendere freddo, ciò però la faceva sudare e questo fatto raddoppiava le sue preoccupazioni” (p.71) Questo tipo di ansie sono anche legate a tratti narcisistici. Nicola Perrotti affronta con grande attenzione e profondità questa situazione perché, citando Ferenczi, “vuole cogliere il senso profondo delle nevrosi” (p.72).

Non va poi dimenticato il suo interesse per il mondo dell’arte e della cultura e si occupa di temi importanti come la libertà, la responsabilità.

Nella lezione introduttiva ai seminari dell’Istituto nel 1969 scrive:

Con Freud e soprattutto con M. Klein le acque profonde del nostro inconscio istintuale e animale sono state sufficientemente mosse e sondate. Questa opera di approfondimento dovrà continuare, ma non è forse giunto il momento di integrare nella dottrina psicoanalitica anche categorie dello spirito anch’esse primordiali, come il sentimento della libertà e la tendenza alla creatività?

E ancora in un saggio “Osservazioni sulla nozione di responsabilità” pubblicato su Psiche nel ‘64 Perrotti aveva scritto:

Il sentimento di responsabilità ci appare indissolubilmente legato al sentimento di colpa, che tanta parte ha nella costituzione della personalità, ma soprattutto al sentimento di libertà. (...) Un sentimento di colpa che precisamente deriva dalla consapevolezza che noi eravamo liberi di comportarci in modo diverso da come effettivamente ci siamo comportati.

E’ un articolo molto interessante, che affronta temi come la colpa, la responsabilità, la libertà, temi molto cari a Nicola Perrotti e molto importanti che rappresenteranno nel nostro Centro interessi e suggestioni sviluppati nel tempo da molti di noi. Del tema della libertà ne parlerò ricordando Roberto Tagliacozzo; del tema della colpa molti di noi se ne sono occupati. Ricordo un gruppo di studio con Giorgio Corrente, Adelaide Lupinacci, Antonio Gambara, Adele Scarinci, relazioni mie e di Giorgio Corrente portate anche a Buenos Aires e lavori portati a Rio al Congresso IPA del 2005 con Lucilla Ruberti, Giorgio Corrente, Mario Giampà. e un capitolo del mio libro Un tempo per il dolore sulla colpa.

Ciò è molto bello perché fa vedere come nel Centro c’erano temi, interessi, suggestioni che vagavano nell’aria che respiravamo. Fra questi temi erano certamente importanti quelli della responsabilità e della libertà. Il nostro essere analisti sentito anche come un compito morale ed etico credo sia stata una caratteristica di come noi del nostro Centro abbiamo sempre visto la psicoanalisi.

Come ho già detto per Nicola Perrotti era fortemente sentita la necessità di contatti con l’estero. La psicoanalisi in Italia era alle sue prime esperienze e il contatto con il mondo psicoanalitico internazionale era sentito come fondamentale.

Alcuni nostri, allora giovani analisti, furono molto incoraggiati ad andare all’estero; così Adda Corti e Pierandrea Lussana si trasferirono per molti anni a Londra. La Corti fece la sua analisi con Meltzer e Lussana con la Bick. Tornando in Italia portarono la ricchezza di questa loro esperienza e facilitarono molto i contatti con i maggiori rappresentanti della psicoanalisi internazionale. In quegli anni furono infatti fondamentali gli incontri con i più validi rappresentanti del mondo anglosassone.

Rosenfeld. Meltzer, Segal, Betty Joseph, Bion furono più volte invitati in Italia. Autori che avevo letto con grande entusiasmo e che non mi parve vero di poter conoscere di persona.

Io ricordo in particolare Rosenfeld, che ha avuto una forte influenza soprattutto sul piano clinico. Ero ancora allieva del 1° anno e mi arrivò una telefonata dalla Segreteria dell’altro Centro che nel weekend ci sarebbe stato un seminario di Rosenfeld. Aderii con entusiasmo e questo mi aprì a una delle esperienze più significative della mia formazione. Venne molte volte in Italia, prima a Lungotevere delle Navi, nel Centro di Servadio, poi nel nostro Centro in modo regolare e continuo; e si è creato così uno scambio molto intenso.

Attraverso Adda Corti e Pierandrea Lussana e, attraverso gli incontri con Rosenfeld e gli altri esponenti della psicoanalisi inglese, entrava con forza e portando con sé un entusiasmo eccezionale il pensiero di Melanie Klein in una dimensione clinica molto raffinata e molto aperta. Si scopriva anche durante le supervisioni con Rosenfeld che il paziente aveva sempre ragione, che bisognava capirlo fino in fondo arrivando ai livelli più primitivi dell’esperienza affettiva e mentale. Che nel transfert e nel controtransfert si poteva raggiungere una comunicazione profonda che permetteva di cogliere le esperienze legate al rapporto primario e che questo tipo di approfondimento permetteva di avvicinare anche pazienti molto gravi, borderline, psicotici.

Rosenfeld ci mostrava come si possono affrontare i livelli più arcaici del narcisismo e dell’invidia e come questo permetta poi di accedere all’io infantile e bisognoso del paziente. In un bel lavoro su La reazione terapeutica negativa, Rosenfeld, dopo aver attentamente esaminato i contributi di Rivière,di Abraham, di Melanie Klein che vedeva nell’invidia la causa della reazione terapeutica negativa, sottolinea il ruolo del narcisismo nel rendere difficile la possibilità di utilizzare un buon trattamento, ma soprattutto si pone il problema di come affrontare la reazione terapeutica negativa considerandola quindi un problema da risolvere, ma non più un ostacolo definitivo al trattamento.[3]

Oltre Rosenfeld, ricordo con grande interesse i seminari di Meltzer, della Segal, di Betty Josef, di Bion. Il pensiero di Bion è entrato a un certo punto nel nostro Centro in modo deciso, portato da Corrao e anche da Sergio Bordi, grande studioso e conoscitore della psicoanalisi internazionale. Anche la Segal, con cui però il rapporto è stato meno continuativo, ha lasciato comunque delle suggestioni molto forti.

Con Meltzer portai come allieva un caso clinico che supervisionavo con Roberto Tagliacozzo e fu per me un’esperienza molto interessante. Ricordo in particolare sia in Meltzer che in Rosenfeld l’attenzione a tutti i dettagli delle sedute cercando di cogliere i diversi livelli di comunicazione anche quelli non verbali e più primitivi. Ricordo con piacere che Tagliacozzo fu molto contento di come andò la supervisione e commentò con me che avevamo superato l’esame. E questo lo dico non solo per la soddisfazione personale che ne provai, ma anche perché sta a dimostrare come il nostro lavoro clinico fosse adeguato a quelli che erano allora i livelli più alti della psicoanalisi internazionale. In questo la spinta data da Nicola Perrotti aveva avuto i suoi risultati. Non solo quelli che tornavano da Londra, come la Corti e Lussana, ma tutti gli analisti romani del nostro Centro avevano allora nella loro formazione una conoscenza e un’esperienza clinica molto buona ed approfondita dei modelli della Klein, di Winnicott, di Bion ecc.

Nei primi anni '70 ritornava da Londra Adda Corti e qualche anno dopo Pierandrea Lussana, entrambi molto impegnati anche nella psicoanalisi dei bambini. Con loro si ravvivò ancor più l'interesse per la psicoanalisi infantile, in particolare nel Centro Romano di cui allora facevo parte prima come allieva poi come socia.

Ricordo il ritorno della Corti da Londra. Certamente il ritorno della Corti è stato un momento importantissimo per la psicoanalisi italiana e per il nostro Centro Romano in particolare, perché ha portato di persona, come già ricordavo prima, questa grande suggestione del modo di lavorare dei kleiniani. Molti degli analisti di allora, i più impegnati, a partire, dalla Gairinger, che pure era più anziana della Corti, andavano a fare supervisioni con lei e si confrontavano col suo modo di lavorare. Anche noi allievi la seguivamo molto e lavorare con lei è stata per tutti noi un’esperienza fondamentale. Voglio riportare qui una testimonianza di una collega a me molto cara, Adele Scarinci: “L’effetto ‘Adda Corti’ fu per me dirompente. L’ho avvertito subito dopo il Congresso Internazionale del 1969…All’inizio sentii una gioia nuova nel frequentare non solo i seminari della Corti ma anche le altre riunioni scientifiche dell’Istituto. Avevo l’impressione di respirare un’aria nuova…Il nuovo ora si palpava: docenti dell’Istituto ci traducevano all’impronta testi di Bion, proponevano gruppi di studio innovativi (ad esempio “la formazione del simbolo”, “la comunicazione non verbale”), cominciavano le prime esperienze di analisi di gruppo...Ricordo la semplicità e la naturalezza con cui Adda Corti, nella lunga supervisione che feci con lei e che cambiò il mio modo di lavorare, addolciva e stemperava il modello kleiniano di ogni rigidità…”

Anche nella mia formazione sono state essenziali le supervisioni con Adda Corti di cui ricordo la disponibilità e l’entusiasmo. Non dimenticherò mai i giorni e le serate a Lungotevere Ripa dove era possibile con l'aiuto e l'acume di Adda Corti penetrare nei recessi più profondi del cuore umano, della sofferenza e dell'angoscia. Sicuramente ci saranno stati giorni di pioggia e di freddo, ma quello che io ricordo di Lungotevere Ripa è il sole, la radiosità di quel bellissimo terrazzo sul Tevere, pieno di piante e di fiori, in quello che è certamente uno dei punti più belli di Roma. E credo che questo corrisponda allo stato d'animo di enorme ricchezza e creatività e fantasia legato a quegli straordinari incontri con Adda in cui sono consapevole di avere capito e sentito quali potenzialità di comprensione, di vicinanza, di contatto mi aprisse il rapporto psicoanalitico.

I miei incontri di supervisione non avevano mai una fine precisa; se Adda poteva, mi regalava più tempo; era generosa, appassionata e il rapporto con lei mi dava quel calore e quell'entusiasmo che cercavo poi piano piano di trasferire nel rapporto con il paziente. Contatto, vicinanza nel transfert, adesione attraverso la fantasia ai livelli più profondi della mente e dell'affettività: questo era importante. Quei livelli primitivi a cui si arriva più facilmente se si sono sperimentati e acquisiti nell'analisi dei bambini. Anche nel training degli adulti, diceva Adda, dovrebbe esserci un'analisi di un bambino e certamente la baby-observation. E è proprio partendo da queste sue esortazioni, nelle sue supervisioni e nei suoi seminari, che molti di noi hanno deciso di occuparsi di bambini. Nel 1976, in una comunicazione ai soci, Adda Corti, che allora era Segretario Scientifico del Centro di Psicoanalisi di Roma, scriveva così: “I giovani analisti facciano almeno un’esperienza di analisi infantile in supervisione, di gruppi di osservazione di bambini, di partecipazione a seminari e gruppi di discussione di casi etc., perché la psicoanalisi non può ignorare gli arricchimenti che vengono dal lavoro con i bambini".

Ricordo infatti che proprio seguendo lei e questo suo suggerimento presi durante il mio training un bambino autistico in analisi e lo seguii per un paio d’anni con la supervisione di Lussana; fu per me un’esperienza significativa e straordinaria. Anche Lussana tornava da Londra e ha portato molti apporti teorici sul pensiero kleiniano e bioniano e sull’osservazione del bambino. Lussana fece poi un seminario sulla baby observation e lo ricordo come veramente interessante e stimolante. All'inizio eravamo in tre Bonfiglio, la Lupinacci e io a seguirlo, e tutti e tre facevamo un'osservazione; ma poi l'anno successivo si unirono a noi molti altri colleghi. Credo che la Corti avesse perfettamente ragione nel sottolineare quanto queste esperienze con i bambini - sia la baby observation che l'analisi di un bambino - abbiano un'importanza straordinaria nel training degli adulti. Penso che fare esperienza con i bambini dia una sensibilità e un'attenzione particolare ai livelli più precoci e primitivi.

La passione per l’analisi infantile e quindi anche l’esigenza che ci fosse una formazione anche all’interno della SPI è stata sempre sentita anche dai primi pionieri del nostro Centro; in particolare Bartoleschi ha sempre molto insistito in questa direzione. Quando poi sono tornati la Corti e Lussana dall’Inghilterra c’è stato uno stimolo maggiore in questo senso. Bartoleschi era appassionatissimo di analisi infantile. Come neuropsichiatra aveva lavorato alla Neuro infantile con Giovanni Bollea. Nel 1950 era entrato in contatto con numerosi psicoanalisti francesi, tra cui Diaktine e Lebovici e aveva cominciato a pensare concretamente alla possibilità di fare della psicoanalisi infantile. E' del 1955 un suo articolo in collaborazione con Adda Corti (Problemi di psicoanalisi infantile "Infanzia anormale") in cui si differenzia la psicoanalisi dalla psicoterapia sulla base dell'uso dell'analisi del transfert. Nel 1951 Bartoleschi ha preso il primo caso infantile in trattamento psicoanalitico (il primo in Italia?): era un bambino di cinque anni adottato, con gravi disturbi del comportamento. L'analisi è andata avanti per sette anni con esito positivo. E Bartoleschi andava a Parigi una volta al mese perché seguiva il caso in supervisione con Lebovici.

Bartoleschi ha sempre lottato perchè ci fosse nella SPI un training di psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti ed era infastidito dai tanti rinvii e dalle tante difficoltà. Ma mai era venuto meno il suo impegno scientifico in questo campo. Ricordo personalmente seminari appassionanti sui bambini che avevano trovato un grande coinvolgimento e un grande riscontro tra i colleghi. Anche con gli allievi soprattutto nell'ultimo periodo preferiva sempre condurre seminari sulla psicoanalisi infantile. Sia la Corti che Bartoleschi furono poi molto disponibili con noi giovani associati per seminari su casi clinici di bambini. Ricordo con enorme piacere di avere a più riprese discusso con loro il caso del piccolo Emanuele di cui parlo a lungo nel mio libro Un tempo per il dolore.

L’istituzione di un training bambini-adolescenti è stata complicata, oltre che da opposizioni interne, anche dal fatto che nel frattempo c’erano una serie di attività sull’infanzia che si svolgevano fuori; sono nate molte scuole e spesso i nostri analisti hanno collaborato con queste scuole fuori dalla SPI. E' negli ultimi anni che sempre di più si è sentita l’esigenza che questa formazione, proprio per quanto riguarda la psicoanalisi dei bambini, fosse riportata all’interno della SPI. E così finalmente alla fine degli anni ’90 si è arrivati all’istituzione del Corso di perfezionamento b-a, a cui possono accedere sia gli allievi che i soci.

Nell’altro Centro anche venivano stimoli per l’analisi infantile, da Giannotti, Giannakulas e poi da Eugenio e Renata Gaddini che in particolare hanno portato Winnicott e il suo pensiero in Italia.

Già l’altro Centro. Una breve parentesi. Per una mia personale situazione – una vecchia amicizia di scuola con Simona Argentieri – ho sempre avuto contatti con l’altro Centro. Lì ho trovato amicizie e interessi comuni: Ennio Cargnelutti, Rosario Merendino, Jackelin Amati Mehler. E poi ricordo incontri e scambi con Eugenio e Renata Gaddini, con Bellanova, con Giannotti e una collaborazione intensa e una affettuosa amicizia con Arnaldo Novelletto.

Negli anni in cui sono stata Segretario Scientifico ricordo la venuta di Anna Alvarez, che pure ha portato una ventata molto positiva, costruttiva e interessante sul piano teorico e clinico per quanto riguarda l’analisi infantile.

Anna Alvarez è stata infatti ospite del nostro Centro il 27-28 gennaio 1995 con un lavoro sul tema dell'identificazione proiettiva nei pazienti borderline e con discussione di casi clinici di cui uno presentato da Carla Busato. L' invito ad Anna Alvarez è stato poi ripetuto l'anno seguente e anche di recente nel Convegno su Melanie Klein dall’Esecutivo di Carla Busato e Angelo Macchia.

Nel frammento molti di noi si sono occupati a fondo della psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti. Luciana Bon de Matte, Vincenzo Bonaminio, Anna Nicolò, Carla Busato, Barbara Piovano, Paola Marion, Adelaide Lupinacci e io stessa. Fra i più giovani Paolo Fabozzi, Diomira Petrelli, Emanuela Quagliata, Gabriella De Intinis, Giovanna Mazzoncini, Marina Parisi, Daniele Biondo, Mirella Galeota ecc. ecc. Chiedo perdono di non poterli ricordare tutti, ma credo sia un buon segno…

Negli anni di fine ’90, quando ero segretario scientifico del Centro furono fatti diversi incontri sui temi dell'infantile. Eravamo un bel gruppo, c’era anche Anna Maria Galdo, di cui mi piace ricordare la presenza sempre attiva e costruttiva, e sono stati portati molti bei lavori: da Anna Baruzzi una rilettura del caso del piccolo Hans, da Dina Vallino su Infant Observation come strumento di conoscenza dello sviluppo mentale, da Anna Nicolò, da Emanuela Quagliata su casi clinici, da Barbara Piovano sulle terapie parallele e da molti altri. Negli anni successivi tutti gli interessati alla psicoanalisi del bambino e dell'adolescente hanno presentato casi clinici e problemi di tecnica da discutere. La partecipazione era ampia e includeva anche molti psicoanalisti degli adulti che coglievano l'importanza di queste esperienze anche per il loro lavoro.

Sebbene il pensiero di Melanie Klein sia arrivato da noi in modo meno rigido di come era arrivato ai colleghi di Milano e Torino, dove l’influenza massiccia della Generali Clemens aveva molto irrigidito il modello kleiniano, come nella precedente riunione ci ha ricordato Franco Borgogno, tuttavia l’attenzione così forte rivolta al mondo interno ha spinto in diversi modi al recupero più deciso del mondo esterno. Come ho ricordato da noi c’erano la Corti e Lussana e i punti di riferimento erano soprattutto Rosenfeld e Bion e del resto la stessa Klein, come spesso lei stessa ha ricordato non trascurava l’importanza della realtà esterna, ciononostante si sentiva l’esigenza di una dialettica sempre più viva tra il mondo interno e la realtà esterna.

Questa esigenza ha spinto – e con diverse prospettive – sempre più a fare attenzione a quelli che possono essere stati i sentimenti del paziente in relazione a come sono stati vissuti i primi rapporti oggettuali e in particolare il rapporto primario. Si è cercato così di capire sempre più quanto nella formazione del mondo interno e nella struttura del Sé avessero un peso rilevante le esperienze primarie reali vissute nel rapporto primario.

Del resto lo stesso Bion aveva enfatizzato nel concetto di reverie l’importanza del rapporto primario con la madre, capace o non capace di reverie.

Si cerca così di ricostruire le esperienze primitive del bambino e da qui le immagini del “bambino maltrattato” e “del bambino che non esiste”. Comincia in quest’ottica ad avere una sua importanza anche il pensiero di Kohut che tanto si è occupato del trattamento delle ferite narcistiche e della restaurazione del Sé. Un gruppo di nostri analisti (Neri, Pallier, Soavi, Petacchi e Tagliacozzo) cominciano alla fine degli anni ‘70 a lavorare su questi temi approfondendo il tema della fusionalità che rappresenta un momento molto primitivo di “essere un tutt’uno con la madre” (T., p.65). Le vicissitudini legate a questo primo momento si inseriscono nella formazione del mondo interno del bambino prima e dell’adulto poi. Un difetto nel processo introiettivo di un oggetto buono contenente porta alla ricerca di un amore totale ed assoluto per evitare l’angoscia di perdersi e di andare a pezzi, l’angoscia di non esistere e di viversi come un bambino rifiutato che non ha diritto all’esistenza. Scrive Lydia Pallier: “Nel mio lavoro ho potuto notare che in molti pazienti alberga una fantasia molto angosciante: quella appunto di un bambino che non ha diritto all’esistenza” (p.147). E ancora Roberto Tagliacozzo sottolinea come rispetto a questi pazienti che così profondamente si sono sentiti rifiutati e umiliati e che perciò “non possono accettare di sentirsi curati, aiutati, protetti, perché sentire il bisogno e la dipendenza… significa essere svalutati, disprezzati e, come accade nei casi più gravi, distrutti, assassinati e annichiliti”, diviene fondamentale la funzione dell’analista. Scrive: “Ed è qui che l’analista è chiamato a essere presente, accogliente, tollerante col suo controtransfert, tollerando la svalutazione, al fine di ritrovare il vero bambino ‘reso mostro’ e quindi rabbioso, avido e invidioso, per farlo amare e crescere, cercando di costituire una stabilità che umanizzi la sensazione del Sé da ‘cacca-mostro’ a bambino accettato dall’analista e da se stesso” (pp.79-80).

Certamente le idee di Tagliacozzo e la sua teoria psicoanalitica si possono trovare nei suoi scritti, nel bel libro curato da Nicoletta Bonanome e Livia Tagliacozzo con l’introduzione di Antonio Di Benedetto e nella Rivista di psicoanalisi e in Psiche, di cui è stato direttore dal 1993 al 1997, ma la particolarità della sua presenza nel nostro Istituto e nel nostro Centro merita di essere ricordata. Il 12 dicembre del 1997, a pochi mesi dalla sua morte ci fu nel nostro Centro una serata in suo onore dedicata al tema della libertà, tema trattato nell’ultimo numero di Psiche da lui diretto, serata dedicata proprio al ricordarlo. Del resto la psicoanalisi era, per Roberto Tagliacozzo, un’esperienza di libertà, una possibilità straordinaria di accesso alla pensabilità – altro tema a lui molto caro – di trasformazione di sedimenti oscuri in forze mentali creative. La psicoanalisi intesa come possibilità di modificare e trasformare situazioni emotive interne in cui prevale (cito Tagliacozzo) “una profonda ferita del Sé e una profonda fragilità dell’oggetto primario introiettato” e in cui perciò non c’è stabilità interna che ci permetta di essere autonomi e liberi. Roberto Tagliacozzo sapeva bene che la psicoanalisi, pur sottolineando i vincoli e i limiti della condizione umana, ci permette un’apertura sempre maggiore ai sentimenti e alle esperienze emotive e ci rende quindi più liberi e capaci di sviluppare potenzialità sempre maggiori in noi stessi e nel rapporto con gli altri.

Mi è rimasto dentro, ed è per me una grande ricchezza, questo suo senso della psicoanalisi come esperienza di libertà, come straordinaria possibilità di accesso alla pensabilità, di trasformazione di sentimenti oscuri in forze mentali creative. Non dimenticherò mai la supervisione con lui, una bella esperienza di libertà in cui, giovane allieva impaurita e preoccupata, appresi tantissimo con il sentimento di poter essere autonoma e di lavorare con la mia mente, pur essendo accompagnata da una mano sicura e da una presenza attenta, vigile e sempre ricca di suggerimenti e di stimoli, nonché da un sorriso accogliente e affettuoso. Apprendere – come io appresi nella libertà – credo sia una delle più belle esperienze che si possano fare. "Chissà cosa ne pensa Roberto?", era la domanda che cento volte mi veniva in mente sia per questioni cliniche che per problemi societari e sempre c'era da parte sua accoglienza e comprensione. Ma “chissà cosa ne pensa Roberto” era non solo un mio interrogativo, ma di tutti noi, che confidavamo sempre nella sua saggezza. Roberto Tagliacozzo è stata una figura fondamentale nel nostro Centro. E molto è stata sofferta la sua prematura scomparsa.

Anche in altre prospettive è sempre più viva l’esigenza di un equilibrio tra l’importanza delle pulsioni primarie e i vissuti del bambino nelle esperienze primarie. La psicoanalisi italiana si è concentrata sempre più sulle emozioni, sugli affetti. Del resto questa spinta era già implicita nelle suggestioni che venivano da Rosenfeld e dalla Corti e Lussana. Due Congressi importanti: uno sul dolore mentale (1986), l’altro sugli affetti (1990). Da più parti si sentiva l’esigenza di approfondire sempre più il tema del dolore mentale.

E così nel Congresso sul dolore mentale del 1986 fu data anche a noi – allora giovani – la possibilità di partecipare. Con l’incoraggiamento e l’aiuto di Adda Corti, Antonio Gambara, Adelaide Lupinacci e io, allora giovani analisti, presentammo un lavoro sul dolore mentale. L’esperienza del soffrire ‘il dolore’ nel rapporto analitico, con particolare riferimento alla fine analisi, al vissuto controtransferale (il ‘dolore dell’analista’), e alle prime esperienze dolorose viste nell’osservazione madre-bambino. Avevamo come chair Adda Corti e discussant addirittura Anna Maria Galdo, Luciana Nissim e Stefania Manfredi Turillazzi. E Piero Bellanova ci diede un posto privilegiato nella plenaria del Congresso. Fu un’esperienza molto bella e ricca che ci mise anche in contatto con persone di altre città che divennero per noi molto importanti come Dina Vallino e Nino Ferro, con cui iniziò uno scambio ricco e continuo.

Sul dolore mentale continuammo a lavorare molto nel nostro Centro. Ricordo un lavoro di Roberto Tagliacozzo Pensieri a posteriori: il dolore mentale e la costruzione del Sé. E non a caso il libro che raccoglie i suoi scritti si intitola Ascoltare il dolore. Nel 2002 fu pubblicato da Bollati Boringhieri il mio libro Un tempo per il dolore, con introduzione di Nino Ferro e recentemente, curato da Daniele Biondo e me Una ferita all’origine e curato da Adelaide Lupinacci e Daniele Biondo, Il dolore dell’analista con articoli di Mirella Galeota, Adelia Lucattini, Laura Accetti e anche un contributo di Antonio Gambara, che ha ripreso il vecchio lavoro sul dolore dell’analista, e un contributo mio.

Nel 1990, come ricordavo prima, ci fu un Congresso sugli affetti, dove ci fu una partecipazione molto ampia di analisti del nostro Centro da Nando Riolo a Basilio Bonfiglio, a Cono Barnà, a Mirella Mattogno a PierLuigi Rossi e tanti altri.

Sempre nella direzione di approfondire i livelli primitivi dello sviluppo vanno gli interessanti lavori di Carla De Toffoli che ha sviluppato in particolare lo studio della relazione tra mente e corpo. La raccolta dei suoi scritti lo testimonia, ma anche lo studio successivo portato avanti dal suo gruppo di lavoro.

E una particolare sensibilità verso i livelli di comunicazione non-verbale l’aveva Antonio Di Benedetto con una particolare attenzione all’ascolto alla comunicazione affettiva inconscia attraverso il linguaggio dell’arte e in particolare della musica dove è importante il suono e l’intonazione. Ricordo il suo bel libro Prima della parola.

Ho ricordato con piacere questi due colleghi che ci hanno lasciato prematuramente, mentre per il resto cedo la parola agli altri perché possano comunicare direttamente. Vorrei soltanto, per concludere, ricordare la ricchezza del nostro Centro che riesce a far convivere e confrontare tante posizioni differenti, ma aperte e sempre in evoluzione.

                                      Bibliografia

Cancrini Tonia, Un tempo per il dolore, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

De Toffoli Carla, Transiti corpo-mente, Franco Angeli, Milano 2014.

Di Benedetto Antonio, Prima della parola, Franco Angeli, Milano 2000.

Lupinacci Maria Adelaide, Biondo Daniele, Accetti Laura, Galeota Mirella, Lucattini Adelia, Il dolore dell’analista, Astrolabio, Roma 2015.

Neri Claudio, Pallier Lydia, Petacchi Giancarlo, Soavi Giulio Cesare, Tagliacozzo Roberto, Fusionalità, Scritti di psicoanalisi clinica, Borla, Roma 1990.

Perrotti Nicola, L’io legato e la libertà, Astrolabio, Roma 1989

Rosenfeld Herbert (1987), Comunicazione e interpretazione, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

Tagliacozzo Roberto, Ascoltare il dolore, Astrolabio, Roma 2005

 


1 L’interesse sempre crescente che, nel mondo intero, viene rivolto alla psicologia, sta a dimostrare in modo irrefutabile un cambiamento d’orientamento del pensiero umano. L’attenzione, già rivolta a scrutare il mondo esterno… si va concentrando sempre più sul nostro mondo interiore, sulla nostra vita psichica. Non già che il mondo dello spirito, nel passato, non abbia esercitato sempre un fascino speciale: la filosofia e la letteratura ne danno prova evidente; ma l’umanità oggi non si accontenta più di brillanti discussioni o di descrizioni affascinanti, sempre problematiche: vuol indagare l’animo umano con spirito scientifico, come già ha fatto con le forze naturali. Vuol conoscere che cosa accade dietro il sipario della coscienza e della ragione e, … vuol indagare quali sono le forze che condizionano la suggestione, l’amore, l’ispirazione poetica, l’inclinazione al misticismo, la volontà di potenza; vuol sapere il perché delle nostre passioni spesso contradditorie, della nostra angoscia, dei movimenti oscuri delle masse, e via dicendo. Per rispondere a questi bisogni e a queste domande, è sorta la nuova psicologia, la psicologia del profondo, come si dice, che prende le mosse da Freud. Essa, appunto, abbandonati gli antichi orientamenti della psicologia tradizionale…si occupa, con metodo scientifico, del significato, del «senso» di ogni nostro stato d’animo e di ogni manifestazione umana, di cui ricerca la genesi profonda; cerca inoltre d’individuare le forze psichiche elementari, …Questa psicologia va estendendo sempre più il suo campo d’azione: da individuale è divenuta collettiva.

2 Nello stesso numero troviamo due recensioni. La prima aA. Hesnard E R. Laforguè, Lesprocessus d’Auto-punition, Denoël et Steele, Paris, 1931. La seconda a W. Stekel: Tormento e felicità della prole (lettere ad una madre), trad. it. del Dr. Stefano Dobò, Arti grafiche, Milano 1932.

3 Ecco cosa scrive: “E’ soltanto attraverso l’analisi dettagliata dell’aggressività e dell’invidia nel rapporto di transfert analitico e attraverso le ansie persecutorie proiettate sull’analista che si riferiscono ad esse che il Super-io e la reazione terapeutica negativa diventano più accessibili all’analisi.” Il paper sulla reazione terapeutica negativa da cui è tratta questa citazione è uno dei tanti lavori che Rosenfeld ha portato in quegli anni nei seminari che faceva. La maggior parte di questi lavori costituiscono la base di Comunicazione e interpretazione (1987). Nei seminari c’era poi sempre anche una parte clinica di supervisione di casi dei nostri soci.

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